La carte postale

 

 

Estratto dal testo di J. Derrida, La carte postale, Mimesis, Milano 2015 (in pubblicazione)

 

Potreste leggere questi invii come la prefazione di un libro che non ho mai scritto. Vi avreste trovato una trattazione che va dalle poste, di ogni genere di poste, alla psicoanalisi. Non tanto per tentare una psicoanalisi dell’effetto postale, quanto piuttosto per rinviare da un evento singolare, la psicoanalisi freudiana, ad una storia e ad una tecnologia del corriere, ad una qualsiasi teoria generale dell’invio e di tutto ciò che attraverso una qualsivoglia telecomunicazione pretende destinarsi. Le tre ultime parti della presente opera, Speculare – su «Freud», Il fattore della verità, Del tutto differendo tra loro per la lunghezza, la circostanza o il pretesto, la maniera e le date. Esse, però, mantengono la memoria di questo progetto, a volte lo esibiscono anche. Quanto agli Invii, non so se la lettura ne è sostenibile. Potreste considerarli, se il cuore ve lo suggerisce, come i resti di una corrispondenza recentemente distrutta. Dal fuoco o da una figura che ne tiene il luogo, più sicuro di non lasciare niente fuori portata [hors d’atteinte] da parte di ciò che amo chiamare lingua di fuoco, neanche la cenere, se vi sia, qui, della cenere. F(u)ori [Fors] – una chance. Una corrispondenza, è ancora dir troppo o troppo poco. Forse non è una (forse più, forse meno) né molto corrispondente. Ciò resta ancora da decidere. Oggi, il sette settembre mille novecento settantanove, ci sono solo degli invii, solo degli invii di cui ciò che fu risparmiato o se preferite “salvato” (sento già mormorare “accusato” come si dice della ricezione) lo si sarà dovuto, sì, dovuto ad un principio di selezione molto strano e che giudico da parte mia, ancora oggi, contestabile, come d’altronde può esserlo in ogni occasione la griglia, il setaccio, l’economia della selezione, soprattutto se destina alla conservazione, per non dire all’archivio. In breve, con ogni rigore, non approvo questo principio, interminabilmente lo denuncio e la riconciliazione a questo riguardo è impossibile. Si potrà vedere, cammin facendo, fino a che punto vi insisto. Ma ho dovuto cedervi, a voi dirmi il perché. A te, innanzitutto: non attendo che una risposta e che essa ti ritorni. Apostrofo così. L’apostrofe è anche un genere che può darsi. Un genere ed un tono. La parola − apostrofe – dice la parola indirizzata all’unico, l’interpellanza viva (l’uomo di discorso o di scrittura interrompe l’incatenarsi continuo della sequenza, in una volta [volte] si gira [tourne] verso qualcuno, cioè qualcosa, si indirizza a te), ma la parola dice anche l’indirizzo da sviare [détourner]. Setacciare il fuoco? Non ho rinunciato a farlo, solo per rendere giustizia o ragione. In alcune epoche tento tuttavia di spiegarmi, faccio comparire una procedura, la manipolazione, di tecniche: contro-fuoco, estinzioni di voce, neve carbonica. Ciò fu nel febbraio 1979 (le lettere 4, 5 e 6 mantengono l’esposizione di alcuni strumenti), in marzo e in aprile 1979 (si troveranno delle istruzioni nelle lettere del 9 e del 15 marzo, un po’ più ragionate), infine il 26 ed il 31 luglio dello stesso anno. Affinché io l’ami ancora, prevengo, allora, l’impazienza del cattivo lettore: chiamo o accuso il lettore impaurito, pressato nel determinarsi, deciso a decidersi (per annullare − detto altrimenti − riportare tutto a sé, si vuole sapere in anticipo cosa aspettarsi, si vuole aspettare ciò che è passato, ci si vuole aspettare). Ed egli è cattivo – del cattivo non conosco altra definizione –, egli è in cattiva fede nel predestinare la sua lettura, è malvagio nel presagire. É un cattivo lettore, perché non gli piace tornare indietro. Quale che sia la loro lunghezza di origine, i passaggi spariti sono segnalati, nel luogo stesso della loro incinerazione, da un bianco di 52 segni e questa distesa della superficie distrutta, un contratto vuole che resti per sempre indeterminabile. Può trattarsi di un nome proprio o di un segno di punteggiatura, anche soltanto dell’apostrofo che rimpiazza una lettera elisa, di una parola, di una sola lettera o di numerose, può trattarsi di brevi frasi o di lunghi periodi, numerose o rare, a volte esse stesse interminate all’origine. Parlo evidentemente di un continuo ogni volta di parole o frasi, di segni che mancano all’interno, se lo si può dire, di una carta, di una lettera o di una carta-lettera. Perché gli invii totalmente inceneriti non sono potuti essere indicati da nessun segno. In un primo tempo, avevo pensato di conservare delle cifre e delle date, altrimenti detto dei luoghi dei firma, ma vi ho rinunciato. A cosa somigliò questo libro? Volevo, prima di tutto, in effetti – tale fu una delle destinazioni della mia fatica −, fare un libro: in parte per delle ragioni che restano oscure e, credo, lo resteranno sempre, in parte per altre che devo tacere. Un libro al posto di cosa? Oppure, di chi? Per quanto riguarda i 52 segni, i 52 spazi muti, si tratta di una cifra che avevo voluto simbolica e segreta – in breve un crittogramma studiato, leggete molto naïf, che mi era costato dei lunghi calcoli. Se ora dichiaro, ed è la verità, lo giuro, che ho dimenticato del tutto tanto la regola quanto gli elementi di un tale calcolo, come se li avessi gettati nel fuoco, so anticipatamente tutti i tipi di reazione che ciò non mancherà di suscitare da parte degli uni e degli altri. Potrei anche fare una lunga dissertazione a questo proposito (per, contro, con e senza la psicoanalisi), ma questo non ne è il luogo. Diciamo che la questione di questo programma è indirettamente svolta in tutta l’opera. Chi scrive? A chi? E per inviare, destinare, spedire cosa? A quale indirizzo? Senz’alcun desiderio di sorprendere, e quindi di catturare l’attenzione a forza di oscurità, devo, per l’onestà che mi rimane, dire che, alla fine, non lo so. Soprattutto non avrei accordato il minimo interesse a questa corrispondenza e a questo découpage, voglio dire, alla loro pubblicazione, se una qualche certezza, su questo punto, mi avesse soddisfatto. Il fatto che i firmatari e i destinatari non siano sempre visibilmente e necessariamente identici da un invio all’altro, che i firmatari non si confondano forzatamente con coloro che inviano, né i destinatari con coloro che ricevono, ovvero con i lettori (tu, per esempio), etc., ne farete l’esperienza e lo sentirete a volte molto vivamente e anche confusamente. Ed è a causa di ciò e del sentimento sgradevole che ne viene che prego ogni lettore ed ogni lettrice di perdonarmi. A dire il vero, non è soltanto sgradevole, vi mette infatti in rapporto, senza discrezione, con la tragedia. Vi interdice di regolare le distanze, di prenderle o di perderle. Questa fu la mia situazione, e la mia sola scusa. Stremati come siete dal movimento delle poste e dal movimento psicoanalitico − da tutto ciò che tali movimenti autorizzano a pensare in materia di falso, di finzioni, di pseudonimi, d’omonimie o anonimie – non sarete di certo rassicurati e nulla del mondo ne verrà fuori più attenuato, addolcito, familiarizzato dal fatto che assumo senza scappatoie la responsabilità di questi invii, di quel che ne resta o di quel che non ne resta, e affinché si faccia la pace ve li firmo qui col mio nome proprio, Jacques Derrida3.

7 settembre 1979



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