Intervista per il Festival Mimesis

1. Lei insegna storia dell’architettura. Con questo patrimonio di conoscenza, cosa si vede dal grattacielo metaforico da cui può affacciarsi, quali sono le tendenze future dell’architettura?

Vedo tanti altri grattacieli sempre più spettacolari e questo è più che comprensibile per il fatto che questo tipo architettonico, che caratterizza profondamente ciò che tutti chiamano la Modernità, risolve una serie notevole di questioni: grande concentrazione di persone, in un’epoca in cui gli spazi a disposizione si stanno riducendo; riduzione dei costi di produzione rispetto alla rendita fondiaria e al rapporto con il numero di utenti; la concentrazione di funzioni del terziario utile all’attuale organizzazione economico sociale; il ridisegno degli spazi urbani con una diversa organizzazione degli spazi pubblici e una forte identificazione dei luoghi grazie all’effetto skyline. C’è un problema di progettazione. Ritengo che questo tipo edilizio si presti per la sua stessa natura “fantastica” ad evasioni estetizzanti, a gesti che vogliono produrre soprattutto stupore. Questo produce di certo emozioni che rischiano però di essere mere provocazioni che si consumano in tempi veloci. Credo che proprio sulla progettazione dei grattacieli si dovrebbe porre grande attenzione al rapporto tra architettura, tecnica , linguaggio e società. Ma dal grattacielo metaforico che mi propone vedo anche qualcosa d’altro, meno consolatorio o se non altro più problematico. L’architettura nel sistema idealista che( haimè!) ci caratterizza ideologicamente soprattutto in Italia, era una delle arti, secondo Hegel quella originaria perché usa pienamente (compiutamente ?) la materia e la tecnica. Quel sistema non poteva fare a meno di una dualità quella della natura contrapposta (o non coincidente) con l’artificio. Bene uno dei caratteri del nostro tempo, quello per intenderci del modo di produzione digitale è che questa distinzione non ha più alcun senso e che tutto è artificiale. Dal punto di vista filosofico questo scardina la sessa metafisica occidentale che è fondata (in tutte le sue articolazioni anche storiche) nelle dualità. Detto in modo sintetico: là dove tutto è diventato artificiale l’architettura non è più un’arte fra le arti, ma è il mondo stesso. La nostra tradizione diceva che Dio è l’architetto del mondo. Bene! Morto Dio non rimane che il mondo, un oggetto architettato e da architettare, cioè un dato che rinvia ad una possibilità di progetto, cioè di cambiamento. Questo dà all’architettura un ruolo persino cruciale e comunque una notevole responsabilità politica. Il problema dell’architettura non può quindi più essere come fare un grattacielo attraente, spettacolare capaci di dare un valore aggiunto a luoghi il più delle volte insignificanti, non potrà più essere quello di rendere il mondo più bello, o di rappresentare e dare legittimità a qualche potere, ma quello di immaginare e diffondere ( e questa sì è politica) un modo di avere cura del mondo, con i suo territori, i suoi ambienti, i suoi paesaggi, le sue case, i molti modi dell’abitare, o se volete con le sue favelas , con le sue orrende città dei rifiutati, con le sue contraddizioni. Per carità di Dio, senza assolutamente pensare che l’architetto debba assumere il ruolo del demiurgo, anzi.

2 Lei ha diretto una sezione dell’Expo 2002. Come vede l’Italia di fronte all’occasione dell’Expo 2015?

Ho vissuto direttamente il complesso sistema organizzativo di una Expo come quella Svizzera e vivo in maniera indiretta quello dell’Expo 2015 a Milano. Imparagonabile e imbarazzante non solo per le questioni del malaffare. Sarebbe interessante capire i meccanismi e confrontarli partendo dall’organizzazione de managment o della cabina di regia, per arrivare alle procedure. Ma sarebbe molto complicato e non ne abbiamo il tempo. La sintesi però è che c’è in Italia qualcosa di profondamente inquinato nei rapporti tra politica ed economia, in particolare proprio nel settore edilizio o dei lavori pubblici. Ma veniamo a considerazioni sui contenuti e sulle prospettive, sperando che alla fine tutto proceda al meglio. Il tema è di grande interesse e può essere molto importante nel rilancio planetario del made in Italy. Ho l’impressione , e se sbaglio me ne scuso, che non si sia attivato al meglio un coinvolgimento non solo organizzativo dei vari settori del made in Italy. E’ da una parte un problema di comunicazione dall’altra un problema di riorganizzazione produttiva. Mi piacerebbe sapere se e come si è affrontato questo tema ad esempio con la Confindustria. Nel tema e nello stesso made in Italy c’è un pericolo: la nostalgia o l’illusione che l’Italia sia il paese insuperabile dell’arte, della buona cucina, del bel vivere e che per questo possa fare le spallucce al mondo che viene, alle nuove tecnologie, al mondo digitale alle logiche smart. Credo che l’Expo dovrebbe essere anche l’occasione in cui l’Italia mostra il suo made in Italy in una prospettiva totalmente smart, mostrando delle politiche che tengono assieme e ibridano nuovi a antichi settori produttivi.
L’Expo Svizzera ha attirato 10 milioni di visitatori, per quella di Milano se ne prevedono 20 milioni. Sono convinto che saranno di più. Come far conoscere non solo l’Expo ma anche il paese, visto che chi viene in Italia tenderà ad approfittare dell’occasione? So che si è dato il compito ad Aldo Bonomi di aprire su questo un dialogo con i territori o se vogliamo con le regioni. Non so ancora i risultati ma immagino le resistenze. Ciò che mi stupisce è che in un processo così articolato e coinvolgente la politica non abbia pensato di approfittare dell’occasione per rivedere le leggi che riguardano in vario modo il settore del turismo, in particolare quella che delega le regioni alla gestione di questo settore. Tant’é! Sembra sempre che la politica sia da un’altra parte e non sappia cogliere nei processi in atto le ragioni e i modi per il cambiamento

3 Ci può parlare del suo interesse per Pinocchio e di come si trasforma una favola in un parco?

Vent’anni fa la Fondazione Collodi mi diede l’incarico di gestire un gruppo di lavoro per un nuovo parco di Pinocchio a Collodi. La scelta condivisa con la direzione della Fondazione era progettare un parco degli amici di Pinocchio, recuperando ovviamente in vario modo la letteratura infantile e il mondo delle favole. Il parco doveva essere sì un parco giochi, ma doveva avere anche una funzione didattica e/o pedagogica. Trasformai una collina in un Bosco delle meraviglie assieme ad un bravissimo paesaggista, Sefan Tischer. All’interno di questo Bosco chiesi a diversi architetti di progettare delle folie, cioè delle piccole architetture su alcuni temi delle favole che dovevano essere delle stazioni per giocare . Gli architetti che hanno aderito sono i seguenti: Zaha Hadid, Patrik Berger, i Nox, Alvaro Siza, Luigi Snozzi, Livio Vacchini , Daniel Libeskind e altri.Il nuovo parco di Pinocchio doveva essere anche l’occasione , coinvolgendo università e centri di ricerca, per creare un laboratorio di ricerca nell’utilizzo dei nuovo media, delle tecnologie digitali, della realtà aumentata e della intelligenza artificiale nel settore intrattenimento. Ad esempio chi entrava nella tana di Alice progettata dai Nox vedeva la propria immagine proiettata nelle parete immagine che progressivamente veniva trasformata, grazie ad un programma di morphing, in un animale (coniglio, orso, leone, topo etc.) che cambiava a seconda se il visitatore era una bambina, un bambino o un adulto. Uscendo ritornava l’immagine iniziale. La cosa più interessante di questa esperienza è stato il fatto che oltre agli aspetti urbanistici , paesaggistici o architettonici, era fondamentale tener conto degli aspetti gestionali e di quelli “poetici” o emozionali. Nel momento nel quale mi sono ritrovato a progettare ad esempio la casa di Geppetto o il ponte di Pinocchio (chiamato poi Pontocchio) ho dovuto quindi riferirmi all’immaginario della favola. Al di là dei risultati in chiave estetica (saranno altri a giudicarli) questa esperienza mi ha fatto capire meglio le logiche progettuali del così detto Postmoderno che usa nella progettazione sempre le metafore e gioca a stupire. Credo che sia giusto farlo in un parco, ma non nelle nostre città. Insomma mi ha fatto capire meglio perché resisto, meglio mi rifiuto al fatto che la nostra società venga trasformata in un immane parco a tema
4 L’architettura si colloca sempre al confine tra arte e scienza. Lei che rapporto vede tra questi due ambiti?

Questa domanda è molto pertinente, ma per rispondere dovrei rendere espliciti una serie di passaggi di natura storico-critica e teoretica a dir poco complicati: è uno dei temi sui quali ho più lavorato in questi anni che mi ha costretto a profonde revisioni che definirei ideologiche. Posso però provocatoriamente così sintetizzare: la distinzione arte e scienza presuppone l’esistenza di due metafisiche rivali, appunto arte e scienza, portatrici di due diverse verità. L’esistenza di due diverse verità apre al nihilismo otto e novecentesco e al relativismo radicale o se vogliamo all’immanenza del nuovo (o della moda) che caratterizza la Contemporaneità. Ebbene l’architettura è la dimostrazione che questa distinzione è l’esito di un errore teoretico o di un profondo equivoco filosofico. Il problema non è se e come l’architettura sta tra arte e scienza, il problema è che l’architettura stessa dimostra che questa distinzione è falocca. Lo sapeva Kant che non riesce a risolvere nella sua estetica la questione tra utile e inutile. Siccome per Kant l’arte è ( per principio) ciò che è inutile allora l’architettura non dovrebbe essere un’arte. Si salva dicendo che l’architettura ha una parte utile , quella per così dire funzionale e una inutile , la decorazione. La prima è competenza dell’ingegnere la seconda dell’architetto. Chi progetta (architetto o ingegnere che sia) sa che questa distinzione è a dir poco ingenua. Il problema riemerge costantemente e diventa significativo nelle riflessioni di Derrida là dove arriva ad affermare che l’architettura è (vado a braccio) l’ultima metafisica.

5 Ha scritto diversi libri sulla vocazione mitteleuropea di Trieste e della sua regione. Ha ancora senso descrivere così questa regione oggi, nell’era della globalizzazione planetaria?

Nell’era della globalizzazione non avviene, come si ritiene normalmente , solo una omologazione planetaria, ma la dinamica è quella, usando un neologismo, del glocale: tanto più si costituisce l’uniformità, tanto più diventano significative le differenze. La dialettica tra globale e locale , tra identità e differenza, è significativa oggi soprattutto dal punto di vista politico (geopolitico). Questa dialettica rimette in gioco la storia ( e la geografia), non più secondo i canoni idealistici. Trieste e la sua regione potrebbe giocare un ruolo molto, molto significativo nell’attuale smottamento dei sistemi territoriali e geopolitici,. Ad esempio, in un festival a Senigaglia denominato Demanio Marittimo 278 è stata attivata una rete per immaginare una riconfigurazione di una Macro Regione Adriatico-Ionica. Si può pensare ciò che si vuole di questa iniziativa, ma è comunque il sintomo di un processo di cambiamento dell’organizzazione territoriale attorno all’Adriatico che coinvolge non solo varie Regioni italiane, ma anche la Slovenia, la Croazia, il Montenegro l’Albania e la Grecia.
E’ in atto un fenomeno di straordinaria importanza globale: l’unificazione europea. Mai nella storia si è tentato di unificare la diversità se non attraverso poteri imperiali.
Questa unificazione sta modificando profondamente gli assetti territoriali del continente, ricomponendo le relazioni tra i territori. Come affermava con testardaggine Carl Schmitt: le trasformazioni degli ordinamenti territoriali diventano immediatamente giuridico-politiche. Molto semplicemente: ciò che era diviso ora si ricompone, si confronta e può anche riunirsi, aprendo a pericolosi conflitti, ma anche a straordinarie potenzialità.
E’ un fenomeno di lungo periodo. E’ come se stessimo rivedendo l’assetto postnapoleonico del Congresso di Vienna di due secoli fa, quando ancora si parlava di Impero Romano d’Occidente.
Bene! Nelle trame della globalizzazione, ovviamente post-imperiale e non post imperialista (che che ne pensi Toni Negri). il Mediterraneo è diventato del tutto marginale e ha assunto il ruolo di una “pozzanghera (altrettanto è accaduto all’Adriatico) diventando non più ciò che permise la fondazione di intere civiltà, ma elemento secondario per non dire marginale.
Ora nei sommovimenti in atto ( e in particolare con il fatto che l’unificazione dell’Europa è questione della stessa globalizzazione se non altro perché si propone come modello di una unificazione politica possibile della stessa globalizzazione) l’Adriatico può farsi regione, cioè ciò che ha delle regole e delle ragioni comuni. In ogni caso c’è un capovolgimento: è possibile guardare dal mare la terra, come se il mare non fosse un confine indistinto ma ciò che unisce, ed è anche possibile considerarlo come la piattaforma, non solo turistica, che può dare identità e sviluppo, che può accompagnare nelle nuove dinamiche della globalizzazione qualità, eccellenze, potenzialità, reti. In fondo questo un tempo accadeva e, senza voler essere nostalgici rispetto al passato, può ancora accadere proprio grazie e soprattutto grazie alle nuove forme della comunicazione. Si sta così aprendo una logica che non distingue più ad esempio tra e nord e sud , oriente e occidente, sviluppo e sottosviluppo e che apre nel contempo a logiche tutte da valutare nelle dinamiche del postnazionalismo. Credo che Trieste dovrebbe muoversi politicamente in questo scenario

 

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