Se fossi vissuto ai tempi del Ventennio, sarei con ogni probabilità stato antifascista. Ritengo l’antifascismo al cospetto del fascismo non solo legittimo, ma anzi doveroso: l’antifascismo à la Gramsci e à la Gobetti, per intenderci. Tuttavia, oggi (2014), a più di sessant’anni dalla fine del fascismo, ritengo che essere antifascisti sia non solo inutile, ma, di più, dannoso. In una parola: inutile, giacché il fascismo non esiste più, e non ha senso che l’anti sopravviva alla realtà cui si opponeva; dannoso, in quanto dirotta le “armi della critica” (Marx) verso la contraddizione estinta (fascismo), impedendo di combattere contro quella esistente (il nesso di forza capitalistico).
A un primo sguardo, mi pare, dunque, potersi così compendiare il paradosso dell’odierno antifascismo a sessant’anni dalla fine del fascismo: se per fascismo intendiamo il fascismo storico mussoliniano, esso si è estinto da ormai più di cinquant’anni e non ha senso, dunque, la sopravvivenza dell’-anti alla realtà cui l’-anti si contrapponeva. Se per fascismo intendiamo genericamente la violenza, oggi allora il fascismo è l’economia capitalistica (Fiscal Compact, debito, precariato, ecc.), ossia ciò che gli odierni sedicenti antifascisti accettano in silenzio.
Morale? Variate ideologica del neoliberismo trionfante, l’antifascismo oggi è solo un alibi per non essere anticapitalisti, una volgare scusa per combattere un nemico che non c’è più e accettare vigliaccamente quello esistente, il capitalismo. La divisione dell’immaginario politico secondo la bipartizione fascisti-antifascisti, ma poi anche la divisione tra una destra e una sinistra che, al di là dei nomi, risultano interscambiabili, è una preziosa risorsa simbolica per l’assoggettamento dell’opinione pubblica al profilo culturale del monoteismo del mercato, invisibile al cospetto del proliferare di tali opposizioni.
Essere antifascisti in assenza completa del fascismo o anticomunisti a vent’anni dall’estinzione del comunismo storico novecentesco costituisce un alibi per non essere anticapitalisti, facendo slittare la passione della critica dalla contraddizione reale a quella irreale perché non più sussistente. L’antifascismo svolge oggi il ruolo di fondazione e di mantenimento dell’identità di una sinistra ormai conciliata con l’ordine neoliberale, che deve dirsi antifascista per non essere anticapitalista, che deve combattere il manganello passato e non più esistente per accettare in silenzio quello invisibile se non nei suoi effetti (ingiustizia, miseria e storture d’ogni sorta hanno, privatizzazioni e precarizzazione, ecc.).
Quanta insistenza sul passato è necessaria per non vedere il presente? Quanto occorre insistere sugli orrori fortunatamente estinti per far sì che la gente non si accorga nemmeno più di quelli oggi dominanti? Quanta foga nel denunciare tutte le violenze che non siano quelle silenziose dell’economia e del mercato! Il manganello oggi ha cambiato forma, ma si fa ugualmente sentire: si chiama violenza economica, taglio delle spesa pubblica, precariato, rimozione dei diritti sociali, selvagge politiche neoliberali all’insegna dello “Stato minimo”.
Proprio come l’odierno antifascismo maniacale in assenza conclamata di fascismo e l’anticomunismo compulsivo in assenza integrale del comunismo, la divisione dell’immaginario politico secondo la bipartizione di una destra e di una sinistra che, al di là dei nomi, risultano pienamente interscambiabili è una preziosa risorsa simbolica per l’assoggettamento dell’opinione pubblica al profilo culturale del monoteismo del mercato. È in questa luce, peraltro, che si comprende per quale ragione la sinistra, specialmente quella italiana, da almeno vent’anni, abbia smesso di proporre il comunismo, l’anticapitalismo e i diritti sociali come orientamenti ideali di riferimento, per assumere come parole d’ordine esclusive l’antifascismo, l’onestà, i diritti civili, la questione morale, ecc. In Italia, questa involuzione indecente trova la sua espressione più emblematica nella tragicomica vicenda del “serpentone metamorfico PCI-PDS-DS-PD” (Costanzo Preve): vicenda nella quale è possibile leggere, in filigrana, una dialettica di progressivo abbandono dell’anticapitalismo e di graduale integrazione, oggi divenuta totale, alle logiche illogiche del mercato divinizzato.
Non più in grado di prendere posizione contro il capitalismo, a cui accorda incondizionatamente il proprio sostegno, la sinistra trova oggi il proprio ubi consistam nella difesa dei matrimoni omosessuali, nella polemica laicista contro la fede, nel pacifismo ostensivo e salmodiante, nelle sfilate femministe, nel rituale mantenimento dell’antifascismo permanente: ossia in ogni presa di posizione che non sia quella contro la teocrazia emanativa del mercato, con tutte le oscene contraddizioni che essa fisiologicamente secerne, dalla reificazione al classismo più radicale, dalle aggressioni imperialistiche alle nuove forme di sfruttamento e di schiavitù salariata.
È una storia fin troppo nota, purtroppo. i due poli alternativi e segretamente complementari dell’antifascismo rosso e dell’anticomunismo nero saturano l’immaginario politico dei giovani, ottundendone la capacità critica e rendendoli ciechi dinanzi alle contraddizioni capitalistiche, sempre invisibili nello scontro delle fazioni apparentemente opposte. Il nemico è identificato nel ritorno possibile e sempre in agguato dei totalitarismi del passato, mai in quelle leggi del mercato e in quella dittatura dell’economia che priva le nuove generazioni del futuro, del lavoro e, dunque, della dignità. Mai la subalternità strutturale dei dominati era stata accompagnata così fedelmente da quella sovrastrutturale.
E mentre i giovani antifascisti in assenza di fascismo si scontrano sulle piazze con i giovani anticomunisti in assenza di comunismo, il capitale non smette di celebrare le sue orge, quasi incredulo di vedere le teste pensanti delle nuove generazioni patire in silenzio sulla loro carne viva le conseguenze oscene del Nomos dell’economia, accettare supinamente la manipolazione organizzata del consenso e le ideologie logore delle vecchie generazioni nel frattempo passate al disincantamento. È una sorte analoga a quella che tocca, nei Promessi sposi, ai quattro capponi di Renzo, i quali, anziché prendere atto della sventura che potrebbe renderli solidali nell’orchestrare una reazione, sono intenti a beccarsi a vicenda mentre vengono condotti al comune destino.
Si spiega in questa luce la duplice dinamica dell’ideologia (Marx) e della fabbrica dei consensi (Chomsky). Esse, da un lato, proclamano superate le categorie critiche quando pure continua a essere presente il loro oggetto e, dall’altro, promuovono e incentivano quelle il cui riferimento concreto si è effettivamente estinto. Per questo, nell’odierno deserto, l’anticapitalismo, l’opposizione all’imperialismo e all’alienazione sono dichiarati oltrepassati proprio quando il capitalismo, l’imperialismo e l’alienazione sono presenti nelle forme più scandalose: e, insieme, l’antifascismo e l’anticomunismo vengono promossi su tutta linea in assenza ormai completa del fascismo e del comunismo.
Il paradosso risiede nel fatto che viene presentata come fisiologica e non nostalgica la sopravvivenza della lotta contro realtà estinte rispettivamente da sessanta e da venti anni, e sono invece dichiarate non più valide le categorie che descrivono criticamente, con straordinaria aderenza, il mondo di cui siamo abitatori. La contraddizione esistente – il nesso capitalistico – permane, e a essere congedata è la sua demistificazione critica e già potenzialmente pratica (le categorie di alienazione, imperialismo, feticismo delle merci, schiavitù del salario, ecc.). Perché tale congedo riesca in forma perfetta, occorre dirottare la passione della critica verso contraddizioni ormai estinte (fascismo e comunismo in primis).
Per tutte queste ragioni (cui se ne potrebbero aggiungere non poche altre), l’antifascismo in assenza di fascismo resta l’ideologia di chi non si accorge di essere un utile idiota al servizio di Monsieur le Capital o di chi è palesemente in cattiva fede.
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