Chi si occupa di storia dell’arte in Italia è colpito dalla separatezza degli studi antiquari. Questi sembrano non avere, quantomeno agli occhi di molti studiosi, implicazioni storiche o responsabilità civili specifiche. Si assume che didattica e conservazione del bene materiale esauriscano l’intero ambito di attività. Ma è così che la storia dell’arte smette di essere una disciplina umanistica, interessata alla ricostruzione di ampie vicende storiche e alla trasmissione del pensiero critico, per divenire una sorta di apprendistato: un’educazione tecnica riservata a pochi.
Vorrei considerare il tema dei rapporti tra ricerca e giornalismo culturale, cruciale per una rivista come Scenari, considerandolo dalla prospettiva di un particolare settore di studi, il mio. Chi è il destinatario della storia dell’arte? Come avvicinare un pubblico più ampio della ristretta cerchia di specialisti, collezionisti e devoti? O emancipare lo studio del passato dalle lamentazioni della nostalgia? Queste alcune domande possibili.
Alla cultura umanistica spettano importanti responsabilità. Il definanziamento dell’istruzione pubblica, comune a tutto l’Occidente ma più grave in Italia, riduce le opportunità di formazione e lavoro qualificato. Possiamo davvero mantenerci neutrali? Occorre garantire non solo la conservazione di un’eredità culturale ma tout court delle abilità interpretative, della scrittura e del ragionamento. La tradizionale distinzione accademica tra le diverse “missioni” della ricerca, che distingue in modo rigidamente gerarchico tra “scienza” e “divulgazione”, appare fuorviante.
L’efficacia educativa di un blog qualificato non può essere sottovalutata (e non dovrebbe esserlo, neppure dai “valutatori”!). Giorno dopo giorno i suoi amministratori si rivolgono a migliaia di non specialisti e ne accrescono le competenze storico-artistiche. La manutenzione di un pubblico curioso e informato gioverà in ogni caso alla ricerca. Persino l’attività di un buon social media editor, purché indipendente, ha un’utilità che non è solo pubblica ma scientifica. E’ così che le più giovani generazioni fanno storia dell’arte: creano agenzie formative online e erodono giorno dopo giorno la pomposa contrapposizione tra “università” e “mondo là fuori”.
“Gli universitari dispongono di molti strumenti per comunicare al grande pubblico”, scrive Nicholas Christof sul New York Times. “Ci sono i corsi online, i blog e i social media. Sembrano tuttavia riluttanti a profondere le perle della loro scienza su Facebok o Twitter. Ma io dico: professori, non chiudetevi nei chiostri come monaci medievali. Abbiamo bisogno di voi!”
Una più viva amicizia tra filologia e (contro-)informazione dischiude opportunità che le discipline umanistiche dovrebbero affrettarsi a cogliere. All’indagine specialistica confinata in un remoto passato possiamo affiancare il saggio-inchiesta su argomenti di attualità, ancora sprovvisti di bibliografia; o l’invenzione di nuovi “oggetti” disciplinari posti all’intersezione di più ambiti di ricerca. Intesa come conversazione portata in pubblico, la storia dell’arte non ha necessità di cercare rifugio esclusivo tra le pagine a stampa della rivista specialistica. Dialoga invece con la critica sociale e l’antropologia culturale sul piano dell’”osservazione partecipante”.
Nel discutere Non per profitto di Martha Nussbaum, libro dedicato alla difesa del ruolo civile delle Humanities, il filosofo inglese John Armstrong ha recentemente invitato gli studiosi a “salvaguardare tutto ciò che possiede un alto valore intrinseco e [a] promuovere nel pubblico la massima adesione a quel valore”. Non so bene cosa corrisponda al “valore intrinseco” di Armstrong. E’ chiaro però che la capacità di spiegare (e spiegarsi) in modo efficace acquista urgenza in un frangente di grande difficoltà per gli studi umanistici.
“I media digitali”, ha osservato Jürgen Habermas, “sono la terza grande innovazione dopo l’invenzione della scrittura e della stampa. Ma da soli non creano progresso. Nel corso dell’Ottocento, con l’aiuto di libri e giornali a larga tiratura, sono sorte sfere pubbliche nazionali. Al loro interno l’attenzione di un numero indefinito di persone poteva applicarsi simultaneamente agli stessi problemi. Questo è ciò che la Rete non sa produrre: distrae e disperde. Alle comunità online manca il collante inclusivo, la forza di una sfera pubblica che evidenzi quali cose sono importanti e quali meno. Non dovrebbero andare perse le competenze del buon vecchio giornalismo: sono indispensabili oggi non meno di ieri”.
Se è vero che il giornalismo italiano si rivolge per lo più ai politici, cui indirizza critiche pungenti o suggerimenti tanto altezzosi quanto inascoltati, faremo bene a imparare a rivolgerci a un pubblico che chiede in primo luogo di essere documentato. Immagino ricercatori universitari che conoscano le tecniche del giornalismo investigativo o del reportage – la ricognizione “sul campo”, l’acquisizione di conoscenze di primo mano, il consolidamente di un rete di informatori – e ne facciano ampio uso. Simili ricercatori disporrebbero però di un’autonomia più ampia di quella concessa agli inviati professionali e non sarebbero obbligati a inseguire in tutta fretta tracce conclamate.
Non siamo pronti a valutare l’interesse che taluni fondi sovrani mostrano per il “patrimonio” e l’eredità culturale italiani né a prevedere le conseguenze che questo potrà avere sulle politiche ambientali, della tutela o del turismo. Allo stesso modo manchiamo di rappresentazioni penetranti del mecenatismo contemporaneo, dei rapporti tra politiche culturali e marketing o dell’uso sociale della “creatività”: rappresentazioni che sappiano collocare l’”oggetto” disciplinare nel punto di intersezione tra storia dell’arte e scienze sociali. Se saremo in grado di produrle avremo sperimentato un corroborante ampliamento dei confini disciplinari e forgiato nuovi strumenti. L’utilità pubblica di ricerche esperte condotte su temi di interesse generale appare indiscutibile, e il confronto con l’attualità sprona i ricercatori a un costante processo di autoformazione.
Nel ricostruire la biografia intellettuale di Warburg in un volume a tratti incresciosamente farraginoso, Ernst Gombrich suggerisce a più riprese che l’adozione di un punto di vista storico-stilistico (anziché “iconologico”) avrebbe risparmiato all’autore della Rinascita del paganesimo antico irrisolvibili grattacapi storici e teorici. L’affermazione colpisce per quella certa aria di sospetto o di condiscendenza con cui lo storico dell’arte viennese considera il suo predecessore. Conduce tuttavia al riconoscimento dell’originalità di Warburg e del suo maggiore bersaglio polemico: la storia dell’arte estetizzante, portatrice dell’angustia che affligge i meri specialisti. “[Warburg] non considerò mai gli obiettivi accademici qualcosa di separato dalla vita”, afferma Gombrich. “In ogni suo saggio era contenuto un messaggio implicito, indirizzato alla sua epoca e scaturito da un profondo coinvolgimento personale”. Nel fondatore dell’Istituto che ancora oggi porta il suo nome l’indagine storico-critica sul “gusto” di un’epoca non è disgiunta da una più ampia riflessione morale né dall’incalzante curiosità per le origini del processo creativo, maturata a contatto con l’arte e la società contemporanee.
La proposta di correlare la storia dell’arte all’antropologia culturale, avanzata da autorevoli interpreti dell’eredità warburghiana, come Baxandall, Haskell, Settis o Ginzburg, risponde alle mutate condizioni del mondo in cui viviamo. Una seconda “mutazione” è tuttavia necessaria per assicurare alla disciplina un’utilità che non sia solo residua. Occorre cioè rigettare la “svalutazione del presente” storicamente connessa alla tradizione antiquaria e praticare la filologia nel vivo di processi culturali, economici e sociali attuali.
Di questo si tratta, per quanto possibile: affiancare (surrogare) i media corporate nella produzione di informazione qualificata e indipendente. Per ragioni di costi e partnership economico-finanziarie il network globale va ritraendosi dalle costose pratiche dell’indagine sul campo. Perché non annoverare l’inchiesta a ampio raggio o il corsivo brillante tra i compiti istituzionali del ricercatore; o esitare a prendere parte al negoziato su breaking news e palinsesti? Questo è il nostro compito: cogliere nell’attimo presente la manifestazione iniziale di vasti processi futuri: ne saranno investite istruzione, memoria, sfera pubblica, ambiente e conoscenza.
Cosa considereremo “attualità”, e perché mai? A chi apparterrà l’”immateriale” nel nostro prossimo futuro, ai grandi oligopoli o alle comunità dei cittadini? “Gli antropologi culturali”, scrive Clifford Geertz in Life Among the Anthros and Other Essays, “si apprestano oggi a lavorare in una situazione mondiale disordinata, informe e imprevedibile,… [ir]riducibile a categorizzazione ideologiche e morali e sommari giudizi politici. Una volpe nata: questo mi sembra dover essere il loro habitus naturale. Per esserlo servono genio, irrequietezza, evanescenza e un’appassionata antipatia per i ricci. Tempi interessanti, una professione mutevole: invidio coloro che erediteranno tutto questo”.
La riflessione di Geertz è condivisibile anche per ambiti disciplinari diversi. Esistono convergenze evolutive tra storia dell’arte e antropologia interpretativa.
Se il potere politico e tecnico-economico sceglie di autorappresentarsi in termini di “creatività”, questa diviene oggi la “figura” tipica dell’ideologia. Il richiamo alla “creatività” modella l’intero orizzonte storico-sociale delle aspettative e distoglie dal considerare l’insieme dei rapporti sociali in termini (poniamo) di equità o dominio. Non è chiaro come possano nascere o consolidarsi nuovi ambiti pubblici di discussione e controllo. La ricerca istituzionale può tuttavia redistribuire opportunità di scelta e formazione. E a mio parere è doveroso che lo faccia.
Questo testo di Michele Dantini è un’anticipazione dell’e-book “Arte, scienza e sfera pubblica. Saggi sull’innovazione culturale” di prossima pubblicazione.