Disincanto del mondo e mentalità ingegneristica: la riflessione epistemologica e politica tra Weber e Hayek

Una delle cifre maggiori che quantifica la densità problematica del Novecento può essere individuata nel canone della razionalità e nelle sue implicazioni che coprono uno spettro visuale assai ampio. Attorno a questi ambiti, la riflessione delle scienze sociali con più profondi rimandi filosofici ha avuto tappe significative, tra cui i contributi di Max Weber e Friedrich Hayek possono costituire un importante percorso interpretativo. I loro studi infatti sembrano favorire una ideale complementarietà di letture, oscillando entrambi tra questioni epistemologiche e considerazioni socio-politiche, che può risultare dunque utile ripercorrere emblematicamente.

Partiamo da Weber, una di quelle figure intellettuali nate nell’Ottocento, come Sigmund Freud, Albert Einstein, Edmund Husserl, John Keynes, la cui influenza nell’età contemporanea è stata evidentemente decisiva. Attraverso riflessioni divenute iconiche, i suoi contributi sono divenuti punti di riferimento nei campi della sociologia e della filosofia, delle scienze politiche e della storiografia (si consideri naturalmente Weber, M., Economia e società, 5 voll., Comunità, Torino, 1980, da pochi anni  anche nella nuova versione edita da Donzelli, nonché Id., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 2003): pensiamo così agli idealtipi, ossia  astrazioni attraverso cui è possibile condurre l’infinità varietà della realtà a insiemi di categorie più maneggevoli; alla avalutatività, secondo cui nella sua attività di studio e ricerca lo scienziato sociale non deve inserire i propri giudizi di valore rispetto ai fenomeni che analizza; all’idea che l’origine del capitalismo occidentale si possa individuare in forme specifiche della cultura europea nei secoli iniziali dell’età moderna. E, ancora, ricordiamo la sua distinzione tra potere e potenza: la potenza costringe gli individui a seguire la volontà di chi la impone, mentre il potere induce gli individui a obbedire a un comando perché i soggetti ritengono legittimo il potere da cui il comando emana; e, pure, il concetto di burocrazia, come forma di organizzazione razionale del lavoro, tipica delle società moderne ampie e complesse, pur avendo coni d’ombra legati alla spersonalizzazione a alle sue procedure standardizzate.

Ora, nella varietà di dimensioni che toccano, tutti questi concetti e le teorie a essi associate appaiono riconducibili a un nodo essenziale che potrebbe essere rintracciato nel processo di razionalizzazione della modernità e nel disincanto del mondo che vi è connesso. Questo tema, che attraversa l’opera weberiana, ci porta a meditare sul crescente predominio, tipico nel momento moderno, delle logiche di efficienza e produttività e sulla fiducia nel fatto che le cose possano essere dominate dalla ragione. Lo sviluppo di questa fiducia, avverte Weber, comporta un disincanto del mondo, poiché gli uomini gradualmente espellono dal loro atteggiamento ogni riferimento a spiegazioni e comportamenti magici, metafisici e religiosi.
In un passo rimasto celebre e ripetutamente citato dagli studiosi, Weber scrive che: “La crescente intellettualizzazione e razionalizzazione non significa dunque una crescente conoscenza delle condizioni di vita alle quali si sottostà. Essa significa qualcosa di diverso: la coscienza o la fede che, se soltanto si volesse, si potrebbe in ogni momento venirne a conoscenza, cioè che non sono in gioco, in linea di principio, forze misteriose e incomprensibili, bensì che si può- in linea di principio- dominare tutte le cose mediante un calcolo razionale. Ma ciò significa il disincantamento del mondo” (Id., La scienza come professione – La politica come professione, Mondadori, Milano 2006, pp. 20-21). 
Di qui la scissione tra razionalità e valori, tra cultura e natura, tipica del mondo moderno: Weber, attraverso la metodologia sociologica, era in effetti approdato a una teoria filosofica dei valori che rifletteva la consapevolezza della crisi della civiltà europea, magari anche sulla scia delle suggestioni di Friedrich Nietzsche (si veda Rossi, P., Introduzione, in Weber, M., Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino, 2003, specialmente pp. XXXIX- XL). Di qui il problema del processo di razionalizzazione come destino irreversibile del mondo occidentale, il rischio della gabbia d’acciaio della modernità, il rischio di un mondo tristemente abitato solo da specialisti senz’anima e gaudenti senza cuore.
In questo orizzonte ambivalente e pericoloso – che Weber prefigura prima delle derive dei totalitarismi e della Seconda Guerra Mondiale, prima delle crisi della razionalità, prima dei processi di individualizzazione e di completa globalizzazione – il pensiero politico e sociale, dal marxismo alle più recenti interpretazioni dell’individualismo metodologico, dalla teoria critica al post-strutturalismo, dalla sociologia centroeuropea a quella nordamericana, si troverà lungamente a interrogarsi.

Qualche decennio dopo Weber, l’opera di Hayek sembra delineare un completamento del discorso sul disincanto del mondo legato alla particolare torsione della ragione nel processo di razionalizzazione.
Anche Hayek fu una figura di studioso poliedrico ed egli, sulla scia di una formazione e di studi economici e politici che lo avevano reso avverso a ogni forma di pianificazione e a ogni limitazione al meccanismo del mercato (si veda il noto Hayek, F. A., La via della schiavitù, Rubettino, Soveria Mannelli, 2011), può essere collocato come autorevole referente all’interno delle stesse questioni epistemologiche toccate da Weber, poichè inquadrava il dominio dei modelli di razionalità del mondo contemporaneo nell’immagine di un abuso della ragione stessa (si veda Id., L’abuso della ragione, Vallecchi, Firenze, 1967).
L’economista austriaco sottolineava che dalla metà dell’Ottocento, lo sviluppo delle scienze fisiche e biologiche e i loro spettacolari risultati portarono ad una indebita estensione, ad altri campi (e alla stessa conoscenza dei fenomeni sociali), degli abiti intellettuali di tali scienze, con la conseguente affermazione di forme di scientismo, ossia “di imitazioni pedantesche del metodo e del linguaggio della Scienza” (ivi, p.14) e di un atteggiamento per certi versi affine, basato su una “mentalità di tipo ingegneristico”.
È qui che si individua la hybris della ragione, con pericolose implicazioni sia dal punto vista del reale senso della conoscenza sia dal puto di vista politico e sociale. Infatti, Hayek avverte che quanto più la civiltà tecnica avanza, tanto più profondo si fa il divario tra due tipi diversi di mentalità: quella dell’uomo che ambisce a trasformare il mondo circostante in una enorme macchina controllabile completamente in conformità con i suoi propositi; e quella dell’uomo il cui interesse maggiore è lo sviluppo della mente umana in ogni suo aspetto, dell’uomo che, nello studio della storia o della letteratura, delle arti o del diritto, ha imparato a considerare gli individui come parti di un processo nel quale il suo contributo non è guidato ma spontaneo, e in cui egli collabora alla creazione di qualcosa di più grande di tutto ciò che lui stesso o qualsiasi altra mente individuale potrà mai pianificare.  
Tenendo conto di queste posizioni, proprio quando la forma di una mentalità troppo estesamente tecnica o ingegneristica conduce gli uomini a lasciare in molti campi le decisioni all’esperto o ad accettare, senza critiche, la sua opinione su un problema di cui egli conosce solo un piccolo aspetto, ciò comporta una minaccia per la libertà: il rischio che Hayek individua (si veda Id., La società libera, Vallecchi, Firenze, 1969, p. 20) è che gli specialisti esigano smodati poteri di influenza; ecco qui rappresentata in modo decisamente compiuto l’idea del pericolo della gabbia d’acciaio della modernità paventata da Weber all’inizio del XX secolo.
In questa dinamica si scorge una dimensione evidentemente tirannica dell’uomo sui suoi simili, che può condurre alla distruzione della civiltà che nessuna mente ha disegnato e che è cresciuta grazie agli sforzi liberi di milioni di individui (si veda Id., La presunzione del conoscere, in Id., Nuovi studi di filosofia, politica, economia e storia delle idee, Armando, Roma, 1988, specialmente p. 43). Come le riflessioni di Weber, anche quelle di Hayek muoveranno il dibattito intellettuale a più livelli, soprattutto in relazione al senso del liberalismo.

Nel valutare l’intreccio possibile dei punti di vista di Weber e Hayek ovviamente non vanno sottovalutati sottili distinzioni e dettagli: si può ad esempio ricordare il nodo importante per cui nelle questioni scientifiche Hayek asserisce che il metodo deve essere adattato alla natura della soggetta materia di studio, invertendo la posizione weberiana in merito (come già notava Barbano, F., La teoria sociologica contemporanea, in Alberoni, F. (a cura di), Questioni di sociologia, La scuola, Brescia, 1966, pp. 151-152). Comunque, a margine di tali specificazioni, l’aspetto decisivo su cui qui sembra opportuno insistere, anche rispetto al senso complessivo delle loro ricerche rispetto alla vicende contemporanee, è che le teorie di Weber e Hayek non vanno evidentemente interpretate come avverse alla scienza, alla razionalità e alla conoscenza, la cui meritevole attività permette alla civiltà di progredire: il loro discorso, in cui gli elementi epistemologici e quelli politici si avvicinano e si rimandano reciprocamente, induce una considerazione più accurata che non deve sfuggire.
Si tratta infatti di comprendere che l’idea di controllo che è sottesa all’attività scientifica va soppesata con cautela, sia perché a volte il controllo effettivo può risultare illusorio, sia perché il controllo può degenerare in forzature di dominio. In entrambi i casi non abbiamo a che fare con problemi meramente intellettuali, ma anche con possibili ricadute in orizzonti sociali e politici, sia nelle più comuni relazioni nella vita quotidiana degli individui, sia nel più ampio funzionamento delle istituzioni. Il peggior “tradimento” della scienza in fondo sta nel delirio di onnipotenza e nelle distopie tecnologiche, entrambi spettri insidiosi che, del resto, tante volte hanno agitato l’immaginario della letteratura della modernità più avanzata da Mary Shelley a Philip Dick.


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