Coloro che si occupano di sostenibilità sanno che quest’anno si celebrano diversi anniversari importanti: cinquant’anni dalla prima storica Conferenza di Stoccolma durante la quale per la prima volta si posero al centro della riflessione internazionale le questioni dell’inquinamento atmosferico e della protezione dell’ambiente; ma sono anche i cinquant’anni dall’evento – minore ma intellettualmente più rilevante – della Conferenza del Dai Dong, summit indipendente organizzato proprio a Stoccolma in preparazione della conferenza ONU. Inoltre sono trascorsi cinquant’anni esatti dalla pubblicazione del primo famosissimo rapporto The Limits to Growth, elaborato da alcuni scienziati del MIT di Boston, coordinati da Donella Meadows, a cui si era rivolto Aurelio Peccei, il visionario industriale e manager fondatore del Club di Roma; e, infine, proprio nel giugno di quest’anno sono trascorsi trent’anni dal primo Summit della Terra di Rio de Janeiro durante il quale il concetto di sviluppo sostenibile, definito nel 1987 da Gro Harlem Brundtland, venne presentato al mondo.
Mentre l’Italia e tanti altri luoghi del Pianeta sono alle prese con una drammatica siccità e una crisi idrica senza rimedio, dopo anni d’incendi che hanno devastato boschi e foreste in Canada, Australia e Stati Uniti, dal 24 febbraio scorso, dopo una lunga preparazione covata e organizzata da entrambi gli schieramenti – da una parte la Russia, dall’altra l’Ucraina e l’intero Occidente – con l’invasione di una “paese fratello” voluta da Putin, ci troviamo di nuovo al cospetto della tragedia della guerra. E la guerra, oltre a morte e distruzione, ha causato nel giro di poche settimane una crisi energetica ed una alimentare senza precedenti, con un conseguente cambiamento di obiettivi nelle agende di tutti i grandi paesi, quelli maggiormente responsabili della crisi climatica in corso: non più impegni per procedere verso la transizione ecologica ma per maggiori armamenti. Anche le paure e le crisi prodotte dalla pandemia del Covid-19 sono retrocesse in coni d’ombra sempre più oscuri, come se due anni di morti e di blocco dei meccanismi – eccessivi e insensati – della globalizzazione, fossero trascorsi inutilmente.
Siamo in guerra e alimentiamo la guerra mentre sta finendo l’acqua, sperando e pregando nelle piogge, che non basteranno né ora né nei prossimi mesi e anni, mentre ai paesi più poveri non arriverà il grano bloccato dalle mine anti-nave e dalle sanzioni anti-russe. A metà marzo 2022 ero intento a correggere le bozze di stampa de L’Umanità a un bivio. Il dilemma della sostenibilità a trent’anni da Rio de Janeiro (Mimesis Edizioni, 2022) quando ho compreso che avrei dovuto riscrivere almeno in parte le note conclusive. Le riflessioni sulla guerra e sull’insostenibilità delle armi erano state scritte prima dell’invasione russa dell’Ucraina. In quel drammatico momento esse risuonavano ancora più attuali e decisive; per questo le ripropongo qui con minime variazioni.
Durante le prime due ondate della pandemia molte persone sono rimaste chiuse in casa per mesi, alcune hanno perso il lavoro, altre gli utili, moltissime sono decedute; molti piccoli imprenditori, commercianti, artigiani non hanno ripreso le attività, altri non sanno quanto tempo sarà necessario prima che le cose potranno dirsi tornate più o meno normali.
A inizio 2022 si assisteva al rimbalzo dell’economia, della produzione e del consumo. Fra la fine del 2021 e l’inizio del 2022 i ritmi del mondo erano tornati a livelli solo di poco inferiori a quelli pre pandemia, con sensibili aumenti del PIL e la progressiva ripresa di molti settori produttivi.
In Italia, addirittura, si registrava a fine 2021 una crescita del PIL su base annua del 7%: numeri superiori a quelli del boom economico degli anni ’50 e ’60. Già dall’estate del 2021 la macchina dell’insostenibilità si era rimessa in moto sebbene anche il motore impazzito della Natura girasse a pieno regime: su Pantelleria il 10 settembre si era abbattuto un tornado che causava morti, feriti e distruzioni; in novembre la Sicilia era funestata dai Medicane, gli uragani che si formano nelle acque del Mare Nostrum, disastri forieri di altre devastazioni, sempre più frequenti e violente perché il Mediterraneo è ormai una bagnarola ribollente. La ripartenza e il bisogno di crescita avevano fatto rapidamente dimenticare il monito di Papa Francesco: la Natura non perdona mai. E infatti oggi ci ritroviamo con il Po e quasi tutti i fiumi italiani completamente a secco.
Per celebrare il trentesimo anniversario del primo Summit della Terra a Rio de Janeiro avevo inoltre sottolineato un altro fatto destinato a cambiare la traiettoria del mondo globalizzato che vide la luce dopo il crollo del Muro di Berlino nel 1989: con la disfatta della coalizione occidentale in Afghanistan e la fuga da Kabul pensavo che si sarebbe finalmente conclusa l’epoca del governo mondiale e unilaterale degli Stati Uniti d’America; la poderosa e ipertecnologica macchina da guerra degli USA e della NATO abbandonava un paese martirizzato e impoverito da più di quarant’anni di violenze (iniziate fra il 1979 e l’80 dai Sovietici) nel quale generazioni di bambini sono diventate adulte conoscendo solo l’uso dei kalashnikow e lo scoppio delle bombe. M’illudevo che si sarebbe potuto iniziare a ripensare, riformare e trasformare gli strumenti di un ordine mondiale ormai sempre più traballante a partire dall’ONU depotenziata da decenni, dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale, fautori e approfittatori storici del macroscopico debito dei paesi terzi, a cui si è aggiunta negli ultimi anni la Cina nel ruolo – solo apparentemente felpato – di investitore/creditore. Mi sbagliavo.
Non solo oggi nessuno si preoccupa più degli Afgani e, soprattutto, delle donne afgane per le quali i media e la politica occidentale avevano speso fiumi di inutili parole rassicuranti, ma abbiamo addirittura abbandonato per l’ennesima volta il popolo curdo, dopo che aveva contribuito in maniera sostanziale e con la morte di centinaia di donne soldato alla liberazione di Kobane e alla sconfitta del sedicente Stato Islamico, fra Siria e Iraq, altri straordinari risultati dell’insensatezza occidentale.
L’unica vera sorpresa è stata quella di assistere alla conferma di una sorprendente compattezza di intenti da parte dell’Unione Europea, salvo alcune poco rilevanti eccezioni: l’Unione, che soltanto di fronte all’emergenza della pandemia del Covid-19 era riuscita a trovare una coralità e una visione quasi all’altezza della situazione e dei padri fondatori che la vollero, si è compattamente schierata con la NATO, ormai un agente politico in proprio, e ha deciso quasi unanimemente di avviare una corsa agli armamenti e al riarmo continentale che non permette di guardare al futuro con ottimismo. E questo malgrado quasi tutti i paesi europei, già indebitatisi enormemente nei due anni di pandemia, in alcuni casi, come quello italiano, peggiorando conti pubblici già tragici, si trovino a dover affrontare problemi di povertà, esclusione, disoccupazione e iniquità di portata epocale.
Di fronte alla guerra e alle enormi opportunità che essa consente – riarmo, rivitalizzazione della filiera dei combustibili fossili rimettendo in circolo il carbone che ne stava lentamente fuoriuscendo, nuova ribalta geo-politica per commodities alimentari a basso valore aggiunto come grano, soia, semi di girasole – anche la questione del debito è stata derubricata a problema secondario, sebbene la montagna debitoria internazionale abbia raggiunto dimensioni sempre più insostenibili, fino a diventare sostanzialmente inesigibile e non restituibile, ormai pura carta, accumulata in quantità sempre crescenti in attesa che accada un miracolo o un pericolosissimo falò. La guerra forse serve proprio a questo: bruciare nel falò delle città ucraine anche l’enorme massa di carta moneta virtuale stoccata nelle banche centrali dell’Occidente.
Di fronte a questo tragico evento, le cui conseguenze imprevedibili e negative si ripercuoteranno per decenni, il 27 febbraio 2022 la Germania ha comunicato – per la sorpresa di molti e la soddisfazione di altrettanti – di voler investire 100 miliardi di Euro per riarmarsi e di voler destinare il 2% annuo del suo enorme e insostenibile PIL per la produzione e l’acquisto di armi. L’Italia ha affermato, anche se con meno fermezza, di voler fare altrettanto almeno con riguardo alle percentuali di prodotto interno lordo. E così tutti gli altri. Una follia. E per poterlo fare si è ricominciato ad accumulare carbone in vista del prossimo drammatico inverno che si annuncia povero di gas e di neve. Infatti, se il risultato emerso il 15 novembre 2021 dalla COP26 di Glasgow sul clima era stato ritenuto un fallimento da alcuni e un successo da altri, oggi possiamo dire con certezza che il compromesso raggiunto su come intraprendere la transizione ecologica ed energetica sia oggi già completamente archiviato e si proceda nella direzione opposta: la necessità di rendere Italia e Germania (ma non solo) indipendenti dalle fonti energetiche russe sta conducendo a un ritorno al carbone, la durata del cui futuro utilizzo non è pronosticabile; certamente aumenterà la produzione statunitense di shale gas, una fonte fossile ad ancora più alto impatto ambientale.
Ciò a cui stiamo assistendo è la conferma che crisi climatica e bellica sono sorelle e figlie al tempo stesso di un sistema globalizzato di sfruttamento del Pianeta e degli esseri umani non più sostenibile e giunto al collasso proprio con la pandemia. L’ordine mondiale instaurato in seguito al crollo del Muro di Berlino del 1989 e il sistema finanziario globalizzato seduto su una colossale montagna debitoria si sta frantumando nel confronto fra nuovi nazionlismi politici, razziali, economici e rantoli degli imperi decisi a non retrocedere di un passo neppure di fronte alla catastrofe ecologica. Per curioso paradosso della storia il cerchio della globalizzazione dei mercati si sta chiudendo con conflitti, sanzioni e controlli sui flussi delle merci più strategiche (fonti energetiche, tecnologie e commodities alimentari) che ripercorrono crisi otto e novecentesche che si ritenevano superate, esattamente come si sta assistendo a un revival di guerre novecentesche che si ritenevano superate per sempre e che invece hanno riportato alla ribalta carri armati, cannoni, obici e trincee.
La supremazia bianca euro-americana e quella russa, tutte figlie del pensiero occidentale, si stanno consumando in un confronto bellico dalle conseguenze imprevedibili lasciando il campo ancora più libero ad altri attori: la potenza apparentemente solida e pacifica della Cina e, in prospettiva, quella emergente dell’India, anch’esse insostenibili.
Il quadro è fosco e allarmante per la pochezza di tutti i governi protagonisti degli eventi in corso. Eppure non bisogna disperare e si deve insistere. Se sappiamo gestire con maestria le crisi del sistema capitalistico globalizzato producendo – come da tradizione – armi, inflazione e debito, non sappiamo invece come fronteggiare la crisi climatica e quelle idriche e alimentari che si stanno svolgendo sotto i nostri occhi malgrado gli allarmi inascoltati da cinquant’anni: ecco perché bisogna celebrare il famoso libro I limiti della crescita, curato dalla straordinaria Donella Meadows del MIT e anche ciò che andò in scena a Rio de Janeiro nel giugno del 1992.
Infatti, mentre tutti siamo distratti dalle bombe e dallo strazio umanitario che il loro scoppio produce, il clima prosegue nell’impazzimento da noi causato.
Sono fermamente convinto che saranno proprio il clima, gli eventi atmosferici avversi e l’inimmaginabile scarsità di acqua a imporre il superamento di ferrivecchi come la NATO, i carri armati di Putin, i futuri bellissimi e muscolari panzer tedeschi o le più modeste autoblindo Lince prodotte in Italia.
Se l’Umanità per salvare sé stessa e gran parte della vita oggi esistente sul Pianeta deve passare dalla grande accelerazione a una lunga decelerazione – che tanto lunga non può essere – perché non cominciare dalle armi e dalle guerre? È una domanda retorica e la pongo per evidenziare l’insensatezza del nostro modello di sviluppo e del sistema produttivo globale, una cui sconsiderata percentuale è basata esclusivamente sulla produzione di armi e sul loro impiego in guerre che durano anni e decenni.
L’Umanità è oggi lanciata a tutta velocità contro un muro mentre la transizione richiede decelerazione e la crisi ecologica la impone come scelta immediata perché le resistenze e la forza d’inerzia saranno colossali: è insensato pensare di ottenere risultati effettivi nella lotta alle crisi climatiche, pandemiche e umanitarie provocate da sviluppo, fame e guerre attraverso l’accelerazione e l’espansione continua.
Siccome si DEVE iniziare a frenare e a decelerare, di fronte a una guerra ha senso tornare ad alzare la voce contro il riarmo e per il disarmo globali se non per motivi umanitari – che tanto poco hanno dimostrato di interessare governi e opinioni pubbliche – almeno per eliminare le emissioni che producono; anziché investire per escogitare sempre nuove e prometeiche soluzioni tecnologiche che promettano, falsamente, di uscire dalla crisi ecologica e umana da noi stessi prodotta iniziamo a ridurre. È la sfida più difficile e richiede un vero multilateralismo internazionale. Proporre una via di pace e di disarmo mentre è in corso una guerra e l’Occidente avvia un infausto riarmo sarà considerato come un banale e inutile discorso pacifista.
Ha ragione Luigino Bruni (2007) quando parla della necessità dei carismi per guardare con occhi diversi e nuovi ciò che non tutti vedono immediatamente. Da non credente sono convinto che per superare la crisi ecologica e climatica, ma anche per trovare un’armonia mai vissuta in precedenza fra le moltitudini umane e una Natura che non può essere ridotta a feticistica ed estetizzante wilderness, siano quantomai necessari carismi religiosi e laici nei termini in cui ne scrive Bruni, personalità come Gandhi, Martin Luther King, Nelson Mandela, o Madre Teresa, ma anche di portata circoscritta come Willy Brandt, José Pepe Mujica, la keniota Wangari Muta Maathai o, ancora in minore, come Alexander Langer o Gino Strada. Fra questi esempi io annovero anche Ernesto Che Guevara che le armi le ha usate in un’epoca in cui era normale pensare di farvi ricorso per la libertà e l’autodeterminazione dei popoli sottomessi, obiettivi che ancora oggi sono ampiamente ammessi, anche se il loro uso è sempre più anacronistico e meno socialmente tollerato. Senza carismi e senza diverse visioni del mondo non riusciremo a decelerare, a uscire cioè dalla spirale in cui il capitalismo e la finanza globali stanno trascinando l’Umanità e il Pianeta.