L’archetipo è Proust. Il sapore delle madeleine, riassaggiate dopo tanti anni, lo riporta indietro nel tempo facendogli rivivere le giornate d’infanzia passate a casa della zia anziana a Combray. D’altronde, antropologi del calibro di Leroi-Gourhan si sono più volte soffermati sulla portata evocativa del senso del gusto, sulla sua particolare attitudine a farci ritrovare il tempo perduto. In tempi di gastromania come quelli che stiamo attraversando, l’episodio è diventato un cliché, dal cinema alla letteratura, fino alla scrittura su Internet di blogger o sedicenti tali, è tutto un concentrarsi sulla propria percezione, un abbandonarsi al languore vintage della memoria culinaria, volgendosi ossessivamente alla ricerca del flashback che deve pur arrivare mentre si deglutisce al rallenty nel tentativo forse un po’ patetico di guadagnare l’attimo fuggente in grado di rifondare la propria esistenza. C’è, però, di più. Essendo, come si diceva, questo deglutire e raccontare diventato di moda, a partire dalle poche (e memorabili) righe proustiane dedicate alle questione, questa tendenza ha subìto una progressiva espansione fino a giungere all’attuale proliferazione tanto che il binomio cucina-memoria è stato perfino riconosciuto in un nuovo genere letterario noto come foodoir (portmanteau delle parole food e memoir), ricco di titoli di successo da tutto il mondo. Puntando l’attenzione sulle caratteristiche di questo nuovo genere, emergono alcune considerazioni.
Ciò che subito salta all’occhio è il suo carattere ibrido: come succede spesso nell’ambito della pubblicistica che si occupa di cibo, proprio per il fatto di vivere a metà fra due mondi, quello della scrittura e quello del sapore, i testi che ne fanno parte non possono che porsi il problema della traduzione fra sensorialità diverse, in cui è il sapore a essere il grande assente da rievocare in qualche modo fra le righe. È questo uno dei problemi fondamentali, per esempio, dei libri di ricette, che, oltre alla scansione delle operazioni tecniche per eseguire un piatto, non possono esimersi dal tirare in ballo il gusto (“un piatto buonissimo”) per proseguire, in ordine di apparizione, con la sua provenienza geografica (“della tradizione piemontese”), la sua contestualizzazione (“perfetto per una cena elegante”) e così via. Si capisce quanto queste indicazioni riescano a tratteggiare una sorta di connotato esperienziale standard suscettibile di essere adattato e personalizzato dal lettore/cuciniere in base alle circostanze, in cui la ricetta vera e propria si costituisce come mero strumento in vista del momento del consumo. Una buona ricetta sarà pertanto non solo quella che guiderà alla realizzazione del piatto “perfetto” ma anche quella che riuscirà a prefigurare correttamente l’esperienza di consumo in cui il piatto cucinato troverà posto. Come a dire che è l’esperienza, la convivialità, mangiare, il vero fine della cucina. È proprio a partire dall’esigenza di circoscrivere i contorni dell’esperienza conviviale di volta in volta proposta che i libri di ricette, nati come meri elenchi di istruzioni per la preparazione dei piatti, cominciano a espandersi: fotografie, annotazioni, ricordi, consigli, fanno breccia nell’alternarsi delle ricette, inserendo i piatti, altrimenti distaccatamente descritti, dentro surrogati di storie. Finché le storie, si capisce, non prendono il sopravvento.
È quello che succede con un celebre ricettario, pubblicato nel 1954, da Alice B. Toklas, compagna di Gertrude Stein, nota poetessa americana protagonista, da espatriata, della vita culturale della Parigi dei primi del novecento. Il libro, chiamato semplicemente “The Alice B. Toklas Cookbook” (in Italia recentemente ripubblicato da Bollati Boringhieri con il titolo “I biscotti di Baudelaire. Il libro di cucina di Alice B. Toklas”) si presenta come un ibrido. Pur mantenendo l’impianto tipico del libro di cucina, Alice Toklas ne forza dall’interno la struttura, infarcendo ognuna delle ricette di dettagliate descrizioni e ricordi di vita dell’autrice durante la convivenza con Gertrude Stein in Francia. Essendo la convivenza delle due donne costellata di relazioni di alto livello con l’aristocrazia cittadina e d’incontri con i più importanti artisti del periodo, il libro finisce per somigliare a un diario in cui le ricette, sempre precise e puntuali, finiscono per diventare un elemento complementare. Esse servono, infatti, da strumento per replicare e, in un certo senso, inverare, ciò che si è appreso attraverso la narrazione. Abbandonare il racconto e passare a cucinare il “branzino Picasso” diventa, per i lettori, così, un’opportunità per continuare l’esperimento di pensiero del libro con altri mezzi, aprendosi alle suggestioni bohèmien di inizio secolo. Incorporare il cibo descritto nelle ricette diventa, quindi, un modo per incarnarne sul versante più profondo la verità, risorsa preziosa per ogni scrittore di fiction. Si capisce, quindi, che ci vuol davvero poco perché la frittata possa essere ribaltata, liberando le ricette dall’alveo della manualistica di settore per ritrovarle nella narrativa passando dal “libro di ricette con racconto” (il ricettario come lo conosciamo) al foodoir, il “racconto con ricette”. Offrire la ricetta del cibo che viene consumato nel racconto diventa così un potente mezzo di espansione intermediale della narrazione stessa. E anche in questo caso gli esempi non mancano. In particolare, si può, forse, ricordare il capostipite del genere, “Heartburn” (pubblicato in Italia da Feltrinelli con il titolo “Affari di Cuore”), romanzo autobiografico di Nora Ephron alle prese con il proprio divorzio pubblicato nel 1983. Il libro, perfetto esempio di humor ebraico newyorkese, scandisce ogni passaggio importante della storia con una ricetta, compresa quella della torta al limone che lei stessa, in preda alla rabbia, si ritroverà a tirare in faccia al marito nell’acme della crisi di coppia. Le ricette sono lo strumento che l’autrice usa per descrivere la sua New York upper class degli anni 70. Esse vengono offerte al lettore come veri e propri consigli da parte di una veterana delle storie d’amore (e dei fornelli). Il ruolo che queste ricette svolgono è fondamentale nella strutturazione del libro: è attraverso le ricette che l’autrice tara la coloritura passionale della storia, permettendo ai lettori di immergervisi concretamente. Tanti sono gli esempi divertenti contenuti nel libro: si va dal conforto che le mandorle tostate possono portare a una donna come lei, umiliata dall’avere appreso di essere tradita dal marito nonostante aspetti da lui un figlio, al sollievo di ritrovare l’acetosella della New York cosmopolita che lei stessa era stata costretta ad abbandonare per amore approdando nella molto meno frizzante e decisamente più burocratica Washington, fino alla malinconia per i tempi (l’inizio della relazione) in cui ci si dispone volentieri a passare delle ore a preparare le patate croccanti (bisogna prima lavarle e poi asciugarle) prima (di solito a metà della relazione) di cedere alla tentazione di cucinare solo patate lesse. Cucinando le ricette del libro i lettori cercano quello stesso conforto, quello stesso sollievo, quella stessa malinconia. Se è vero che Nora Ephron lavora soprattutto sul versante del riconoscimento dei tic di una certa borghesia americana, il meccanismo funziona perfettamente su altri versanti. Vediamo.
Altro fondamentale riferimento è quello a Julie Powell, che trasforma in romanzo (da cui la stessa Nora Ephron trarrà il suo film “Julie&Julia”) la sua avventura di blogger alle prese con un celebre ricettario, “Mastering the Art of French Cooking” di Julia Child. La sua sfida sarà cucinare tutte le ricette del libro, raccontandone sul suo blog. La vita quotidiana dell’autrice viene narrata insieme alla rievocazione dell’esperienza di Julia Child in un originale parallelismo.
Fra le passioni più gettonate in questo tipo di scrittura, ritroviamo, prevedibilmente, la nostalgia. C’è un bel libretto di Vincent Schiavelli, “Bruculinu America” (pubblicato in Italia da Sellerio), che rievoca la Brooklyn di inizio secolo, pieno di storie di vita e ricette (fra cui mi fa piacere segnalare le cotolette di Papà Andrea, prima di emigrare, monsù del regno). E ci può essere perfino la nostalgia del cibo sciatto e insapore della Russia sovietica, cucinarlo, per Anya Von Bremzen, autrice del recente “L’arte della cucina sovietica” uscito in Italia per Einaudi, è un modo per esorcizzare la vita di privazioni condotta durante gli anni del regime e, d’altra parte, una maniera di posizionare la sua esistenza nello scenario della grande storia: anche in questo caso, i lettori vengono messi in condizione di sperimentare da sé le passioni ambivalenti della vita sovietica, cucinando i piatti proposti nelle ricette a corredo dei ricordi.
In uno scenario di selvaggia digitalizzazione dell’editoria e di smaterializzazione del libro, potrebbe essere questa la vera frontiera del marketing esperienziale applicato alla letteratura: mettersi ai fornelli per realizzare compiutamente e allo stesso tempo espandere l’esperimento di pensiero proposto dalla fiction.