I party pariahs e la musica elettronica da ballo

Il clubbing racchiude un potenziale politico? I principi di solidarietà, individualità e piacere insiti in questo fenomeno possono essere interpretati come una forma di resistenza che sfugge alla grammatica dell’attivismo tradizionale? Su Scenari pubblichiamo un estratto del libro Notti Tossiche di Enrico Petrilli (Meltemi Editore, 2020)

“Parli di sesso, di droghe, di musica techno. Non è molto chiaro cosa abbia a che vedere tutto ciò con questo convegno di universitari. In sostanza hai un’idea: dopo gli anni Sessanta la maggior rivoluzione l’hanno fatta i gay ascoltando musica, drogandosi e scopando”
Paul B. Preciado, Testo tossico (2015)

Il microcosmo sorto intorno ad alcuni club e party privati nella New York di fine anni ’60 e inizio anni ’70 del secolo scorso è un punto di svolta nel divertimento notturno, in grado di proiettare la socialità danzante verso le forme assunte oggigiorno. La scena proto-elettronica newyorkese degli inizi raccoglie soggettività ai margini della cultura benestante americana e della (contro)cultura hippie di quegli anni, un’accozzaglia squilibrata di ogni sorta di outsider: membri della comunità LGBT, musicofili e musicisti senza successo, italo-, latino- e afroamericani, artisti sul lastrico ed edonisti di vario genere. Tim Lawrence (2003) li battezza party pariahs, un gruppo esiguo di persone sessualmente ed etnicamente differenziate che giocano e si divertono sperimentando con sostanze psichedeliche e ballando musica non più suonata live, ma esclusivamente registrata su supporti analogici. Nelle pagine a seguire questa ennesima metamorfosi della socialità danzante è raccontata concentrandosi su alcune figure chiave, una scelta determinata solo da ragioni narrative, all’opposto non si vorrebbe ‘personificare’ una rivoluzione che, invece, è stata il frutto di una storia complessa e corale.
Punto di ritrovo dei party pariahs sono le feste Love Saves The Day organizzate nell’appartamento di David Mancuso tra la Broadway e Bleecker Street, presto ribattezzato il Loft, una sorta di discoteca privata a cui si può accedere solo su invito. Ogni aspetto del Loft è molto curato, programmato per rendere indimenticabile l’esperienza di questi proto-clubber: il dancefloor è molto ampio ed è al centro di una stanza apparentemente vuota se non fosse per le decorazioni sui muri, palloncini colorati, un Buddha sempre posizionato tra le casse stereo e un buffet a base di frutta, bevande analcoliche e noccioline. A rendere unica una notte al Loft è però la qualità della musica, grazie alle tecnologie messe in campo – le puntine dei giradischi sono realizzate su misura da un’azienda giapponese e gli altoparlanti Klipschorn sono settati e posizionati con cura – e alla capacità di Mancuso di creare mix unici tra soul, funk, musica latina e africana (Lawrence, 2003).

Una foto del Paradise Garage a New York

Altro personaggio chiave della scena è Francis Grasso, dj al Salvation e al Sancturay, essenziale per comprendere il ruolo del disc jockey in questi setting. I dj non è un musicista mancato come vorrebbe il senso comune, a cui è riservato il compito (ritenuto semplice) di far ballare il pubblico mettendo una canzone dopo l’altra, ma un artista alle prese con una vera e propria performance creativa: parte da tracce registrate su un supporto come il vinile, le manipola e le connette le une alle altre creando un lungo tappeto musicale ed emotivo che diventa la colonna sonora del party (Brewster e Broughton, 2012). Sebbene sia stato Terry Noel – dj all’Arthur, sempre a New York – a mixare per la prima volta nel 1965 due dischi assieme, Grasso è un’universalmente riconosciuto come l’artista che ha consentito l’evoluzione da un modello di dj “selezionatore” (tipo il dj radiofonico), al dj come creatore di un’unica interrotta sorgente sonora, perché fu il primo a realizzare una transizione fluida tra due brani elaborando la tecnica del beatmatching, in cui la battuta della canzone in entrata è allineata a quella che sta per finire (Brewster e Broughton, 2012). È l’inizio di quella che Kai Fikentscher (2000, p. 43) descrive come “una nuova forma di arte vernacolare americana: l’arte del mix”.
I party di Mancuso e i dj set di Grasso segnano l’inizio di una capillare mutazione del paesaggio sonoro notturno americano. Una trasformazione che però non sarebbe mai avvenuta senza il genio di due dei loro ‘allievi’: Larry Levan e Frankie Knuckles. Due amici che tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli ’80 sperimentano con diverse tecnologie (giradischi, mixer, registratori, sintetizzatori e drum machine) dando vita a due nuovi generi musicali, il garage e la house. Con loro nasce ufficialmente la musica elettronica da ballo. Il nome dei due stili segnala il loro stretto legame con i club underground in cui hanno visto i natali: il Paradise Garage, un club gay di New York, e il Warehouse di Chicago, frequentato, invece, da gay afro- e latino-americani. Se ne aggiungerà un terzo nella seconda metà degli anni ’80: la techno, colonna sonora delle notti dei giovani afroamericani tra i ruderi delle fabbriche di Detroit (Brewster e Broughton, 2012). Nelle sue origini, quindi, la musica elettronica da ballo è il suono di una popolazione marginale di party pariahs ballata solo in quei “club di neri e gay” descritti da Collin (2009, p. 7) come “laboratori sociali, dove musica, droghe e sesso si sono intrecciati per creare innovazioni stilistiche che lentamente sono filtrate verso la società bianca ed etero”.
Innovazioni che vanno ben oltre la sola dimensione musicale. Il primo aspetto ad essere rivoluzionato riguarda la sfera spaziale: da un lato, continua l’evoluzione delle sale da ballo all’insegna della spettacolarità già iniziato con il fenomeno disco (Petrilli, 2020), dall’altro, grazie al miglioramento dei sound system portatili, sono sfruttati contesti precedentemente non destinati a questo genere di attività come parchi, fabbriche e hangar in disuso (Critcher, 2010). In seconda istanza, come abbiamo già visto, a dominare la scena non sono più le orchestre di liscio, gli ensemble jazz e le band rock, ma tocca ai dj l’arduo compito di far ballare il pubblico, mixando sorgenti sonore preregistrate su diverse supporti e compiendo molteplici operazioni sulle tracce grazie ad un numero sempre più ampio di software e hardware al suo servizio (Brewster e Broughton, 2012). Terzo, si assiste ad una mutazione negli stili di danza. Diversamente da sale da ballo e balere, i movimenti sono più liberi, non dovendo più seguire coreografie predeterminate o ballare in coppia (Lawrence, 2011). Sotto questo profilo, la musica elettronica raccoglie gli insegnamenti del rock’n’roll che, ispirandosi a sua volta alla cultura afroamericana, ha sviluppato uno stile di ballo fondato sull’improvvisazione (Novack, 2010), ma li porta all’estremo permettendo ai clubber una totale libertà di espressione (Lawrence, 2011).

Una foto del Warehouse a Chicago

Un’ultima innovazione riguarda le droghe. Una premessa necessaria in merito è il valore fondamentale (storico, sociale, percettivo e affettivo) delle alterazioni psicotrope nella storia della socialità danzante, anche prima dell’avvento della musica elettronica: la frenesia anfetaminica dei party northern soul al Twisted Wheel di Manchester, la trascendenza psichedelica dei locali hippy come l’UFO di Londra, l’eccitazione erotica di bagni e discoteche gay come il Sanctuary e il Continental Baths di New York (Brewster e Broughton, 2012). Nel mondo della musica elettronica la più amata party drug è sicuramente la 3,4-metilenediossimetanfetamina, meglio nota come ecstasy o MDMA. Sintetizzata in Germania nel 1912 presso i laboratori farmaceutici Merck nel tentativo di sviluppare un farmaco dimagrante e riscoperta negli anni ’60 da Alexander Shulgin, noto come il “patrigno dell’Ecstasy”, nonché uno dei più importanti chimici nella storia della psichedelia (Bagozzi, 1998). Dapprima impiegata segretamente da psichiatri californiani come farmaco per coppie in crisi e soggetti con difficoltà comunicative, è presto scoperta dai clubber che ne sfruttano il potenziale ricreativo e la ribattezzano Adam, perché fa sentire immersi nel giardino dell’Eden. Nonostante il suo successo nelle discoteche dal dancefloor più edonista e selvaggio, rimane una sostanza secondaria nel pantheon psicoattivo occidentale fino alla fine degli anni ’80, quando diventa il simbolo della Second Summer of Love e della rave culture (Collin, 2009).

Prima di voltare pagina, queste note introduttive sul clubbing vanno messe in comunicazione con il percorso sul piacere affrontato nei precedenti capitoli. In un’epoca in cui i locali frequentati da soggetti LGBT sono vittima dei raid violenti da parte della polizia ed è proibito dalla legge qualsiasi ballo in coppia tra uomini, spazi come il Loft di Mancuso si oppongono a questa organizzazione sociale del dispiacere e accolgono un pubblico composto in maggioranza da omosessuali. Tuttavia, Lawrence (2011, p. 233) mette in guardia a non concentrarsi solo su queste soggettività ed invita ad allargare lo sguardo per notare come questi party fossero popolati anche da donne e uomini eterosessuali come da minoranze non solo sessuali, ma anche etniche ed economiche, solo in questo modo per l’autore è possibile comprendere “la spinta politica della cultura danzereccia dei primi anni ’70, accogliente fin dagli inizi, nel tentativo di creare una comunità democratica e interculturale”. Così le discoteche, nell’essere uno spazio intermedio tra il lavoro e la casa, aperto indistintamente a uomini e donne, in quegli anni si configuravano come un attacco dal basso all’ideologia domestica moderna, nella sua rigida distinzione tra pubblico e privato, con le donne relegate alle cure domestiche.

Enrico Petrilli, Notti tossiche, (Meltemi Editore, 2020)

Ritorna utile la distinzione elaborata da Tiqqun (2001, p. 206) tra politica del gesto e politica della parola (o del discorso politico), con “il corpo degli esclusi dal discorso” come strumento da ascoltare per elaborare strategie di resistenza e mettere in atto pratiche di (contro)soggettivazione. Attraverso una prospettiva simile Fiona Buckland (2002, p. 3) riprende la concettualizzazione di Habermas sulla sfera pubblica come spazio dominato dal “medium della parola” e dall’azione discorsiva, per caratterizzare all’opposto la socialità danzante nei club queer come dominata dal “medium del movimento”: i clubber non esprimono verbalmente le proprie istanze (micro)politiche, ma attraverso la creazione di uno spazio momentaneo di creatività e divertimento, incorporano le proprie attitudini e modellano un mondo basato sui principi di “solidarietà, individualità, piacere e movimento”. Ai caffè europei settecenteschi dove la borghesia in ascesa mette in scena la propria rispettabilità ed esclude in base allo status socio-economico e al genere, rispondono dopo qualche centinaio di anni le feste queer, all’insegna della tolleranza per le differenze individuali e dell’apertura verso ogni forma di soggettività non egemonica.



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