Nel libro di Stefano Solventi The Gloaming. I Radiohead e il crepuscolo del rock (Odoya, Bologna 2018) i Radiohead non sono solo i protagonisti intorno ai quali ruota l’intero discorso musicale, ma fungono anche e soprattutto da chiave narrativa attraverso la quale dispiegare gli avvenimenti di questi ultimi trent’anni ricchi di cambiamenti storici, talvolta di portata epocale. La band di Oxford, perciò, non rappresenta solo l’oggetto di questo libro, ma anche e sopratutto lo strumento mediante il quale dare ordine al caos della contemporaneità e delle proprie memorie avvolte in un passato ricco e complesso (parlando di rock), di sensazioni di fronte al mutamento repentino e anche, inevitabilmente, di innovazioni tecnologiche, perché sono esse ad aver determinato senza dubbio in primis certi cambiamenti culturali e musicali. Abbiamo approfittato della disponibilità di Solventi per porgli alcune domande su questi argomenti per i lettori di “Scenari”.
Eleonora Guzzi: Partiamo dal sottotitolo del suo libro, I Radiohead e il crepuscolo del rock: nonostante gli anni Novanta abbiano visto la diffusione del nichilismo giovanile contrapposto a un aumento del benessere senza precedenti, il rock è riuscito a farsi portavoce di tale nichilismo e di tale disagio condiviso. Oggi mi pare che non ci si possa riconoscere neppure più in un senso di nichilismo collettivo, perché a dominare il nostro tempo è l’individualismo e l’assenza di una comunità con la quale condividere un sentire comune. Lei è d’accordo con l’idea che il rock abbia bisogno di una comunità per poter rappresentare ancora qualcosa e per continuare ad avere un valore specifico, o il rock riesce lo stesso nell’impresa, per così dire, nonostante lo sguardo individualista che ha assunto la società?
Stefano Solventi: La comunità era senz’altro necessaria alla fortuna del rock, anche se preferirei utilizzare il termine “popolo”. Oggi viviamo tempi paradossali. L’abbattimento dei gradi di separazione sta determinando proprio quell’assenza di comunità che dici, una condivisione compulsiva drammaticamente priva di sostanza e memoria. Anche per quanto riguarda il rock, quelli della mia generazione hanno assistito a un processo bizzarro: probabilmente non si è mai ascoltato tanto rock quanto oggi, per lo stesso motivo per cui non si è mai ascoltata tanta musica quanto oggi. Questo, ahimè, ha determinato un’inflazione del senso del rock nell’immaginario collettivo. Di fatto, sono venuti a mancare i valori di fondo che caratterizzavano il rock e gli permettevano di “produrre” un popolo – ok, una comunità, se preferisci – a cui sentivamo di appartenere. Comprare un disco, vestirsi in un certo modo, andare a un concerto, erano gesti che confermavano questo senso di appartenenza, lo certificavano nel quotidiano. Non mancavano ricadute sul piano culturale e ideologico: l’appassionato di musica rock lo riconoscevi da come parlava, da quello che pensava, dai libri che leggeva, persino da come si muoveva o dall’auto che guidava (o a volte, va detto, anche da certe condotte non proprio positive né gradevoli). In ogni caso, il rock non è più in grado di determinare un insieme di valori in cui riconoscersi, perché la sua funzione di pungolo critico rispetto al sistema di valori dominanti è venuta meno. Credo che dipenda in parte dalla vaporizzazione delle comunità (del popolo) provocata dal web e dai social – anche se sarebbe più corretto sostenere che le comunità sono state ricollocate su un diverso piano di realtà -, ma sono convinto che la ragione principale sia un’altra: la metamorfosi dell’ascoltatore in utente. Lo streaming è una manna dal cielo per chi è cresciuto nell’epoca dei vinili prima e dei CD poi (come il sottoscritto), per chi insomma è abituato a strutturare l’ascolto su discografie, generi, scene, ma è estremamente dispersivo per chi non comprende il senso di un percorso espressivo scandito dalle uscite su supporto fisico. L’utente mette a disposizione tempo e denaro, l’ascoltatore oltre a questo aggiunge i percorsi. In mancanza di percorsi, l’utente è preda dei “suggerimenti di ascolto”, ovvero di un algoritmo che non smette un attimo di escogitare strategie di fidelizzazione. L’utente è un ascoltatore senza direzione, un naufrago musicale in balia delle rotte prestabilite, felice comunque di farsi cullare da questo mare abbacinante. Il problema è che gli utenti hanno raggiunto presto la massa critica, e in questo senso le classifiche di ascolto parlano chiaro: lo streaming privilegia pochissimi generi e pochi grandi nomi, la biodiversità musicale non è contemplata, le forze in gioco tendono a un conformismo schiacciante. In questo quadro, il rock non ha margini di manovra. È fuori dai giochi.
E.G.: È innegabile che i Radiohead costituiscano per il grande pubblico un ascolto ostico e complesso, insomma non immediato e ben poco rassicurante a un primo approccio (lei stesso scrive di non aver compreso fin da subito le loro produzioni): capire la musica dei Radiohead implica impegno. Io stessa ho incontrato diverse difficoltà durante l’ascolto dei loro album, difficoltà che ho superato nel corso degli anni, anche grazie (sempre nel mio caso) ad amici con cui ho potuto condividere questo tipo di ascolto, i quali mi hanno guidata e spronata ad attraversare il ricco universo di questa band cosi emblematica. Di quale consiglio, avvertimento o motivazione necessiterebbe, secondo lei, l’ascoltatore neofita, per addentrarsi dentro il meraviglioso ma contorto panorama dei Radiohead? Quale insegnamento potrebbe giovare all’ascoltatore, ammesso che ne possa trarne ancora qualcuno nel 2020, dalla musica dei Radiohead?
S.S.: Confesso: non credo molto agli avvertimenti, ai consigli. Penso che il rock – utilizzo il termine nel suo significato più vasto – debba fare fronte principalmente a un’esigenza. Quale? La ricerca di qualcos’altro. Ovvero, deve tentare di rispondere alla domanda: possibile che sia tutto qui? Oppure: possibile che io debba essere questo? possibile che debba accettare questo? Risposte che ovviamente non si trovano solo in certi dischi, ma anche in certi libri, in certi film e via discorrendo. Questa insoddisfazione, questo “perturbamento”, deve spronare il potenziale ascoltatore a strappare il sipario, a strutturare l’ascolto come ricerca. Se c’è questa esigenza, allora non c’è difficoltà che tenga, anzi. In tal senso i Radiohead offrono molti spunti e molte risposte. La loro discografia può spiazzare, certo, ma solo perché deve farlo. La sorpresa, la svolta, è parte integrante del loro percorso espressivo, perché ogni disco deve caratterizzarsi in maniera nitida, deve rappresentare una frattura rispetto alle aspettative e assumere senso rispetto al frangente storico. Prendi OK Computer: aveva perfettamente senso nel 1997 e per il 1997, proprio come Kid A e Amnesiac giocarono un ruolo cruciale per gli ascoltatori di inizio secolo/millennio. Se guardi alla discografia di David Bowie, degli U2 o persino dei Beatles (sto citando di proposito nomi famosi, per sottolineare che non parlo di rock “di nicchia”) noti la stessa tensione verso il cambiamento come vero e proprio codice espressivo. Se dovessi dare un avvertimento al neofita che si accinge a scoprire i Radiohead, sarebbe quindi qualcosa del genere: preparati a sorprenderti, a uscire dalla “comfort zone”, a trovare quello di cui ancora non sai di avere bisogno.
E.G.: Un aspetto del suo libro che ho apprezzato molto è stato la comparsa di molti nomi femminili all’interno della scena rock dagli anni Novanta/Duemila. In quanto donna sono sempre stata molto interessata alla relazione tra rock e ‘femminile’: per anni, in passato, ho avuto la sensazione (immotivata) che ‘chitarra elettrica/donna’ fosse un binomio che non funzionasse granché (col tempo, ampliando i miei ascolti, ho capito quanto quella convinzione fosse del tutto sbagliata, per fortuna!). Per questo motivo chiedo a lei, giornalista ed esperto musicale, e autore tra l’altro di PJ Harvey. Musiche maschere di vita (2009), quale ruolo hanno rivestito e quanto peso hanno avuto le figure femminili nel panorama rock degli ultimi trent’anni. A me pare che, nonostante a fine millennio si stesse consumando la parabola del rock, le nuove artiste in ascesa stessero invece portando al rock un contributo molto attivo, anzi innovativo: una volontà e una necessità di esprimere ancora la propria voce e la propria arte anche e soprattutto per confrontarsi con alcuni pregiudizi sociali, rinnovando e ampliando il linguaggio artistico-musicale femminile. Penso ovviamente a Bjork, a Tori Amos, alla già citata PJ Harvey… tutte ‘artiste-ribelli’, se così possiamo definirle; e non è un caso che verso la fine del libro, ragionando sul rock di questi ultimi anni, lei citi St. Vincent, artista donna.
S.S.: Bobby Gillespie, frontman dei Primal Scream, nel 2019 ha dichiarato che l’unico modo in cui la musica rock può sopravvivere è fare affidamento sulle nuove artiste. Non so se si riferisse a qualcuna in particolare, ma credo che ci sia molto di vero in questa affermazione. Esiste tutto un immaginario rock sbilanciato su atteggiamenti, angolazioni e tematiche “maschili” – quando non “machiste” – che ha francamente fatto il suo tempo. Penso che il contributo fornito da Björk, Tori Amos, PJ Harvey, Fiona Apple (il suo Fetch The Bolt Cutters tra l’altro è uno dei dischi più belli del 2020), Cat Power e, in tempi più recenti, St. Vincent, sia imprescindibile per gli ultimi sviluppi del rock, o almeno per quelli più coraggiosi. Aggiungerei Courtney Barnett, non originale ma una delle proposte rock più sanguigne e consapevoli che abbia ascoltato da dieci anni a questa parte, e persino Lana Del Rey, che ha saputo convincermi disco dopo disco con una scrittura intensa e uno stile inconfondibile (anche se mi rendo conto che con lei stiamo uscendo dall’ambito del rock). In generale, credo che le donne abbiano sempre affrontato il rock con un coraggio che molti uomini si sognano, mettendosi in gioco completamente, mettendo in gioco cioè la propria vita, la fragilità, trasformandola in forza e visione. La parabola di PJ Harvey, ad esempio, può vantare una ricchezza tematica e stilistica, nonché una “coerenza nel cambiamento”, con pochi paragoni negli ultimi trent’anni. Più ci penso, più credo che Gillespie abbia ragione.
E.G.: Nelle prime pagine del suo libro lei scrive: “mi capita spesso di chiedermi come avrei vissuto all’epoca la disponibilità e la simultaneità tipica del presente: […] il rock sarebbe stato ugualmente in cima ai miei pensieri?”. È evidente che la musica non plasma più le nostre abitudini e la nostra quotidianità, ma semmai siamo noi a scegliere quale musica ascoltare in base alla disponibilità di tempo che rimane vuoto. Come racconta molto bene mediante le sue memorie, la musica in passato rappresentava una ‘passione’, cioè permetteva agli ascoltatori di edificare una propria dimensione personale e affettiva entro cui riconoscersi al di fuori dagli obblighi sociali, un universo fatto di incontri tra individui con cui condividere i propri gusti in materia. Da ascoltatrice di musica rock nel 2020, un po’ sfiduciata forse, vorrei chiederle: è ancora possibile e ha ancora senso, sommersi come siamo da musica di ogni tipo, ritagliare del tempo da dedicare alla musica per ritrovare in essa quella dimensione interiore, spirituale, intima e quasi magica tipica di un passato in cui questa forma d’arte non si limitava a essere solo un sottofondo nella nostra vita?
S.S.: La versatilità dei dispositivi e l’efficienza delle tecnologie di streaming hanno reso possibile ascoltare di tutto in ogni momento e in ogni circostanza. Quindi, dal momento che è possibile, lo facciamo. La disponibilità è il paradigma che ha sostituito la scarsità, e confesso che per me si tratta di un fatto positivo. Ma lo è perché io concepisco dei percorsi di ascolto, strutturandoli – come ho già detto – sulle discografie, sulla contestualizzazione storica, sulle interazioni con altre situazioni musicali eccetera. Si tratta di un “difetto” tipico della mia generazione e di quelle precedenti: la nostra è una formazione “analogica”, basata sul supporto fonografico, sull’ascolto come gesto vissuto quasi ritualmente. Pensa solo alla necessità di cambiare lato del vinile: in quanto ascoltatore, ti mettevi a disposizione di un gesto, lo rendevi esclusivo, una piccola cerimonia. Ascoltare un disco non era un’attività tra altre attività, tendeva a essere un momento ben circoscritto, un rituale appunto. Al contrario, la musica in modalità “sempre e ovunque” introdotta dai primi walkman a cassette negli anni Ottanta, perfezionata dall’iPod e infine dagli Smartphone, per arrivare alla ubiquità pressoché assoluta di oggi, ha consegnato definitivamente quel “momento” al passato. Oggi l’ascolto è uno sfondo, un’attività che avviene mentre sei occupato a vivere. Chi, come me, proviene da una cultura analogica vive questa situazione in maniera inevitabilmente diversa da chi invece non ha mai avvertito la necessità né il desiderio di comprare un vinile, una cassetta o un CD, da chi addirittura non possiede neppure un lettore CD (e perché mai dovrebbe sentire il bisogno di possederlo?). Tuttavia, mi pare che ci sia un altro grave “effetto collaterale”, dalle ricadute forse anche più profonde. I servizi di streaming si basano su tecnologie e algoritmi che prevedono feedback puntuali sulle modalità di ascolto allo scopo di massimizzare la fidelizzazione dell’ascoltatore/utente. Questo, per farla breve, determina una mutazione costante della forma e del contenuto delle canzoni, che sempre più tenderanno ad adeguarsi ai parametri che consentano di agganciare il maggior numero di utenti e quindi di massimizzare il numero degli ascolti. Accade per un motivo semplice: perché è possibile. La tecnologia lo ha reso facile e tremendamente efficace. Di conseguenza, le canzoni stanno mutando: struttura, durata, sonorità, persino i titoli, tendono a soddisfare caratteristiche che le rendano più spendibili sulle piattaforme di streaming. Si tratta di un processo potentemente conformista. La “dimensione interiore, spirituale, intima e quasi magica” a cui ti riferisci esisteva proprio come infrazione alla consuetudine, come intuizione e tralignamento rispetto agli standard. Dylan sconvolse il mondo per inventare il suo linguaggio più maturo, a metà dei Sessanta congegnò un amalgama di folk, blues, RnB e rock’n’roll fusi in un impasto elettrico senza precedenti, per l’ira funesta dei puristi folk che un attimo prima lo idolatravano. Negli anni novanta Björk si è lasciata alle spalle i precedenti post-punk per fare proprie le istanze elettroniche che stavano fermentando nei club, mettendo a sistema uno stile che avrebbe segnato il decennio, e avrebbe continuato a cercare e svoltare disco dopo disco. Oggi non accade più o se accade è un fenomeno limitato, di nicchia, l’impatto sull’immaginario collettivo è ormai marginale. In ogni caso, sono costretto a ripetermi: la differenza la fai tu, scegliendo di essere ascoltatore e non utente. Se ci riesci, lo streaming può rappresentare una straordinaria opportunità di ricerca e pura, semplice, sacrosanta goduria.
E.G.: In un altro passaggio del libro lei scrive: “l’elemento fondante del rock è la possibilità sempre imminente di perdere il controllo sul processo produttivo, una caratteristica connaturata alla sua trasformazione in atto, quella di cui vuole essere trasformazione. Il rock non è un processo compiuto, ma un processo che si sta compiendo. […] Il pop tende ad essere soprattutto un prodotto”. Quale rapporto ha il rock con il mercato? Secondo lei, ciò che oggi rimane del rock sfugge alle categorizzazioni e alle logiche dell’industria musicale? Faccio riferimento, ad esempio, ad altre posizioni ideologiche (vedi Rocksofia di Alessandro Alfieri, il melangolo, Genova 2019) secondo cui il rock, fin dalla nascita, verrebbe assorbito dalle dinamiche del mercato anche quando esso critica e cerca di sovvertire tali dinamiche.
S.S.: Non ho letto Rocksofia, ma credo proprio che lo farò, ti ringrazio per la segnalazione. Concordo sull’affermazione che il rock venga assorbito dalle dinamiche dello stesso mercato che critica e cerca di sovvertire, ma non solo: ritengo che sia un prodotto di quello stesso mercato, da cui non potrebbe prescindere. Non a caso, credo, il rock nasce nel pieno degli anni Cinquanta negli USA, quando e dove si andavano definendo i modelli e le dinamiche della cosiddetta “affluent society”. Il rock può essere visto quindi come un prodotto secondario del mercato stesso, in un certo senso è il mercato che confessa di essere infestato da uno spettro, da quella domanda a cui accennavo sopra: possibile che sia tutto qui? Tanto nel rock giovane e ribelle che nel rock più maturo e persino senescente ti imbatti in questo stesso dilemma, ovvero la consapevolezza dei valori e delle regole assieme al bisogno di oltrepassare i modelli e i percorsi che quelle regole tendono a importi. Il rock è intrinsecamente utopico perché ipotizza un individuo (di cui la rock’n’roll star è l’iperbole) che non può fare a meno delle regole ma le eccede in ogni momento, perché è l’unico modo di non perdere contatto con l’autentico sé. Per questo il rock migliore prevede l’anomalia, l’inconveniente, l’incidente di percorso: perché il processo produttivo deve smarcarsi dalla pianificazione del processo industriale. I Beatles hanno inventato assieme a George Martin alcune delle sonorità più incredibili della storia del rock con procedimenti praticamente artigianali, in alcuni casi affidandosi al caso e traendo insegnamento dagli errori. I capolavori della cosiddetta trilogia berlinese di Bowie cercavano volutamente di volgere l’errore in opportunità secondo il celebre metodo delle “Strategie Oblique” di Brian Eno. Anche nei lavori dei Radiohead, ovviamente, non mancano situazioni nate da circostanze fortuite: vedi la meravigliosa Like Spinning Plates, nata dopo avere ascoltato I Will al contrario, o lo stesso titolo OK Computer, citazione da Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams riferita proprio alla richiesta di riprendere il controllo manuale della situazione. Stiamo pur sempre all’interno di un processo produttivo, d’accordo, di musica che deve arrivare a più ascoltatori possibile e quindi nella forma più efficace possibile. Ma nel caso del rock questa forma non deve mai limitarsi a obbedire agli standard, non deve proporsi di soddisfare le attese, ma prevedere la perturbazione e l’anomalia come ingrediente e additivo di questa stessa forma efficiente. C’è sempre qualche granello di sabbia nella benzina del rock: il motore è avvisato.
E.G.: Per concludere: se quasi tutta la musica oggi, in quanto ‘prodotto commerciale’, è destinata, mediante una pianificazione algoritmica, al mercato e al consumo disimpegnato e disinteressato, nell’epoca in cui i social determinano nuovi modi di fruire e creare contenuti e nuovi modi di relazionare se stessi in quanto individui ai propri interessi e ai propri ‘idoli’, può avere ancora senso scrivere di musica, raccontare e descrivere “l’impatto di un disco nella (propria) esistenza”? Quali forme e modi sceglierebbe oggi per parlare di musica?
S.S.: Non solo credo che raccontare la musica e il rock in particolare abbia ancora senso, ma che non sia mai stato tanto importante, forse perfino cruciale. Non a caso le pubblicazioni a tema musicale non stanno affatto diminuendo, anzi. Arcana, casa editrice storicamente specializzata, ma anche Minimum Fax, Sur, Mondadori, Odoya, persino Hoepli, pubblicano titoli su rock e pop a cadenza regolare. È persino nato un nuovo editore – Jimenez – con già una parte consistente del catalogo dedicata a saggi e biografie di ottimo livello. Anche la fiction e la non-fiction cinematografica o televisiva guardano alla storia del rock con molta attenzione. Forse è dovuto proprio alla storicizzazione del rock, al suo ingresso nella dimensione “classica” o, se vogliamo, leggendaria. Credo che oggi, paradossalmente, il rock sia più vivo come riferimento estetico e serbatoio di aneddoti che non come forma espressiva. Ho proprio l’impressione che lo si guardi e lo si legga più di quanto non lo si ascolti. Raccontarlo sarebbe quindi, come dire, consequenziale, e potrebbe non limitarsi a rappresentare un’attività d’evasione ma risultare cruciale per tramandare un’attitudine, un modo d’essere e di esprimere. Senza contare che è pur sempre Storia: una biografia come quella di Iggy Pop, solo per fare un esempio, si presta a interessanti sviluppi drammatici e speculativi perché il personaggio è enorme e straordinariamente sfaccettato, certo, ma se si considerano le connessioni con la crisi dell’industria automobilistica a Detroit e tutte le ricadute in termini sociali e urbanistici, ecco che la narrazione può cambiare di segno e guadagnare enorme peso specifico. In parte è ciò che ho tentato di fare con The Gloaming, dove la vicenda dei Radiohead è servita anche per confezionare un affresco sull’ultimo quarto di secolo. Credo che la musica vada raccontata per ciò che effettivamente è: una forma d’arte, in ragione di ciò strettamente connessa col tempo e le circostanze in cui ha preso vita. Il rock può essere in crisi anche profonda – indubbiamente lo è -, ma avremo sempre bisogno di storie. E il rock ne ha infinite da raccontare. Avrà pure, come si dice, “un grande futuro dietro le spalle”, ma vale la pena raccontarlo.