La triste realtà della finzione: il cinema di Radu Jude

L’ultimo Orso d’oro al festival di Berlino ha finalmente consacrato il lavoro di un regista quasi sconosciuto al grande pubblico: Radu Jude. I temi del suo cinema sono molto eterogenei e si alternano lungo tutta la filmografia: la famiglia sempre claustrofobica, la storia del Novecento, l’antisemitismo nella società rumena e il suo graduale passaggio dal comunismo all’europeismo, accompagnato da un continua proliferazione delle immagini e del loro uso.
Sin dal suo primo cortometraggio, (Lampa cu caciula, la storia di un padre e di un figlio che trasportano a mano un televisore rotto) Jude si è occupato del “peso” delle immagini, del loro rapporto con la realtà, del loro impatto sulla vita privata e pubblica di una nazione nata dalle ceneri di un impero dal passato iconoclasta.
L’epicentro di quest’orgia di immagini – dai cartelloni pubblicitari alle insegne dei negozi – è Bucarest, protagonista di almeno tre film nella prolifica filmografia di Jude. Ma andiamo con ordine. Dopo i primi cortometraggi (Lampa cu caciula e Alexandra) in cui indaga il rapporto politico e intimo tra genitori e figli, e dopo l’assistenza alla regia a Cristi Puiu per la Morte del Signor Lazarescu, Radu Jude gira nel 2006 il suo primo lungometraggio, Cea mai fericită fată din lume – The happiest girl in the world, dove lo scontro fra generazioni diventa un film teorico sull’impatto del consumismo in Romania. Con la storia di un’adolescente che ha vinto una macchina coi bollini dell’aranciata, Jude mette in scena il set di uno spot pubblicitario nel centro di Bucarest per mostrare il processo seriale di creazione di immagini commerciali con uno stile che paradossalmente tende all’osservazione di stampo realista: la macchina da presa lontana dall’azione, il traffico in primo piano, il suono in presa diretta.

Uno stile che viene perfezionato nel film successivo, Toată lumea din familia noastră (Everybody in our family, 2012) girato interamente in un appartamento negli squallidi palazzi della periferia di Bucarest narrati con lo stesso realismo da Philip Ó Ceallaigh nella raccolta Appunti da un bordello turco (Racconti Edizioni, 2016). Anche qui, come in molti cortometraggi di Jude, che spesso si concentrano sull’oppressione dell’istituto familiare e sul suo sfilacciarsi (Alexandra, Film for friends and family, Shadow of a cloud, It can pass through the wall) la staticità della macchina da presa registra la difficoltà di un’intimità familiare fra individui costretti a vivere in spazi molto ridotti. Un film che fa presagire una certa continuità con la corrente del nuovo cinema rumeno, che ha raccontato l’avvento della dimensione privata nella Romania post-Ceausescu.

Il primo grande successo di Jude arriva con un dramma storico girato in maniera piuttosto classica, Aferim!. Ambientato nella Valacchia del XIX secolo, il film dà inizio a una lunga riflessione sul passato della nazione rumena, sui popoli che la formano e sulle discriminazioni etniche che hanno portato alla schiavitù del popolo rom durante l’Impero ottomano. Si è parlato di western ma i grandi paesaggi in bianco e nero rivelano che lo sguardo di Jude in questo caso è puntato ai capolavori dell’est piuttosto che a John Ford: ai paesaggi de Il manoscritto trovato a Saragozza di Wojciech Has, all’affettazione grottesca di È difficile essere un dio di Aleksey German, alla levità crudele del Faust di Sokurov. Una levità che si fa rarefatta in Inimi cicatrizate (Scarred Hearts, 2016), il film più lirico di una filmografia che comprende ormai più di venti opere tra corti e lungometraggi.

Tratto dalle opere dello scrittore ebreo Max Blecher e ambientato in un sanatorio della Romania del 1937 Scarred Hearts si fregia di una costellazione di riferimenti visivi che passano dal cinema muto alla pittura di Rembrandt, in particolare la Lezione di anatomia del dottor Tulp e al saggio che ne scrive W.G. Sebald ne Gli Anelli di Saturno. Lo scrittore tedesco, analizzando il quadro, evidenzia la dimensione punitiva dei medici che si accaniscono sul cadavere di Aris Kindt, e ne denota “il realismo solo apparente”. Una definizione, questa di Sebald, che si potrebbe utilizzare per dare senso a un’opera sempre sospesa tra le pieghe di una quaestio prettamente ontologica. Ed è proprio questa ossessione per la messa in scena della messa in scena (Reconstituirea verrebbe da dire…), questo costante interrogarsi sull’atto di filmare, che fa dell’opera di Jude un caleidoscopio di stili e allo stesso tempo un manuale di teoria e storia del cinema.

Rembrandt, Lezione di anatomia del dottor Tulp (1632, Mauritshuis, L’Aia)

Nel 2017 con Țara moartă (Dead Nations) il campo teorico si allarga per fare spazio alla forma documentaria. Non a caso, il film è ambientato nello stesso doloroso 1937 di Scarred Hearts, quasi a scandire i vari passaggi del tempo e a sottolineare il progressivo acuirsi delle discriminazioni antisemite fino al massacro finale degli ebrei perpetrato dal generale Antonescu nei primi anni ‘40. Un lungo dispiegarsi di immagini scattate dal fotografo Costică Acsinte durante gli anni della guerra che diventa nelle mani del regista rumeno antropologia di una nazione.

La riflessione sui crimini di Antonescu continua in I do not care if we go down in history as barbarians (Îmi este indiferent dacă în istorie vom intra ca barbari) dove la storia – o meglio il dibattito storiografico – si fa corpo, in una ricostruzione teatrale (ed ecco che tornano ancora i fantasmi di Lucian Pintilie) di una parata militare e dello sforzo argomentativo della regista per trasformare lo spettacolo da patriottico a militante. Ancora una volta (il Godard del Disprezzo continua a fare scuola) lo scontro dialettico tra regista e produttore è un trattato di teoria del linguaggio. L’intelligenza di Jude sta nell’alleggerire il peso delle diverse esposizioni teoriche grazie a un solido impianto narrativo, ricco di colpi di scena plateali e di intrusioni dal sapore caratteristico che ricordano vagamente certe macchiette della commedia all’italiana. Piazza dell’Università a Bucarest diventa così l’agorà dove si discutono diverse posizioni politiche – Jude ha l’accortezza di dare spazio a un vasto campo di opinioni – mettendone in ridicolo le più becere. Un espediente narrativo che tornerà, anche se in forma diversa, nell’ultimo lungometraggio Sesso sfortunato o follie porno.

La revisione storica in Romania ha radici nel secolo scorso e si è servita di tutte le armi e le arti possibili, cinema incluso. Radu Jude questo ce lo mostra con la consueta ironia e così Mariana, la protagonista di I do not care if we go barbarians si ritrova nuda a guardare l’agiografia di Antonescu in televisione (Oglinda di Sergio Nicolaescu, 1994) e a riderne amaramente1. I brani del film Oglinda che riguardano l’esecuzione del generale Ion Antonescu sono stati utilizzati anche per il corto della durata di dieci minuti Cele doua Executii ale Maresalului (The Marshal’s Two Executions, 2018) dove vengono messi a confronto con le immagini reali della morte del dittatore, in un’operazione dichiaratamente influenzata dalla teoria generale del montaggio di Eisenstein : creare significato accostando immagini apparentemente distanti fra loro. Nonostante qualche irriverente accenno a Ceaușescu in Barbarians, è con Tipografic majuscul (Uppercase Print, 2020) che Radu Jude affronta gli anni bui del comunismo e uno dei suoi episodi più emblematici. Il film è tratto da una pièce teatrale di Gianina Carbunariu che racconta la vicenda di uno studente rumeno, Mugur Calinescu, colpevole nel 1981 di aver criticato pubblicamente il regime. Alla forma-teatro, piuttosto scarna, si oppone ancora una volta il materiale d’archivio, immagini televisive dell’epoca da cui si evince l’assurdità dell’enorme apparato di propaganda messo insieme dalla Securitate per perseguire uno studente di liceo, o qualsiasi altro oppositore. Documentario gemello di Dead Nations è invece Ieșirea trenurilor din gară (The exit of the trains, 2020) dove Jude collabora con lo storico Adrian Cioflâncă per dare un volto e una voce alle migliaia di ebrei uccisi dalle milizie rumene nella città di Iasi. Queste due opere, insieme all’ultima fatica di Sergei Loznitsa Babi Yar. Context ambientata nella confinante Ucraina, ridefiniscono la macabra geografia dell’Olocausto, spostandone il baricentro verso est e sottolineando la colpevolezza della popolazione locale in concorso coi nazisti. Teatro, televisione, architettura, fotografia. Radu Jude è un regista divorato dalla curiosità e l’ultimo film, Sesso sfortunato o follie porno, ne è la summa. Un film in tre parti, più l’epilogo, in cui si analizza la storia di una professoressa di liceo (Emi) che rischia il licenziamento per via di un video porno amatoriale finito in rete. Nella prima parte, che inizia col video incriminato, una lunga passeggiata della protagonista per le vie di Bucarest diventa un saggio di sociologia urbana, nel quale vengono esposti i vizi del rumeno comune, tramite un’acuta osservazione del caos cittadino. Se questa tecnica ricorda il primo lungometraggio di Jude (The happiest girl in the world, 2006) e ne tocca in parte gli stessi punti nevralgici – l’assurdità del traffico, l’assedio costante da parte di rumori di ogni natura, l’idiota varietà della merce in vendita per le strade – in questo caso la macchina da presa smette di seguire Emi per rivolgere il proprio sguardo alle trappole disumanizzanti del paesaggio urbano della capitale rumena. Nella seconda parte, un film di montaggio composto come un vocabolario fa da manuale d’istruzioni per capire la rozza direzione politica intrapresa dalla Romania negli ultimi anni che verrà esposta nell’ultima lunga sequenza del film. Presentando il film all’ultimo London Film Festival il regista ha paragonato il suo cinema allo specchio usato per sconfiggere la Medusa. Anche per lui riflettere le immagini dei vari mostri che ha creato negli anni la Romania è un atto necessario a sconfiggerli. Negli ultimi due cortometraggi, Caricaturana e Plastic semiotic riaffiora la verve satirica che si serve nel primo delle litografie ottocentesche di Honoré Daumier per commentare le notizie di attualità e nel secondo delle merci di plastica per raccontare l’immaginario tossico del mondo odierno. Queste due opere così brevi e complesse, presentate rispettivamente alle ultime edizioni dei festival di Locarno e Venezia, completano il ritratto di un regista enciclopedico e sempre più ispirato, che con la sua ossessione per i linguaggi e la maniera di rappresentarli sta ridisegnando con irriverenza la mappa del cinema europeo, dandogli la forma di un grosso fallo di plastica da inserire in bocca a una società sempre più idiota, per liberarla.

1 Oglinda in rumeno significa specchio e Radu Jude fa una sarcastica quanto improbabile allusione al film Lo Specchio di Tarkovskij, dallo stesso titolo


Tagged: ,


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139