Il Lavoro secondo Simmel

Che cosa è il lavoro? Tutti crediamo di poter rispondere a questa domanda in modo semplice e immediato. In realtà il tema lavoro apre le porte a numerosi interrogativi. Come si fa a dare valore al lavoro? Il lavoro intellettuale è equiparabile a quello intellettuale? Georg Simmel riflette in questo libro sulla questione offrendo il suo punto di vista, illuminante e acuto.
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Scenari pubblichiamo un estratto del libro Filosofia del lavoro di Georg Simmel (Mimesis Edizioni, 2021, a cura di Francesco Valagussa).

Tutte le discussioni sui fondamenti dell’economia si raccolgono attorno a un problema centrale, quello del valore economico. Che cosa significa? Per quale tramite si ascrive alle cose? Come è distribuito? Come viene goduto? Questa rilevanza del valore è ovvia. Infatti noi designiamo come valore nelle cose ciò che in esse suscita il nostro interesse – quel processo interiore assolutamente indefinibile, poiché assolutamente elementare, senza cui nel mondo non si darebbe alcun rapporto pratico con le cose. Ogni creazione umana, sulla scorta dell’intenzione che l’ha prodotta, è una produzione di valori e persino la distruzione di qualcosa può esercitare un’attrattiva soltanto nella misura in cui sia una distruzione di valori. Sopra il mondo dell’essere si erge il mondo dei valori che infatti vive soltanto nei nostri interessi e nel nostro sentire; una disposizione delle cose secondo rapporti e gerarchizzazioni che deviano in maniera notevolissima da quelle del mero essere e tuttavia arricchiscono questo essere di tutto il significato possibile per noi. Sarebbe difficile dire che cosa sia l’essere, dal momento che esso è già contenuto in ogni rappresentazione cui lo si volesse far risalire, e sarebbe altrettanto difficile desumere il valore in generale a partire da un concetto situato più in alto che già non lo contenesse di nascosto. Rivolgendosi alla sua essenza, la nostra conoscenza potrebbe giungere soltanto a rintracciare in ciascuna di quelle grandi province dell’essere quella sostanza, vicenda o forma con cui il valore è costantemente connesso, che costituiscono il suo portatore visibile o il suo rappresentante, le cui proporzioni ci mostrano la misura del valore qui realizzato. Così l’etica ha creduto di riconoscere nella felicità di tutti, o nella “buona volontà”, o nella compiutezza della personalità, o nella libera ragionevolezza dell’agire, l’elemento tramite cui il valore è legato all’ambito del volere; così la filosofia, quando ha definito la verità come accordo del pensiero con le cose, o come accordo del pensiero con se stesso, o come la ripetizione del processo del mondo all’interno della coscienza, ha voluto contrassegnare quella forma del conoscere che realizza il proprio valore; così l’estetica si è sforzata di mostrare nel “principio del bello” una figurazione o una incisività delle cose, la cui presenza più o meno perfettamente compiuta offre la misura del suo valore estetico; così anche le teorie economiche cercano di rendere conoscibili quei fatti che immettono e supportano valore economico nella realtà economica: il fatto che le cose vengano scambiate, che siano utili, che siano relativamente rare, che siano prodotti del lavoro – questi fatti appaiono per così dire come i ponti che dal mondo della realtà conducono nel mondo del valore, cosicché essi, benché appartengano interamente al primo, per mezzo del loro essere a portata di mano, mostrano che e in quale misura siano affetti dall’impronta, in sé non ulteriormente spiegabile, del valore.

Senza dunque proclamare qui uno di questi pretendenti come l’unico legittimo, vorrei sostenere la teoria del lavoro-valore per lo meno come la più interessante filosoficamente. Nel lavoro la corporeità e la spiritualità dell’uomo, il suo intelletto e la sua volontà raggiungono un’unitarietà che a queste potenze rimane preclusa sino a quando le si considera, per così dire, l’una staticamente giustapposta all’altra; il lavoro è la corrente unitaria in cui esse si mescolano come rami sorgentiferi, dissolvendo la separatezza della loro essenza nell’indivisibilità del prodotto. Se il lavoro fosse davvero l’unico portatore del valore, quest’ultimo si collocherebbe nel punto estremo di unificazione della nostra natura pratica e l’idealità della sua essenza avrebbe nel lavoro l’espressione più adeguata che essa possa trovare nella realtà esteriore. In relazione a questo significato del lavoro mi sembra una questione secondaria domandarsi se non si debba negare valore al lavoro in ragione del fatto che esso piuttosto produce i valori – come la macchina che lavora un materiale e tuttavia non possiede essa stessa la forma che gli ha impresso. Se infatti si attribuisse valore soltanto ai prodotti del lavoro umano, non potrebbe avere valore tale lavoro di per sé – che è una funzione fisiologica – ma soltanto la forza-lavoro. Questa dunque è certamente prodotta dall’uomo, e precisamente attraverso i mezzi di sussistenza che a loro volta traggono origine dal lavoro umano. Il fatto che esso poi si trasformi in lavoro reale chiaramente non richiede di nuovo lavoro, dunque non significa di per sé alcun valore; questo piuttosto, di nuovo, s’imprime soltanto nei prodotti dovuti a tale lavoro. Perciò anche l’imprenditore non comprerebbe il lavoro del lavoratore, bensì la sua forza-lavoro, e in generale per quel valore che in effetti è sufficiente alla riproduzione del medesimo (sussistenza del lavoratore). Questa separazione è certamente importante per gli scopi del socialismo, perché tale scissione fonda chiaramente la teoria secondo cui il lavoratore trattiene soltanto una parte del valore che produce. Il suo lavoro produce più valore di quello investito nella sua forza-lavoro, nella forma dei mezzi di sussistenza; mentre l’imprenditore compra l’intera forza-lavoro al valore dei mezzi di sussistenza, egli trae profitto da tutta la differenza tra il valore dei mezzi di sussistenza e quello dei prodotti finali del lavoro. Ritengo però che si tratti di una questione essenzialmente terminologica; poiché già se si indicasse come valore il lavoro, e non la forza-lavoro, al suo interno si potrebbero delimitare reciprocamente le quantità i cui valori da una parte tornano al lavoratore come stipendio, e dall’altra costituiscono il guadagno dell’imprenditore. Non voglio cimentarmi in tutto questo, in quello che segue ricerco soltanto la condizione più prossima con cui la teoria del valore-lavoro ci si presenta così spesso: essa cerca un concetto di lavoro che possa valere parimenti per il lavoro manuale e il lavoro intellettuale e arriva a identificare effettivamente il lavoro manuale come valore primario o produttore di valore, che debba valere in generale come misura di qualsiasi lavoro. Sarebbe erroneo scorgere qui soltanto una resistenza proletaria o una svalutazione generale delle prestazioni spirituali. Piuttosto qui sono all’opera cause più profonde e più complesse.

Georg Simmel, Filosofia del lavoro, (a cura di Francesco Valagussa), Mimesis Edizioni, 2021

Riguardo alla partecipazione dello spirito al lavoro, innanzitutto è stato affermato che lo spirito non sarebbe un “dispendio”, che non richiederebbe alcun ricambio perché non patisce alcun logorio e che perciò non alzerebbe i costi del prodotto; di modo che come fondamento del valore di scambio resterebbe soltanto il lavoro manuale. Quando per contro si è messo in evidenza che anche la forza intellettuale sarebbe creatrice e che dovrebbe essere sostenuta e reintegrata mediante mezzi di sussistenza almeno tanto quanto quella manuale, si è trascurato in quel frangente il momento di verità che può stare a fondamento di quella teoria, anche se soltanto a livello di sentimento istintivo. La partecipazione dello spirito a un prodotto del lavoro comporta infatti due aspetti del prodotto stesso da distinguere nettamente. Quando un falegname oggi costruisce una sedia secondo un modello consolidato da tempo, di certo non lo fa senza un dispendio di attività psichica: la mano dev’essere guidata dalla coscienza. Questo però non rappresenta assolutamente l’intera attività dello spirito investita nella sedia che, infatti, non sarebbe producibile senza l’attività intellettuale di colui che, forse da generazioni, ne ha escogitato il modello e anche la forza psichica che s’impiega a produrla costituisce una condizione pratica di questa sedia. Il contenuto di questo secondo processo intellettuale sussiste però in una forma ulteriore in cui non comporta più alcun dispendio di forza psichica, ossia come tradizione, un pensiero cioè diventato oggettivo, che ciascuno può comprendere e meditare. In questa forma esso opera nel processo di produzione del falegname odierno, costituisce il contenuto della funzione intellettuale attuale che certamente dev’essere sostenuta e portata a compimento dalla sua forza soggettiva e in virtù di quest’ultima entra nel prodotto in quanto sua forma. Dunque le due differenti attività psichiche di cui ho appena parlato sono certamente sottoposte al logorio e alla necessità di un ricambio fisiologico: tanto l’attività del falegname quanto quella dell’inventore della sedia. Ma il terzo momento intellettuale che senza dubbio è assolutamente decisivo per l’attuale realizzazione della sedia è certamente sottratto al deterioramento e migliaia di esemplari possono essere fabbricati secondo l’idea di questa sedia: essa stessa non soffre in tal modo alcun logorio, non esige alcuna riparazione e di sicuro non aumenta i costi della sedia medesima, per quanto essa costituisca il contenuto realmente intellettuale, che imprime la forma in ogni singola sedia di tale foggia. Se si distingue dunque con il rigore necessario tra il contenuto intellettuale oggettivo presente in un prodotto e la funzione intellettuale soggettiva che fa sorgere il prodotto secondo la norma di quel contenuto, si vede allora la relativa esattezza dell’affermazione secondo cui lo spirito non costerebbe nulla; certamente si vede anche la sua relativa inesattezza, dal momento che questa idea della cosa, non retribuita e non consumabile, non si realizza da sé nei prodotti, bensì unicamente per mezzo di un intelletto, il cui funzionamento attuale, in conformità a quell’idea, richiede forza organica e contribuisce al valore di costo del prodotto tanto quanto vi contribuisce la prestazione fisica, sebbene naturalmente il dispendio psichico disciplinato attraverso un contenuto così precostituito risulti assai inferiore rispetto a quello che ha catturato il contenuto originale. La differenza tra i due è la prestazione gratuita dello spirito. L’impiego di forza psicologica soggettiva così differenziata – sia essa dell’imitatore o dello scopritore – è ciò relativamente a cui si tratta di interrogarsi per comprendere quale ruolo debba ancora giocare nella formazione del valore accanto al lavoro manuale.

Il fatto che il significato del lavoro intellettuale venga ridotto a quello fisico è insomma soltanto un aspetto della tendenza assolutamente generale a stabilire un’unità del concetto di lavoro. Si tratta di rintracciare il punto comune a tutte le diverse tipologie di lavoro – a una pluralità molto più ampia e articolata rispetto alla mera antitesi tra lavoro fisico e lavoro intellettuale. Con ciò si guadagnerebbe moltissimo sia sul piano teoretico sia sul piano pratico; si otterrebbe infatti l’unità generale, qualitativa, sulla base della quale si potrebbero esprimere tutti i rapporti di valore tra i risultati dell’attività umana in maniera puramente quantitativa, per mezzo di un semplice più o meno. In tutti gli ambiti un progresso essenziale della conoscenza consiste nel fatto che dalla comparazione qualitativa degli oggetti, che rimane sempre una valutazione relativamente insicura e inesatta, si sia passati a un elemento quantitativo inequivocabile, nella misura in cui si stabilisce un’intima unità compenetrante e questa dunque, in quanto è sempre la stessa in generale e risulta assolutamente lampante, non richiede più di tenere conto dell’importanza relativa dei singoli oggetti. Sul versante socialista ciò è chiaramente una mera prosecuzione e una conseguenza dell’aspirazione a ricondurre tutti i valori in generale all’ambito economico in quanto loro punto di partenza e loro sostanza. E avrebbe dovuto sfociare inevitabilmente verso questa aspirazione, se avesse pensato la propria tendenza al livellamento fino alle estreme conseguenze. L’uguaglianza tra individui si può pensare come possibile al massimo in ambito economico; in tutti gli altri ambiti, intellettuale, sentimentale, caratteriologico, estetico, etico e così via il livellamento, anche solo quello degli “strumenti di lavoro”, risulterebbe fin da principio privo di prospettiva. Se tuttavia si vuole intraprendere tale prospettiva, non resta altro da fare se non ridurre in qualche modo questi interessi e qualità a quelli che soli permettono un’uniformità approssimativa della partizione. Sono ben consapevole che il socialismo scientifico odierno respinge da sé il riequilibrio meccanicistico-comunistico e vuole instaurare soltanto un’uguaglianza delle condizioni di lavoro a partire dalla quale la differenza di attitudine, forza e fatica deve condurre anche a una differenza di posizione e di consumi. Ma di fronte alla condizione attuale – in cui il diritto ereditario, la differenza di classe, la forza di accumulazione del capitale e tutte le possibili opportunità della congiuntura economica generano differenze assai più grandi di quelle corrispondenti alle differenze nel comportamento individuale – questo riequilibrio in effetti significherebbe non soltanto un’essenziale parificazione sotto ogni aspetto, ma mi sembra che quella parificazione, sia della proprietà sia dei consumi, rappresenti tuttora anche lo strumento di agitazione veramente efficace per le masse. Se il materialismo storico si è trasformato nel fondamento scientifico della dottrina socialista, qui la costruzione sistematica – come accade assai spesso – ha preso la strada contraria rispetto al ragionamento creativo e la teoria socialista non è mai stata desunta logicamente a partire dal materialismo storico stabilito indipendentemente, quanto piuttosto la tendenza socialista e comunista, stabilita praticamente, ha creato soltanto in un secondo tempo l’unica base per sé possibile, ossia di dichiarare gli interessi economici come il punto d’origine e il denominatore comune di tutti gli altri. Se ciò è accaduto un tempo, tuttavia, allora la stessa tendenza deve continuare in ambito economico e deve condurre la molteplicità dei suoi contenuti a un’unità che, al di là dell’intera prestazione individuale, ponga la possibilità di un’uguaglianza e di un’equità accertabili esteriormente.

Georg Simmel

A tale scopo non è ancora sufficiente l’affermazione secondo cui il valore di tutti gli oggetti dotati di valore risiederebbe nel lavoro che è servito a produrli. Con questo infatti si potrebbe pur sempre riunire la differenza qualitativa del lavoro in maniera tale che una quantità minore di un lavoro elevato costituisca un valore uguale o maggiore rispetto a una quantità considerevole di un lavoro di tipo inferiore. Con ciò verrebbe introdotta una scala di valori totalmente differente rispetto a quella che s’intendeva raggiungere. Le qualità decisive di finezza, intellettualità, difficoltà, verrebbero, infatti, pur sempre prodotte ancora una volta con e nel lavoro, e si realizzerebbero soltanto in quanto attributi del lavoro; tuttavia il momento del valore non risiederebbe più nel lavoro in quanto lavoro, bensì in un ordinamento delle qualità approntato secondo un principio del tutto autosufficiente, di cui il lavoro parrebbe un veicolo irrilevante. In tal modo la teoria del lavoro si troverebbe nello stesso dilemma nel quale incappa la filosofia morale, ossia se la produzione di sentimenti di felicità sia il valore etico assoluto. Se infatti l’azione è realmente etica nella misura in cui essa assume come risultato la felicità, ciò comporta una violazione del principio e l’introduzione di nuovi momenti di valore definitivi, nel momento in cui la felicità più pura, spirituale e raffinata viene esaltata come dotata di maggior valore. Allora sarebbe possibile il caso in cui una tale felicità, benché quantitativamente, ossia come mera felicità, inferiore rispetto a una felicità volgare, sensuale, egoistica, sarebbe comunque più auspicabile sotto un profilo morale. La teoria etica. La teoria etica della felicità perciò risulta conseguente soltanto se – calcolati tutti i fenomeni collaterali e le conseguenze – tutte le differenze etiche tra felicità sensuale e spirituale, epicurea ed estetica, egoistica e simpatetica siano, da ultimo, mere differenze di grado di uno e un solo tipo di felicità sempre uguale sul piano quantitativo. È difficile per la teoria del lavoro pienamente coerente sottrarsi alla conseguenza che, al fondo, tutte le differenze di valore percepite come inequivocabili e indiscutibili tra due prestazioni lavorative che appaiono uguali sul piano estensivo e intensivo significhino soltanto che in una si è condensato maggior lavoro che nell’altra, e che dunque soltanto un primo sguardo di sfuggita le considera contenenti un’uguale quantità di lavoro, mentre lo sguardo che penetra in profondità scopre una quantità maggiore o minore di lavoro come ragione del maggiore o minore valore.

Effettivamente questa lettura non è tanto scadente come appare a un primo sguardo. Si deve soltanto abbracciare il concetto di lavoro in maniera sufficientemente ampia. Anzitutto, se si considera il lavoro limitandolo al suo portatore individuale, allora è chiaro che in ogni prodotto del lavoro in qualche modo “elevato” non viene investita soltanto quella somma di lavoro che è stata impiegata immediatamente per questa prestazione. Piuttosto, in tale produzione dovrebbero essere tenuti in conto pro rata, in quanto lavoro richiesto per essa, tutti gli sforzi precedenti, senza cui l’attuale produzione relativamente più semplice sarebbe impossibile. Certamente la “prestazione lavorativa” del virtuoso di musica in un concerto spesso è minima in rapporto alla sua valutazione economica e ideale; tutto il contrario accade però se alla quantità di lavoro di costui vengono aggiunti gli sforzi di lunghi anni di preparazione come condizione di quella prestazione immediata. E così anche in innumerevoli altri casi un lavoro più elevato significa una forma di maggior lavoro; solo che questo non risulta percepibile a livello sensibile in una fatica momentanea, bensì nella concentrazione e nell’accumulazione di fatiche precedenti, che hanno reso possibile la prestazione attuale: nella facilità d’esecuzione con cui il maestro esegue il proprio spartito può essere incorporato uno sforzo lavorativo infinitamente maggiore che nel sudore versato da un buono a nulla, anche solo in vista di un risultato decisamente inferiore. Questa interpretazione delle differenze qualitative del lavoro nei termini di differenze quantitative si estende però al di là delle predisposizioni meramente personali. Queste predisposizioni, infatti, non bastano chiaramente a ridurre nella modalità indicata quelle qualità del lavoro che ottengono il loro rango elevato attraverso una dotazione congenita o attraverso il vantaggio di precondizioni oggettive. In questa situazione ci si deve avvalere dell’ipotesi di una trasmissione ereditaria che certamente, qui così come ovunque essa coinvolga in particolare qualità acquisite, offre soltanto una concezione del tutto generale. Se vogliamo accettare la spiegazione più diffusa dell’istinto, ossia che esso consista di esperienze accumulate dagli antenati che hanno condotto a una determinata e adeguata coordinazione di nervi e di muscoli, di cui avrebbero dotato i discendenti, in maniera tale che in questi il movimento adeguato risulti dal corrispondente stimolo nervoso in maniera puramente meccanica e senza aver bisogno della propria esperienza e del proprio esercizio – se vogliamo accettare questo, allora si può trattare la peculiare dotazione congenita come un caso particolarmente favorevole dell’istinto. E precisamente è il caso in cui la somma di tali esperienze fisiche condensate avviene in base a una direzione e mediante una tale stratificazione di elementi che all’impulso, magari assai flebile, risponde già un ricco gioco di funzioni significative e adeguate. Il fatto che il genio abbia bisogno di apprendere così poco, rispetto all’uomo comune, riguardo alla prestazione dello stesso tipo, ossia il fatto che il genio conosca le cose di cui non ha fatto esperienza – questo prodigio sembra attribuibile a una coordinazione eccezionalmente ricca e particolarmente confacente di energie ereditate. Se si risale abbastanza indietro nella sequenza ereditaria accennata sin qui e si fa luce sul fatto che tutte le esperienze e le abilità all’interno della medesima potevano essere acquisiste e affinate soltanto attraverso un lavoro e un esercizio effettivi, allora anche la peculiarità individuale della prestazione geniale appare come il risultato condensato del lavoro di generazioni. L’individuo particolarmente “dotato” sarebbe dunque quello in cui un massimo di lavoro dei suoi antenati si è accumulato in una forma latente e predisposta a un’ulteriore valorizzazione; cosicché il valore elevato che il lavoro di tale individuo possiede grazie alle proprie qualità, alla fine risale anch’esso a un sovrappiù quantitativo di lavoro, un sovrappiù che costui certamente non ha bisogno di eseguire personalmente, ma che gli rende possibile l’affinamento ulteriore soltanto attraverso la peculiarità della sua organizzazione. Dunque la prestazione che presupponesse un pari sforzo di lavoro da parte di soggetti diversi conseguirebbe livelli diversi di produzione, poiché la struttura del loro sistema psicofisico nasconde in se stessa una somma di esperienze e abilità di diverso calibro, elaborate dagli antenati e operanti con capacità differenti. E se anche si esprime la quantità di valore delle prestazioni attraverso il “tempo di lavoro socialmente necessario” per la sua produzione, invece che attraverso la quantità di lavoro richiesto nella stessa direzione, nemmeno questo si sottrae alla medesima lettura: il valore più elevato delle prestazioni che comportano un’attitudine peculiare significa allora che la società deve sempre vivere e operare per un lasso di tempo piuttosto lungo prima che essa produca di nuovo un genio; la società ha bisogno di uno spazio di tempo piuttosto esteso che determini il valore della prestazione, in questo caso non per la produzione immediata, bensì per la produzione di coloro che forniranno tale prestazione – che tuttavia compariranno soltanto a intervalli relativamente lunghi.



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