Quella musica che le persone crea. Il songwriting tra etnografia e musicoterapia

La musica è la lingua dello spirito.
La sua segreta corrente vibra tra il
Cuore di colui che canta e l’anima

Di colui che ascolta»

Khalil Gibran

«Tutto il problema della vita è questo:
come rompere la propria solitudine,
come comunicare con gli altri»

Cesare Pavese

Da diverse decine di anni, all’interno delle scienze sociali si sono diffusi i cosiddetti art-based methods, metodi di ricerca alternativi che escono dai confini delle classiche metodologie e sfruttano le potenzialità e la creatività delle varie forme di arte. Pittura, danza, musica, teatro hanno dato spazio a corpi e artefatti, muovendosi fra esperienza e cognizione, per avvalorare qualitativamente e quantitativamente ricerche e analisi. Esplorando i tratti relazionali della musica e dell’essere umano in quanto animale sociale, vedremo come il songwriting si configuri come utile metodo creativo di ricerca. D’altronde, come disse Beethoven: “dove le parole non arrivano, la musica parla”.

Umani: esseri singoli o plurimi?

L’antropologia, fin dai suoi esordi, ha dovuto confrontarsi con le diverse concezioni locali di persona proprie delle società all’interno delle quali etnologi e antropologi svolgevano le loro ricerche. Questo confronto con l’alterità ha portato alla creazione di una delle tante diadi oppositive che caratterizzano – o hanno caratterizzato – le teorie antropologiche (Noi/Loro, Cultura/Natura, pensiero scientifico/pensiero selvaggio, moderni/primitivi ecc.): nell’ambito dello studio della persona si è così contrapposta una concezione egocentrica, tipica delle società occidentali, a una sociocentrica delle società altre. In altri termini, all’individuo euroamericano è stato contrapposto il soggetto relazionale non-occidentale.
Individuo deriva dal latino individuus, che a sua volta ricalca il greco antico atomos nel significato di indivisibile, unico, e testimonia l’implicito antagonismo fra società e persona: l’individuo è un essere isolato e indipendente che vive in un mare di altri esseri altrettanto isolati e indipendenti. I soggetti relazionali non-occidentali, invece, vengono descritti come dividui – espressione coniata da Bastide (1973) e da McKim Marriott (1976) – ovvero come esseri relazionali plurimi, compositi, sociali: così Marilyn Strathern (1988) descrive la persona melanesiana; Marc Augé (2000), similarmente, in rapporto alle società africane sostiene che l’io è plurale, relazionale e relativo; Dirk Louw (2010), in riferimento all’etica ubuntu, riporta l’aforisma “umuntu ngumuntu ngabantu”, traducibile con “una persona è una persona in relazione alle altre persone”.
Come hanno sottolineato diversi autori, questa opposizione dicotomica si fonderebbe su un’altra contrapposizione: quella di economia e logica del mercato da un lato e società e logica del dono dall’altro. In breve, se nelle società occidentali troviamo l’homo oeconomicus in qualità di soggetto asociale astratto inserito all’interno di relazioni di mercato tra cose, la cui estrema conseguenza è la reificazione della persona, per quanto riguarda le società non-occidentali il soggetto relazionale agisce secondo una gift logic, alla cui base operano relazioni e rapporti sociali che mirano a produrre altre relazioni e a personificare le cose.

Carlo Capello (2016), seguendo la scia indicata da altri studiosi, suggerisce di trattare questa diade oppositiva in quanto strumento euristico capace di far emergere tanto le differenze quanto le somiglianze fra le svariate concezioni della persona. È in linea con tale orientamento che Jane Carsten (2004) propone allora l’idea di joined-up western person per la persona relazionale occidentale, proprio perché, benché sia caratterizzato da un forte individualismo, il soggetto occidentale è anch’esso composito e formato da valori relazionali. Un esempio, ci riferisce Carsten, può essere rappresentato, a seguito della donazione di un organo, dai tentativi di conoscenza fra ricevente e donatore (o famiglia del donatore) che testimonierebbero il sentimento relazionale di essere legato l’un l’altro. Recentemente, Francesco Remotti (2019) ha elaborato, inoltre, la più ampia definizione di condividuo, in quanto costruzione sempre in fieri del soggetto che si fonda sulla condivisione e la partecipazione interna (ego) ed esterna (io-altri) nonché su una loro gradualità, utile a rendere la molteplicità delle relazioni all’interno delle quali il soggetto stesso è coinvolto. Il condividuo, dunque, si delinea come il risultato fra somiglianze e differenze del sé e fra il sé e gli altri, e si propone di andare oltre l’opposizione individuo-dividuo, per sottolineare come la persona sia sempre relazionale, composita e in divenire.

Musica come dono

La nozione di dividuo (o comunque l’idea di soggetto umano in quanto universo sociale relazionale) è anche alla base dei concetti – ora caratterizzanti gli studi antropologici della parentela – di relazionalità (Carsten 2000, 2004) e di reciprocità dell’essere (Sahlins 2014), che, sottolineando entrambi l’importanza delle emozioni e degli scambi, si configurano rispettivamente come: una pratica processuale e quotidiana di costruzione dei legami, basata sulla convivialità, sul quotidiano nutrirsi e vivere assieme; e “una relazione fra persone le cui esistenze sono intrinsecamente connesse” (Shalins 2014: 10).
All’interno dell’antropologia della parentela, sin dagli albori della disciplina, lo studio del dono ha ricoperto un ruolo protagonista in quanto pratica capace di creare e dissolvere legami. Le ricerche di Elaine Hutchinson (2000), per esempio, dimostrano molto chiaramente come nel contesto Nuer nel Sud Sudan la connessione e la disgregazione dei legami di relazionalità passi non solamente attraverso il sangue e il bestiame, ma anche attraverso scambi di denaro, carta e armi, e come questi mezzi siano reciprocamente intercambiabili in contesti sociali instabili. E lo sanno molto bene anche gli antropologi stessi, i quali durante le etnografie spesso ritrovano nelle situazioni di convivialità (i pasti, le bevute, i raduni sportivi, i funerali, ecc) e negli scambi momenti pregni di significato che rivoluzionano qualitativamente le relazioni con i propri interlocutori. Insomma, doni, convivialità, partecipazione ed emozioni sostanziano e addensano i legami relazionali.

La musica può configurarsi allora come un fatto sociale che opera nella creazione di questi legami interpersonali. Chiunque abbia partecipato ad un concerto sa quanto è facile entrare in connessione con gli altri astanti attraverso azioni di canto o ballo condivisi, capaci di creare un certo grado di emozioni. Ciononostante, l’esperienza suggerisce che il valore relazionale della musica non possa essere limitato a quello situazionale dell’ascolto dell’evento musicale in sé, ma debba essere allargato ad altre particolari forme e circostanze. L’atto di creazione di una canzone per mano di diversi soggetti, infatti, può essere letto come momento cognitivo e azione sociale in grado di dar vita a un interscambio – nel senso di dono reciproco – processuale e ripetitivo. Tuttavia, essendo il suono effimero per natura, nella misura in cui scompare nell’istante in cui si fa udire, ciò che rimane di questo interscambio sono le emozioni che tale processo ha scaturito, il vero dono restante una volta esaurito lo scambio sonoro. In più, come sottolinea acutamente David Le Breton (2007) nella sua antropologia dei sensi, l’udito, attraverso cui esperiamo il suono, è il senso dell’interiorità perché porta il mondo dentro di sé: il fare-musica-assieme diventa allora una pratica intersoggettiva dialogica e riflessiva che richiede l’ascolto di se stessi e degli altri, l’osservare e l’osservarsi, ricevere stimoli e rispondere a essi in un’armonia che impone al singolo di sentirsi gruppo.
È intuitivo, a tal punto, rivedere i soggetti relazionali sopra analizzati nelle persone che producono musica e al contempo dalla musica sono prodotte. Infatti, Malloch e Trevarthen sostengono che esista un “musicalità comunicativa tra gli esseri umani che dà forma alle loro relazioni soprattutto quando sono vicini […] nella concreta vita sociale non c’è un individuo astrattamente isolato, ma persone in relazioni musicali perché non c’è un corpo singolo ma corpi che sono in dialogo perenne” (cit. in Manarolo 2020: 72).

Un ulteriore conferma di ciò arriva dalle pratiche terapeutiche della Community Music Therapy, che, interiorizzando la nozione di communitas espressa da Victor Turner (1969), ha fatto propria l’interessante nozione di musicking in quanto attività relazionale in un contesto sociale. Tale termine fu introdotto da Christopher Small con l’intento di volgere l’attenzione verso la performance in sé piuttosto che sull’opera musicale, sostenendo che “il far musica è partecipare, prendere parte a qualsiasi titolo, ad una performance, eseguendo, ascoltando, provando, praticando o danzando” (cit. in Caneva e Mattiello 2018: 78). Dunque, la musica detiene un grande valore relazionale nella costruzione dei legami fra persone, operando come un inter-dono, effimero nel suo essere, di emozioni e di parte del sé.

Verso un songwriting etnografico

Fra le diverse tecniche a disposizione del musicoterapista, una in particolare si sta affermando nella pratica e ha particolare rilievo per il nostro discorso: il songwriting, ovvero il “processo di creare, scrivere la partitura e/o registrare parole e musica da parte del paziente o pazienti e del terapista nel contesto di una relazione terapeutica, allo scopo di affrontare bisogni psicosociali, emotivi, cognitivi e comunicativi” (Baker e Wigram cit. in Manarolo 2020: 31).
Le ragioni del successo di questo metodo sono da ricercare nella varietà degli obiettivi clinici per i quali può essere utilizzato. In particolare, Manarolo (2020) ne cita quattro: esplorare ed esprimere le proprie emozioni, idee, stati d’animo; sviluppare, mantenere o recuperare una serie di abilità cognitive; affrontare problematiche di tipo relazionale; e ricostruire un senso di sé e identità e lavorare sui ricordi di esperienze passate.
Per mezzo di un processo narrativo, quindi, i pazienti possono verbalizzare le proprie esperienze e riflettere sul loro significato. Paolo Alberto Caneva (2007), inoltre, esplode il metodo del songwriting in una serie di tecniche usualmente coinvolte nella pratica: dall’ascolto all’esecuzione, dall’uso della voce e degli strumenti alla creazione di partiture, dalla realizzazione di una coreografia alla registrazione dei brani o di videoclip. Nuovamente, dunque, ci troviamo dinnanzi a un contesto musicale performativo che ha il potere di legare differenti soggetti-attori.

Come ha efficacemente sottolineato Giovanni Stanghellini (2017) affermando che “noi siamo un dialogo”, parlare di sé agli altri fa parte di quel dialogo con l’alterità il cui fallimento può portare all’insorgenza di sofferenze e patologie mentali.
In tal senso, il songwriting si pone allora a metà fra le discipline “psi-” e l’antropologia, dal momento in cui quest’ultima si presenta come un dialogo fra alterità.
Cosa può fornire allora questa tecnica musicoterapica all’Antropologia? Un potente strumento di ricerca qualitativa. E per diverse ragioni:

  1. innanzitutto, la musica in generale si configura come un efficacissimo rompighiaccio sociale: essendo un fatto, una pratica, un prodotto comune a tutte le società, è un facile, primo luogo comune in cui etnografo e interlocutore si possono incontrare;
  2. la musica, in quanto evento sonoro, non può essere sensorialmente rifiutata intenzionalmente – al massimo ignorata – e questo implica l’immediata instaurazione di un qualche grado di relazione;
  3. nello specifico poi, il songwriting si costituisce come un momento in cui la persona parla di sé, al pari di un’intervista etnografica, ma con il valore aggiunto di un contesto performativo che rende l’evento ancora più carico di significati;
  4. approcciare lo studio di tale evento tramite le otto componenti dell’etnografia dello speaking (Settings, Participants, Ends, Act sequences, Keys, Instrumentalities, Norms, Genres) di Dell Hymes (1972), contribuirebbe all’analisi nella fase di rielaborazione dei dati;
  5. essendo il songwriting, come è stato detto nelle righe precedenti, una performance che coinvolge un grande portato emotivo, in contesti di ricerca esso diviene anche l’occasione per una antropologia di e con le emozioni;

All’interno di questa performance, l’antropologo può ricoprire ruoli diversi: può suonare oppure coordinare l’esecuzione di testo e musica, può dedicarsi alla registrazione audio-visiva come dialogare cantando assieme agli altri cantori, può (e deve), in fin dei conti, dare sfogo alla sua creatività, osando e sperimentando.
Certamente, un metodo del genere possiede – com’è ovvio – le sue criticità. Se la musica generalmente può essere usata come uno strumento per dare principio a una comunicazione, sicuramente il songwriting può essere utilizzato in uno stadio un po’ più – ma non troppo – avanzato dell’indagine etnografica. In primis, perché è necessario aver conosciuto un minimo la persona con la quale si intende applicare tale metodo, così da immaginare e costruire una performance capace di meglio corrispondere al carattere, alle esigenze e alle tipicità della persona coinvolta. Chi è più timido avrà sicuramente bisogno di essere incoraggiato e supportato inizialmente, rispetto a chi è più disinvolto. In secondo luogo, benché diverse situazioni sociali – vedi, ad esempio, i concerti o la musicoterapia – portino a pensare che chiunque è in grado di apportare un contributo canoro o musicale in queste occasioni, bisogna considerare che ognuno possiede un grado di musicalità e questa varia da persona a persona, influenzando l’atto di fare musica assieme. Cosa di cui l’antropologo deve tenere conto. Come ogni strumento di ricerca, anche il songwriting richiede una certa serendipità nell’applicarlo, ponendo attenzione a rischi e benefici, tuttavia il potenziale euristico è alto, e la natura creativa ne rende la pratica stimolante.

Riferimenti bibliografici

  • Bastide, R. 1973, “Le principe d’individuation (contribution à une philosophie africaine)”, in La notion de personne en Afrique Noire, Colloque International du Centre National de la Recherche Scientifique, Éditions du Centre National de la Recherce Scientifique, Parigi
  • Caneva, P.A. 2007, Songwriting. La composizione di canzoni come strategia di intervento musicoterapico, Armando Editore, Roma
  • Caneva, P.A. e Mattiello S. 2018, Community Music Therapy. Itinerari, principi e pratiche per un’altra musicoterapia, Franco Angeli, Milano
  • Carsten, J. 2000, “Introduction: cultures of relatedness”, in Culture of Relatedness. New Approaches to The Study of Kinship, Janet Carsten ed., Cambridge University Press, Cambridge, pp. 1-20
  • Carsten, J. 2004, After Kinship, Cambridge University Press, Cambridge
  • Hutchinson, S.E. 2000, “Identity and substance: the broadening bases of relatedness among the Nuer of southern Sudan”, in Culture of Relatedness. New Approaches to The Study of Kinship, Janet Carsten ed., Cambridge University Press, Cambridge, pp 55-72
  • Hymes, D. 1972, Directions in Sociolinguistics. The Ethnography of Communication, Holt, Rinehart and Winston, New York
  • Le Breton, D. 2007, Il sapore del mondo. Un’antropologia dei sensi, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Manarolo, G. 2020, Manuale di musicoterapia. Teoria, metodi e strumenti per la formazione, Carocci, Roma
  • Marriot, M.K. 1979, “Hindu transaction: diversity without dualism”, in Transaction and meaning: directions in the anthropology of exchange and symbolic behavior, Bruce Kapferer (ed.), ISHI Publications, Philadelphia
  • Remotti, F. 2019, Somiglianze. Una via per la convivenza, Editori Laterza, Roma
  • Sahlins, M. 2018, La parentela cos’è e cosa non è, elèuthera, Milano
  • Stanghellini, G. 2017, Noi siamo un dialogo. Antropologia, psicopatologia, cura, Raffaello Cortina Editore, Milano
  • Strathern, M. 1988, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society in Melanesia, University of California Press, Berkeley
  • Turner, V. 1969, The Ritual Process. Structure and Anti-Structure, Aldine, Chicago

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