Che cos’è l’estetica forense?

Eyal Weizman dirige la Forensic Architecture (forensic-architecture.org), agenzia di ricerca fondata nel 2010 che indaga su violenze di stato e violazioni dei diritti umani utilizzando tecniche architettoniche e di visualizzazione digitale.
In questo brano tratto dal recente saggio
Architettura forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee (Meltemi Editore, 452 pag., 25 €, 2022, traduzione di Stefano Stoja), Weizman approfondisce il concetto di Estetica Forense, modalità attraverso cui un’immagine dal forte impatto emotivo è in grado di soverchiare i protocolli d’indagine scientifica e giuridici.

Fotografi, cineasti e artisti hanno collaborato con le organizzazioni umanitarie fin dalla fondazione del movimento per la tutela dei diritti umani alla metà degli anni ’70. I gruppi coinvolti fecero da subito buon uso della capacità di suscitare emozioni propria dell’arte, al fine di sollecitare l’empatia del pubblico; e l’insorgenza e lo sviluppo della sensibilità nei riguardi dei diritti umani, come pure dell’attenzione verso le vittime, aprirono una nuova strada agli artisti per misurarsi con tematiche politiche. La sensibilità empatica che svilupparono era cosa diversa dall’estetica rivoluzionaria dell’inizio del XX secolo. Talvolta prescindeva dal desiderio di narrazioni corali di genere politico o storico, in favore del racconto di tragedie individuali[1]. Tenendo conto di questo sviluppo interconnesso e della nascente sensibilità collegata, le organizzazioni umanitarie spesso dedicarono gli spazi comuni delle loro sedi a mostre d’arte e fotografia che ne fossero testimonianza. Tuttavia, salvo poche notevoli eccezioni, il lavoro degli artisti venne tenuto separato da quello investigativo, relegato a una posizione meramente illustrativa.

Forensic Architecture cerca di tenersi lontana da quest’utilizzo dell’arte e di servirsi delle sensibilità artistiche come di risorse utili all’indagine. L’investigazione forense è una disciplina estetica, in quanto dipende sia dalle modalità sia dai canali attraverso cui la realtà è percepita e presentata al pubblico. L’estetica investigativa rallenta il tempo e intensifica la sensibilità allo spazio, alla materia e all’immagine. Essa cerca anche di sviluppare nuove modalità narrative e di perorazione di istanze[2].

“Estetica forense” è l’espressione che insieme a Thomas Keenan proponemmo nel nostro libro Mengele’s Skull. La usammo per descrivere il modo in cui un’immagine dal forte contenuto emotivo − la sovrimpressione del volto di Mengele sulla foto del suo teschio, cioè uno dei materiali dell’indagine scientifica − avesse acquisito un potere di convincimento (sia nel senso giuridico del verdetto sia in quello soggettivo della conferma di un punto di vista − la convinzione personale e il libero convincimento del giudice)[3] che andava al di là sia dei protocolli d’indagine scientifica sia di quelli giuridici.

L’uso dell’estetica è trasversale rispetto ai tre luoghi che competono all’investigazione forense, e cioè il campo, il laboratorio/studio e il foro, e in ciascuno di essi si riferisce a una cosa diversa. Il suo primo e più fondamentale livello è quello dell’“estetica materiale”: le modalità e i mezzi secondo cui oggetti materiali come ossa, macerie o estensioni territoriali funzionano da strumenti di misura e registrano cambiamenti nell’ambiente loro circostante. La materia può essere intesa come un sensorio estetico poiché i mutamenti del suo stato registrano minuscole trasformazioni e differenze nei campi di forza che la circondano. L’estetica materiale è insieme antecedente e fondamentale alla percezione umana, alla comprensione e al giudizio. In questo caso l’estetica si avvicina all’accezione del termine greco antico, secondo cui avere sensazione è essere estetici, mentre al contrario non essere estetici significa chiudersi alla percezione. Per Bruno Latour l’estetica designa la capacità di percepire e di restare coinvolti, “di farsi sensibili, capacità che precede ogni distinzione tra gli strumenti della scienza, dell’arte e della politica”[4]. Laddove l’estetica viene generalmente intesa come pertinente ai sensi e alla percezione umana, l’“estetica materiale” invece definisce il modo in cui la materia assorbe o appercepisce (invece di apprendere o comprendere) il suo ambiente circostante. Questa “percezione non-sensoriale”, proposta dal matematico e filosofo inglese del primo Novecento Alfred North Whitehead, è di aiuto nella costruzione del collegamento tra la sensibilità umana e quella dei sensori materiali. La materia appercepisce mediante l’assorbimento di forze ambientali all’interno del suo complesso sistematico materiale. L’estetica, in questo senso, è la modalità e il mezzo con cui gli oggetti materiali si mettono in relazione tra loro e si influenzano a vicenda[5].

Un’estetica siffatta, di materialità senziente, è familiare all’antropologo forense, che vede nella conformazione delle ossa un medium in cui processi vitali di notevole estensione temporale − abitudini, lavoro, comportamenti alimentari, e anche incidenti imprevisti − diventano consistenza e forma. È parimenti concetto familiare al perito edile, quando tenta di identificare la catena di eventi che ha prodotto una crepa strutturale. Ossa ed edifici si possono definire estetici, in quanto le loro deformazioni registrano variazioni e differenze del loro ambiente circostante. Viceversa, queste mutazioni nella forma restituiscono l’immagine dell’ambiente. Non tutto viene registrato in questo modo: alcune cose sì, altre no.

Mentre nel XIX secolo la cellulosa intrisa di gelatina e di granuli di sale d’argento era − per mezzo del procedimento fotografico − il sistema di registrazione del suo rapporto con altri oggetti e con l’ambiente circostante, oggi alcuni strumenti digitali sono abbastanza sensibili da permetterci di leggere il modo in cui varie superfici, che in sé e per sé non sono definite sensori, reagiscono come tali. Un tavolo, per esempio, appercepisce la stanza in cui è collocato, gli oggetti caldi o freddi che vi sono appoggiati sopra, e anche il calore irradiato dalla materia vivente che gli è più o meno prossima. L’estetica materiale è la qualità dei rapporti fra gli oggetti − l’esistenza della materia nel mondo, la sua capacità di assorbire informazioni e l’entità di quest’assorbimento. Ciò estende il principio della fotografia al resto del mondo materiale, interrompendo il monopolio del film e della fotografia digitale nell’ambito della rappresentazione visiva. L’inverso è altrettanto vero: poiché gli oggetti diventano immagini, queste vanno studiate come oggetti, come parti del mondo materiale[6]. Tuttavia, per essere lette come sensori, le trasformazioni degli oggetti materiali devono essere registrate da altri sensori, come fotografie analogiche o digitali, remote o prossime all’oggetto, a spettro unico o multiplo, che traducano la capacità sensoriale della materia in dati e diano la possibilità della loro interpretazione.

Al livello successivo, nel foro, l’espressione “estetica forense” si riferisce al modo in cui le cose appaiono, e include varie tecniche e tecnologie di dimostrazione, retorica e rappresentazione − gesti, narrazione, drammatizzazione, intensificazione dell’immagine e proiezione. Tutto ciò avviene nel dominio mediatico. Le corti e i tribunali penali internazionali sono dipendenti dalle telecamere per trasmettere la loro attività al pubblico. Ogni partecipante ai processi dell’ICC o dell’ICTY siede davanti a uno schermo. I legali di tutte le parti in causa guardano contemporaneamente su questi schermi le immagini, i documenti o i filmati che vengano addotti come prove. L’interazione tra due persone è stata soppiantata dalla comunicazione tra una persona e uno schermo, oppure tra due schermi, com’è stato dimostrato da Susan Schuppli e altri[7]. Tutto ciò è molto diverso dalla prassi in uso nelle corti tradizionali, tuttora largamente allergiche alla presenza di supporti mediatici. Esiste però un precedente: nei processi di Norimberga fu piazzato uno schermo cinematografico nel punto di fuga della prospettiva della sala di udienza, nella posizione solitamente occupata dai giudici. Oggigiorno lo spazio dei tribunali internazionali assomiglia molto di più a un set cinematografico o a uno studio per le dirette TV in cui si registrano e archiviano processi che si svolgono davanti a svariate telecamere e schermi. È per questa ragione, forse, che fu possibile situare l’ICTY nell’anonimato di alcuni piani in affitto di una ex-sede assicurativa, e l’ICC poté essere confortevolmente alloggiato negli ex-locali amministrativi di una compagnia di telefonia cellulare[8].

[1] Per fare solo un esempio, cfr. A. Badiou, Ethics: An Essay on the Understanding of Evil, tr. ingl. di P. Hallward, Verso, London 2001; tr. it. di C. Pozzana, L’etica: saggio sulla coscienza del male, Pratiche, Parma 1994.

[2] Michael Sfard, avvocato specializzato in diritto umanitario e nostro assiduo collaboratore, spiegò che “gli architetti ora sono in grado di mostrare agli avvocati tutto ciò che questi non riescono a vedere”. M. Sfard, comunicazione privata, gennaio 2013. Egli si servì di un concetto analogo in una conversazione con Susan Schuppli durante la conferenza The Architecture of Public Truth, presso la Haus der Kulturen der Welt a Berlino, organizzata per l’inaugurazione della mostra Forensis nel marzo del 2014, disponibile alla URL http://www.hkw.de/en/programm/projekte/veranstaltung/p_100468.php.

[3] T. Keenan, E. Weizman, Mengele’s Skull: The Advent of a Forensic Aesthetics, cit., p. 24.

[4] B. Latour, The Anthropocene and the Destruction of the Image of the Globe, 4° Gifford Lecture, 25 febbraio 2013, disponibile alla URL https://www.ed.ac.uk/arts-humanities-soc-sci/news-events/lectures/gifford-lectures/archive/series-2012-2013/bruno-latour/lecture-four.

[5] A.N. Whitehead, Process and Reality: An Essay in Cosmology, cit., pp. 3-4, 249; tr. it. di M.R. Brioschi, Processo e realtà. Saggio di cosmologia, cit., pp. 983-987. Per Whitehead la “percezione non-sensoriale” è limitata agli esseri viventi, ma suggerisce l’esistenza della possibilità di una sua estensione poiché per lui la percezione non è limitata all’umano o in generale al vivente, bensì è una proprietà di ogni forma materiale. Cfr. anche M. Sehgal, A Situated Metaphysics: Things, History, and Pragmatic Speculation, in R. Faber, A. Goffey (a cura di), The Allure of Things: Process and Object in Contemporary Philosophy, Bloomsbury, London 2014. Cfr. anche J.D. Peters, The Marvelous Clouds: Toward a Philosophy of Elemental Media, The University of Chicago Press, Chicago-London 2016, p. 4.

[6] Nelle prime pagine di Matter and Memory Henri Bergson scrive: “La materia è un insieme di ‘immagini’. E per ‘immagine’ intendiamo una certa esistenza che è più di ciò che l’idealista chiama una rappresentazione, ma meno di ciò che il realista chiama una cosa, − un’esistenza situata a metà strada tra la ‘cosa’ e la ‘rappresentazione’”. H. Bergson, Matter and Memory, Zone Books, New York 1988, p. 9; tr. it. di A. Pessina, Materia e memoria: saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Laterza, Roma 2004, p. 5.

[7] Susan Schuppli esamina le procedure con cui i manufatti mediatici nell’archivio dell’ICTY vennero convertiti in elementi probatori. Nel seguire gli spostamenti di videocassette, immagini satellitari, cartine e strumenti di registrazione all’interno di uno spazio giuridico che li suddivide, archivia, cataloga e presenta, per lei questi oggetti diventano “testimoni materiali”: ovvero, testimoniano non soltanto presunte circostanze delittuose, ma il procedimento vero e propro di scelta cui sono stati sottoposti al fine di poter essere considerati probatori. S. Schuppli, Entering Evidence: Cross-Examining the Court Records of the ICTY, in Forensic Architecture (a cura di), Forensis: The Architecture of Public Truth, cit., pp. 263-300. Cfr. anche S. Schuppli, Material Witness: Media, Forensics, Evidence, The MIT Press, Cambridge MA 2020.

[8] Il collettivo Model Court descrive le modalità in cui le nuove tecnologie audiovisive e di telecomunicazione, la loro presenza materiale, le proprietà digitali, le interruzioni e limitazioni cui vanno soggette delineano la sfera giuridica universale contemporanea. Il loro film e installazione del 2013, Resolution 978 HD, documenta il processo contro François Bazaramba, cittadino ruandese, celebrato in un tribunale distrettuale di Porvoo, in Finlandia. Il tribunale venne insediato in un campo di pallacanestro della città. Dato che un requisito per il processo era l’interrogatorio dell’imputato in teleconferenza, il principio giuridico dell’habeas corpus, in base al quale è indispensabile la presenza fisica dell’imputato, fu reinterpretato come condizione-soglia di svariate tecnologie: larghezza di banda di trasmissione, risoluzione ed esposimetri automatici che permisero a una corte riunita in remoto di accorgersi se la persona arrossisse o sudasse. L. Abu Hamdan, S. Meineche Hansen, L. Pezzani, O. Rees (Model Court), ‘Resolution 978 HD’: A Visual Essay, in Forensic Architecture (a cura di), Forensis: The Architecture of Public Truth, cit., pp. 310-317, disponibile alla URL http://www.forensic-architecture.org/file/resolution-978hd [link morto, disponibile alla URL https://www.gasworks.org.uk/exhibitions/resolution-978-hd/, N.d.T.]. Nei processi di Norimberga del 1945, in cui furono giudicati ventuno criminali di guerra nazisti di alto profilo, furono proiettati dei filmati nel corso del dibattimento, che venne a sua volta filmato. L’architetto statunitense Dan Kiley fu il supervisore della ristrutturazione del vecchio tribunale di Norimberga. L’innovazione che introdusse fu di collocare i giudici lungo un lato della sala direttamente di fronte al banco degli accusati, e la prospettiva centrale era invece occupata dallo schermo cinematografico, il che permetteva una visione senza ostacoli al pubblico. Lo schermo fungeva da collegamento fra gli imputati, i giudici e il pubblico. Durante l’arringa introduttiva il procuratore Jackson disse: “Vi mostreremo questi campi di concentramento con l’ausilio di filmati, esattamente nello stato in cui li trovarono le forze alleate quando vi giunsero”. Quello girato a Dachau il 5, 6 e 7 marzo 1945 dalla Special Coverage Unit (SPECOU) fu proiettato in aula il 29 novembre 1945. C. Delage, The Nuremberg Trials: Confronting the Nazis with the Images of Their Crimes, in D. Dufour (a cura di), Images of Conviction: The Construction of Visual Evidence, cit., pp. 131-149. Per altre informazioni sull’uso dei supporti d’immagine nei processi di Norimberga, cfr. C. Vismann, Tele-Tribunals: Anatomy of a Medium, in “Grey Room”, n. 10, 2003. Il processo Eichmann del 1961 a Gerusalemme fu il primo ad ammettere le telecamere. Cfr. R. Brauman, E. Sivan, Adolf Eichmann: The Nazi Criminal Who Organized the Destruction of the Jewish People; tr. it. di C. Testi, Adolf Eichmann: il gerarca nazista che organizzò lo sterminio degli Ebrei, Einaudi, Torino 2003, e il film di R. Brauman, E Sivan, The Specialist: Portrait of a Modern Criminal, 1999; Idd., Uno specialista: ritratto di un criminale moderno, Istituto LUCE (distribuito da), Roma 2002 [allegato all’edizione italiana del libro, N.d.T.]. In contesti processuali più recenti, come i tribunali dell’ICTY e dell’ICTR, si è fatto ampio uso di filmati. Sull’architettura mediatica dell’ICTY, cfr. L. Kurgan, Residues: ICTY Courtroom n. 1 and the Architecture of Justice, in C. Heesters, L. Guenther (a cura di), Alphabet City n. 7: Social Insecurity, House of Anansi, Toronto 2000; S. Schuppli, Entering Evidence: Cross-Examining the Court Records of the ICTY, cit. Per le innovazioni più recenti nella procedura giudiziaria inglese, cfr. BBC News, TV Cameras Allowed into Court of Appeal, 31 ottobre 2013, disponibile alla URL https://www.bbc.com/news/uk-24744684. La nuova sede dell’ICC, inaugurata all’inizio del 2016, è stata progettata per garantire una stretta integrazione tra l’architettura materiale e quella mediatica.



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