Sospinti dal vento. Una passeggiata siciliana con Vincenzo Consolo

In occasione del decennale della scomparsa di Vincenzo Consolo, pubblichiamo su Scenari un estratto de La Sicilia passeggiata (a cura di Gianni Turchetta, Mimesis Edizioni, 2021), un viaggio ideale dello scrittore siciliano tra mito e storia nell’isola, accompagnato dagli scatti del fotografo Giuseppe Leone.

immaginiamo d’approdare sulla costa siciliana tra Thapsos e Megara Hyblaea, dove gli uomini dell’età del bronzo costruirono villaggi, dove giunsero i coloni di Micene, Megara Nisea, Calcide, Corinto; oppure d’inoltrarci nel «golfetto, più in su di punta Izzo», in quel temenos di prodigi e sortilegi, d’incanti e rapimenti, dove, nella luce aurorale d’un agosto, al giovane Rosario La Ciura, studioso di dialetti ionici, apparve, emergendo dal mare, la sirena Lighea, il cui sorriso «esprimeva soltanto se stesso, cioè una quasi bestiale gioia di esistere, una quasi divina letizia». Creatura brutale e sublime, adolescente e millenaria, innocente e sapiente, la lampedusiana Lighea, uguale ad altre due creature, meno carnali ma più concrete e reali, che un giorno, emergendo dalle dune di Megara, tornarono alla luce: la Kourotrophos, la madre possente e terrosa che allatta due figli; il Kouros astante che sulla coscia porta inciso il suo nome: «Sombrotidas, figlio di Mandrocles» (al di là del nome, chi eri tu antico ragazzo, da dove venivi, e perché il padre ti fece effigiare nel marmo?).
Non sostiamo. Procediamo su per i territori di Leontinoi dalle zolle feraci e per quelli di Akrai dai templi ferali, su per i monti Clìmiti, per gli Iblei rocciosi, per gli scabri altipiani di timo e di mirto, di ulivi, di carrubi e di mandorli, ritmati dalle geometrie dei muriccioli a secco, scanditi dalle latomie profonde, dai vivi tagli degli orridi, dalle cave dove folti crescono querce, platani, salici, pioppi, lambiti dalle acque di fiumi che portano nomi come Àcate, Ìppari, Irminio, Tellaro, Cassìbile, Ànapo… Siamo giunti: all’Ànapo che gorgoglia sonoro tra le gole di Pantàlica. Perché è da qui che vogliamo partire, per un nostro viaggio, per una nostra ricognizione della Sicilia, per inventarci, liberi come siamo da confini di geografia, da limiti d’epoca storica o da barriere tematiche, un modo, tra infiniti altri, per conoscere quest’isola al centro del Mediterraneo, questo luogo d’incrocio d’ogni vento e assalto, d’ogni dominio e d’ogni civilizzazione. «La Sicilia mi richiama l’Asia e l’Africa; trovarsi nel centro meraviglioso, dove convergono tanti raggi della storia universale, non è cosa da nulla» dice Goethe alla vigilia della sua partenza per l’Isola.

Pantàlica, foto di Giuseppe Leone

Isola della natura travagliata, isola del caos e della minaccia; terra vacillante, terra di magma e caligini, dei gessi, delle marne e degli zolfi; terra di mari inquieti, di scogli infidi, di isole fumanti; terra di pietrame, d’aridume, di squallide distese desolanti.
Isola della quiete, dell’abbandono, della bellezza dispiegata e rapinosa; terra della natura generosa, della luce chiara, delle acque, dei boschi, dei giardini e delle zagare fragranti. Isola dell’esistenza pura e contrastante. Isola dell’infanzia, dei miti e delle favole. Isola della storia. Di storia dei primordi, degli evi di scoperte e di conquiste. Storia di classici equilibri, di decadenze, di crolli, di barbarie. Crogiuolo di civiltà, babele delle razze e delle lingue. Enigma mai risolto è la Sicilia, è archetipo, aleph, geroglifico consunto, alfabeto monco.

Da Pantàlica vogliamo partire, dalla sua necropoli, dalle ripide pareti delle sue voragini traforate al pari d’un alveare da miriadi di celle, in cui pietose mani ponevano accovacciati, come dentro il grembo materno, i morti coi loro umili, primitivi oggetti (fuseruole, fibule, olle, spirali, anelli, dischi, lame, catenelle); vogliamo partire da questo luogo estremo e abissale, da questa soglia per cui si passa dalla scansione della storia all’oscurità del tempo, all’eterno circolare e immoto, dalle acque smemoranti dell’Ànapo, da questo Averno, da questo luogo di ombre trasvolate verso la notte. Poiché Pantàlica è sì un luogo di morte, ma è insieme luogo di resurrezione, di cominciamento: è luogo-simbolo di questa complessa e contrastante terra di Sicilia, della sua storia di ricorrente distruzione e di rinascita. E il simbolo è racchiuso nell’insetto d’oro, nell’ape che dà la cera e dà il miele, la luce e il nutrimento, nell’ape che va sciamando per quei luoghi,

    ...che s’infiora
una fïata e una si ritorna
là dove suo laboro s’insapora...

Sull’altopiano di Pantàlica, dove sono ancora le pietre dell’anaktoron, il palazzo del re Hyblon, dov’era la Hybla leggendaria, la città di capanni che accolse gli emigrati dalla Grecia, sopra tutti i tavolati degli Iblei, da immemorabile tempo s’è coltivato il miele: il miele ibleo famoso nell’antico, cantato dai poeti. Paesi che portano il nome di Melilli (mel) o Àvola (apicula), l’ape che compare sullo stemma di ciascuno di questi due paesi, e ancora il medaglione in pietra, con scolpite arnie e api, sulla facciata del santuario di San Sebastiano di Melilli, ci dicono di questa fiorente industria su per gli Iblei, dal territorio di Siracusa a quello di Ragusa. Antichissima industria, che dalla preistoria, attraverso gli Ebrei, gli Egizi, i Caldei, i Greci, i Romani, giunge fino a noi. L’etnologo poeta di Palazzolo Acreide, Antonino Uccello, in un suo libro ci riporta un passo dell’anonimo curatore de La Sicilia in prospettiva, pubblicato in Palermo nel 1709, che per la voce Iblei così recita: «Monti presso la terra di Melilli, copiosi di soavissimo mele per la moltitudine delle Api, che allettate dal timo, che vi si produce, ed in abbondanza, quivi soggiornano; ed imperciò non v’ha Poeta tra gli Antichi, che lasci di farne degna menzione». E i poeti, citati dall’Anonimo, sono Virgilio, Seneca, Silio Italico, Ovidio, Teocrito. A questi, altri ne aggiunge l’etnologo Burgaretta in una erudita antologia. Antica arte, quella del melato, che in questa nostra epoca di rivoluzione tecnologica, di rivolgimento culturale, miracolosamente sugli Iblei viene praticata ancora con le stesse leggi e con gli stessi riti di una volta. E i melai di Melilli, Solarino, Floridia, Noto, Àvola, Sortino, Chiaramonte, Ragusa Ibla, Modica, Scicli, discendono, come i re, da antiche famiglie di melai.

Cefalù, foto di Giuseppe Leone

E come un re ci apparve il sapiente melato di Sortino, Giuseppe Blancato, bianco di nome e bianco di capelli, assiso avanti all’uscio della casipola al centro del suo podere, in faccia alle grotticelle di Pantàlica. «Ho vissuto la mia vita con le api. L’ape e l’apicultura sono scienza in sé; conoscendolo bene, questo insetto, affascina. Nel mio ceppo familiare sono stati tutti apicultori, nonni, bisnonni avi e bisavi» ci disse. Ci portò poi a vedere le sue arnie di fèrula, accatastate sotto una tettoia, e ci offrì in una ciotola un pezzo di favo grondante miele. E disse ancora, guardando intorno per il suo podere: «Qui ogni pietra è un ricordo per gli insegnamenti e la moralità che mi trasmise mio padre».
Ci apparve allora, Blancato, come uno degli ultimi interpreti di una cultura, di una civiltà pressoché tramontata, un sopravvissuto sacerdote di una religione quasi più da nessuno praticata, la religione della tradizione immutabile legata al mito della terra. Era ancora, quello del nostro melaio, il vecchio mondo siciliano che Giovanni Verga aveva poeticamente e tragicamente rappresentato. E proprio le arnie di Blancato ci riportavano a questo brano del Mastro-don Gesualdo: «La sala stessa era ancora parata a lutto, qual era rimasta dopo la morte di don Diego, coi ritratti velati e gli alveari coperti di drappo nero torno torno per i parenti venuti al funerale, com’era l’uso nelle famiglie antiche». La sala era quella di casa Trao, una famiglia di nobili decaduti, di esseri esangui, devitalizzati, bloccati in una loro follia, che si aggiravano come fantasmi in quel palazzo quasi vuoto, ma in cui è entrato, sposando Bianca Trao, il muratore Gesualdo Motta, che dà, con la sua straordinaria energia e la sua volontà, la sua primigenia schiettezza e verità, nuovo impulso e sicurezza al casato; in quella sala, ancora parata a lutto per la morte di don Diego Trao, si celebra quel giorno il battesimo della neonata Isabella. Ecco allora che il nero luttuoso dei drappi trascolora nel bianco della vesticciola battesimale, ecco che la morte è vinta dalla vita; e gli alveari, disposti torno torno nella sala come scanni – usanza arrivata nel cuore della Sicilia, a Vizzini, forse con gli Spagnoli –, simboleggiano questo passaggio, questa metamorfosi, questa vittoria; simboleggiano, con l’immagine della ninfa o pupa – la pupa che dipingeva col giallo oro, con l’ocra, Graham Sutherland –, la vita che dal buio della cella viene alla luce.
Sciami di api, per sfascio d’arnie, rovinio di favi, forse volavano sopra le macerie la mattina dopo il notturno terremoto che squassò la costa ionica dell’Isola, i verdi Peloritani, la nera Etna, i biondi Iblei, distrusse città e villaggi. Volavano quasi a consolare profetando, col vibrare delle ali, il ronzio lieve, la rapida ricostruzione, nel tufo color miele, delle fantasiose, barocche città del Val di Noto.

Vincenzo Consolo, La Sicilia passeggiata (a cura di Gianni Turchetta, Mimesis Edizioni, 2021)

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