Il dominio dei mezzi sui fini. Il credito bancario moderno e la razionalizzazione irrazionale di Max Weber

 

 

 

 

Dominano le sezioni finanziarie della stampa, in questi mesi, le notizie sulle valutazioni del capitale di vigilanza delle banche che sarebbero – a malapena – superate da quasi tutti gli istituti Italiani, con la Montepaschi unica rimandata. Lo stordimento provocato nel lettore riguardo al valore assoluto, quasi “morale” di questa procedura maschera il fatto che le condizioni di esistenza stesse del valore di tali operazioni vanno ricercate nella idealizzazione di due principi arbitrari nel meccanismo di elargizione di credito.

Essi possono considerarsi sintomo di ciò che Max Weber descrive come razionalizzazione tipica dell’età moderna, quella in cui «non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o ingraziarseli [perché] a ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale» (Max Weber, “La scienza come professione”, in La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, 2006, P. 21). Questa razionalizzazione porterebbe ad un’assenza di riflessione sulla portata esistenziale dei mezzi tecnici stessi, i quali vengono confusi con un’autoreferenziale fonte di progresso e valore in sé di un contesto sociale. Una coscienza “razionale” deve realizzare una rigorosa analisi di quale significato originale e scopo finale abbiano certi strumenti – come quello di credito – per le necessità che la volontà umana esprime, per «il perseguimento di uno scopo definito dai valori ultimi o “significati-di-vita” attraverso la libera considerazione dei mezzi adeguati» (K. Lowith, Max Weber and Karl Marx, Routledge, 1993, P. 66). In caso contrario, vi è non solo l’accettazione passiva di alcune caratteristiche attuali di tale strumento, le quali sono spesso frutto di contingenze storiche che le rendono non più necessarie per il suo fine “reale”. Vi è anche l’ipostatizzazione di queste caratteristiche, che appaiono come espressioni di una certa naturalità e necessità umana. La razionalizzazione tipica dell’età moderna, quella in cui «non occorre più ricorrere a mezzi magici per dominare gli spiriti o ingraziarseli [perché] a ciò sopperiscono i mezzi tecnici e il calcolo razionale», diviene “irrazionale” nel momento in cui si trascura il fine ultimo “umano” di tali tecniche. Esse vengono applicate in modo auto-referenziale per moltiplicare i loro effetti, senza chiedersi se vi siano applicazioni esistenzialmente preferibili rispetto a quelle attuali.

Quali possono essere considerati, allora, “il significato originale e scopo finale” del credito, che siano il più possibile coerenti con “le necessità che la volontà umana esprime”? Per delinearli, occorre parlare di ciò che soltanto può giustificare – se non eticamente, almeno praticamente – il ricorso a tale strumento dentro il contesto nel quale opera, ovvero un’economia basata sullo scambio e, quindi, su quello che – in teoria – dovrebbe essere un arricchimento reciproco tra individui con abilità diverse.

In questo senso, lo strumento del credito appare essere giustificato dal fatto che dentro un’economia di mercato non tutti posseggono immediatamente gli strumenti adatti per mettere su una nuova attività o migliorare un’impresa in risposta alla contingente variazione della domanda. Il credito può essere definito come un implicito accordo tra un futuro produttore e la comunità di cui fa parte, in base al quale questa – per mezzo della figura che materialmente fornisce il credito – concede al primo un’anticipazione del compenso che andrà ad ottenere dalla comunità stessa, grazie ai benefici che fornirà ad essa tramite i suoi prodotti. Concepita in questo modo, la funzione del credito è quella di una coordinazione fra le “volontà di negoziazione” dei diversi individui di una società, che puntano ad ottenere i maggiori benefici tramite l’utilità dei loro prodotti e l’utilità dei prodotti dei loro pari; una coordinazione necessaria per massimizzare questa utilità reciproca, date le discrepanze temporali che possono fisiologicamente esserci tra la capacità di produrre di certi agenti economici ed il loro bisogno di risorse da altri, per vivere ed impegnarsi in tale produzione.

In ultima analisi, il senso del ricorso al meccanismo del credito, il “vantaggio” che una sua buona riuscita dà a tutte le volontà coinvolte nel processo (fornitore materiale del credito, beneficiario, venditori di beni a quest’ultimo e suoi futuri clienti) è che esso pone le condizioni materiali e relazionali per la massimizzazione della loro utilità reciproca, favorendo la creazione di nuova ricchezza. L’intero processo appare come un investimento portato avanti dall’intera comunità al fine di massimizzare le reciproche potenzialità strumentali dei suoi membri.

Notiamo, allora, che si verifica nella nostra epoca l’elezione a scopi o valori finali di caratteristiche contingenti che la dinamica materiale dell’erogazione del credito ha potuto storicamente assumere, per motivi riguardo ai quali non entriamo qui nel merito. Questo stato di cose fa virare tale dinamica nella direzione di una logica differente rispetto a quella sopra riconosciuta come coincidente allo scopo sociale del concetto di credito per la volontà umana.

Non si parlerà in questa sede del fenomeno dell’acquisizione e scambio di strumenti finanziari (che siano obbligazioni, azione, derivati, ecc..) che vengono acquistati o scambiati al solo scopo di scommettere sul valore o modificare il valore ed il rendimento degli stessi – causando un’allocazione del credito fortemente inadeguata. Ci concentreremo, più alla radice, sulle modalità di creazione del credito le quali mostrano già nella loro struttura la trasfigurazione di mezzi accidentali in fini in sé.

La struttura stessa del settore creditizio è ciò con cui dobbiamo confrontarci: anche se le banche commerciali possono concedere prestiti semplicemente accreditando elettronicamente, senza limiti pratici, una determinata quantità di denaro nel conto corrente dei loro clienti, esse necessitano del denaro della Banca Centrale per saldare ogni trasferimento che il cliente richiede di portare a termine (Cfr. M. McLeay, A. Radia e R. Thomas, “Money Creation in the Modern Economy”. Quarterly Bulletin Q1, Bank of England, 2014). Questo denaro ha un costo e ciò fa sorgere diversi problemi. Può verificarsi, per esempio, una certa congiuntura per la quale una banca trasferisca ad altre banche una quantità di denaro della Banca Centrale più grande rispetto a quella che ottiene dal resto del circuito o emettendo azioni (“Money Creation in the Modern Economy”, P. 5). Questa banca è perciò costretta a prenderne ulteriormente in prestito se vuole concedere più prestiti, alterando così la propria convenienza nel prestare denaro oppure gli interessi che essa applica, riducendo l’incentivo dei clienti a prendere in prestito oppure la loro affidabilità nel ripagare.

O ancora, a causa di crediti deteriorati o perdite derivanti da “scommesse” finanziarie, una banca commerciale può perdere denaro della Banca Centrale, causando gli stessi problemi appena descritti, anche perché essa ha bisogno di trattenere liquidità per compensare le perdite e portare subito a termine i dovuti pagamenti. E’ a causa di questi rischi individuali che le banche commerciali possono diventare strutturalmente avverse al rischio tendendo così, a causa della necessità di salvaguardare i loro affari privati, a non finanziare piccole imprese ed innovazioni che sono relativamente difficili da valutare, nonostante esse possano dare un grande contributo al progresso sociale e tecnologico della società (Cfr. J. E. Stiglitz e B. C. Greenwald, Towards a New Paradigm in Monetary Economics, Cambridge University Press, 2003).

La conseguenza di questa struttura è che gli scopi o valori finali del concetto di credito non coincidono con la massimizzazione della reciprocità economica ma, in primo luogo, con la valutazione di una convenienza o un rischio spiccatamente individuale. Ciò rappresenta uno scenario sensibilmente differente rispetto ad una valutazione dei rischi e dei benefici considerati in senso collettivo, che sarebbe coerente con la finalità del credito come investimento sociale. Un creditore privato che valuta il suo rischio personale, infatti, può essere indifferente al possibile progresso tecnico che un investimento in una start-up può apportare alla società intera, mentre sarà decisamente preoccupato per la possibile perdita di, diciamo, sessantamila Euro concessi al debitore. Non così sarà il calcolo di un ente creditizio collettivo.

In secondo luogo, a causa della struttura descritta, l’erogazione di credito può essere letta come dipendente dalla disponibilità o scarsità, all’interno di una certa rete economica circoscritta, di una specifica “materia prima” del credito che ha un certo costo: la liquidità della banca centrale (non approfondiremo qui il fatto che una certa “scarsità contestuale” di tale materia prima può anche conseguire da perdite della banca dovute non ad investimenti socialmente utili ma ad operazioni che si riflettono negli scopi del circolo autoreferenziale della trasformazione di valore degli strumenti finanziari, come sopra accennato).

In effetti, la disponibilità di liquidità nel sistema sopra descritto è in funzione soprattutto della disponibilità di liquidità di depositanti, azionisti ed investitori finanziari di una determinata banca commerciale, oltre che della capacità di ripagare da parte dei suoi debitori. L’incentivo dei primi ad investire la loro liquidità dipende dalle aspettative circa l’abilità dei banchieri nel realizzare buoni investimenti, la capacità di ripagare il debito da parte dei debitori precedenti della banca e, più in generale, dalla valutazione delle condizioni reddituali della comunità in cui tali debitori e nuovi potenziali debitori vivono. E’ chiaro che, in questo stato di cose, una istituzione di credito e la sua capacità di fornire prestiti non possono essere più considerate in funzione della creazione di reciproco potere e benefici economici tra gli individui, ma in funzione delle momentanee aspettative circa l’attuale e potenziale livello di “reciprocità” e arricchimento reciproco della rete economica della banca, che è ciò che è riflesso nell’attuale quantità di “denaro della Banca Centrale” circolante nella rete stessa. Vi è, dunque, un secondo aspetto nell’assolutizzazione di caratteristiche contingenti dello strumento del credito del sistema in cui viviamo: l’idealizzazione della necessità di una certa “materia prima” del credito, che deve essere già sufficientemente presente dentro uno specifico circuito economico.

Osserviamo ora alcuni dei più importanti tentativi degli ultimi anni di migliorare l’efficienza degli istituti di credito, come gli accordi di Basilea, dal cui principio gli stress test per la valutazione del capitale di vigilanza prendono piede. Essi impongono il mantenimento all’interno dell’istituto di credito di un patrimonio di vigilanza stimato col calcolo dei rischi di credito, dei rischi operativi e di mercato che la banca si assume, insieme a meccanismi adeguati di supervisione e trasparenza relativi al regolamento. Negli Stati Uniti poi, una holding bancaria, per essere adeguatamente capitalizzata secondo l’agenzia federale di regolazione, deve mantenere un capitale Tier 1 (capitale sicuro, soprattutto capitale netto e riserve dichiarate) di almeno il 4% sul totale degli attivi, una combinazione di capitale Tier 1 e Tier 2 (capitale meno sicuro, composto da riserve di rivalutazione e altri strumenti) di almeno il 10% ed una leva finanziaria (il rapporto tra il capitale netto dell’istituto e il totale delle attività) di almeno il 4% (FDIC Law, Regulations, Related Acts, si veda https://www.fdic.gov/regulations/laws/rules/2000-4500.html#fdic2000part325103). Lo scopo di queste regole è di assicurare che più grande sia il rischio a cui una banca è esposta, più grande debba essere la quantità di capitale che la banca deve mantenere per salvaguardare la sua solvibilità e stabilità economica. Ciò significa, d’altra parte, che la scarsità di erogazione di credito dovuta alla tutela del rischio individuale dalla banca (e dei suoi soci e clienti), come spiegata in precedenza, è solo trasferita indietro nel tempo. La base di questo è la supposizione che una maggiore tutela degli agenti economici che portano liquidità alla banca sia preferibile per minimizzare il rischio di contagio di generali aspettative reciproche negative, anche a costo di negare un maggiore credito ad altri agenti economici (Cfr. A. Angelkort e A. Stuwe, Basel III and Sme Financing, Friedrich Ebert Foundation, 2011).

Anche lo schema degli stress test, perciò, si riduce a un tentativo di incanalare quella scarsità di materia prima, che può strutturalmente crearsi, verso ambienti meno contagiosi per il circuito economico. Vi è quindi il tentativo di modificare solo “quantitativamente” i limiti delle caratteristiche sopra descritte, senza mettere in discussione il valore idealizzato con il quale esse sono arrivate a coincidere.

In un secondo testo si applicherà il confronto tra scopi “originali” del credito e le sue “razionalizzazioni irrazionali” per valutare il significato di altre misure, come il bail-out, il quantitative-easing ed i tassi d’interesse negativi. Si proporranno inoltre possibili modi per rendere effettivo un meccanismo di elargizione di credito che rispecchi il più possibile quello che è il suo scopo finale.


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