Ossabaw: isola reale o mentale? James Kilgo tra letteratura e geografia

Percorrendo i sentieri della Theory Fiction, in bilico tra memoir e romanzo-saggio, il nuovo libro di Matteo Meschiari Landness. Una storia geoanarchica (Meltemi Editore, 240 pag., 20 €, 2022) raccoglie due decenni di esplorazione dell’autore, due secoli di pensiero geografico, duecento millenni di immaginazione. In questo brano, che pubblichiamo per gentile concessione dell’editore, l’autore affronta la vita e l’opera di James Kilgo, uno dei principali esponenti della letteratura del paesaggio americano.
Matteo Meschiari presenterà il suo libro nell’ambito di Bookcity domani, 19 novembre, con Paolo Cognetti e Laura Pariani alla libreria Verso di Milano.

Nella storia dei Geoanarchici, ecco James Kilgo. Non era un geografo, non era un anarchico, era decisamente credente e abbastanza conservatore e, in ogni parte di sé, aveva radici nella vecchia cultura del Sud. I suoi riferimenti letterari, per intenderci, erano Wendell Berry e William Faulkner, ma la sua scrittura è decisamente agli antipodi, semplice, senza increspature di stile, più vicina all’oralità dello storytellerdi provincia che alle prove sofisticate del romanziere urbano. Adorava Don DeLillo e Cormac McCarthy, era in corrispondenza con Jim Harrison e Derek Walcott, e in Georgia, dove ha vissuto e insegnato letteratura americana, è oggi considerato uno degli scrittori più importanti dello Stato, integrato nella Hall of Fame assieme a Flannery O’Connor e Martin Luther King.
In America è considerato tra gli autori più significativi della nature writing, una vera galassia pulsante che, con nomi a noi forse più noti come Aldo Leopold, Barry Lopez e Gary Snyder, dovrebbe allertare l’intellettuale eurocentrico dell’esistenza di un’esperienza filosofica e letteraria ineludibile. Ineludibile, ovviamente, per chi si interessi di natura, paesaggio, wilderness, Terra, e per chi pensa che la questione ambientale sia la priorità politica del pianeta. In questo senso, e certamente non solo, James Kilgo ha molto da insegnare a chi voglia sviluppare un discorso sensato su Terra e libertà.

Ogni estate, fino al 2019, ho lavorato all’archivio manoscritto di Kilgo. Avevo cominciato nel luglio del 2003, a poco più di un anno dalla sua morte, e nel 2016 gli eredi hanno donato il grosso delle sue carte alla University of Georgia. Al 345 di Milledge Heights ad Athens resta ancora del materiale, come i diari e le lettere private. In ogni caso, ogni anno, mi capitava ancora di scoprire qualcosa di nuovo, dentro qualche scatolone in cantina, nell’armadio del garage dove abita da sempre una famiglia di ghiri, tra le pagine di qualche volume rimasto chiuso per decenni. Quando trovavo qualcosa di nuovo lo portavo di sopra, nello studio, dove ho raccolto alcuni oggetti personali e ordinato la stanza per ricostruire in modo verosimile il luogo di scrittura di Kilgo. Ma il mio lavoro da archivista-filologo è finito. Adesso che il destino materiale dei suoi inediti è affidato a un ente pubblico molto rispettabile, posso dedicarmi con maggior distacco a quello che Kilgo, secondo me, avrebbe potuto dire sulla landness. Tra i diari, ad esempio, ce n’è uno datato 2000 che raccoglie tutti gli appunti preparatori per l’Ossabaw Book. A quell’epoca era già piuttosto malato, aveva un cancro alla prostata, e mentre ragionava su questo progetto gli venne offerto di seguire un amico in un safari hemingwayano in Africa. Kilgo partì, scrisse un libro luminosissimo, Colors of Africa, e pochi giorni dopo aver firmato sul letto di ospedale il “si stampi” delle ultime bozze, i famigliari spensero le macchine che tenevano in vita il suo corpo, e lui morì a sessantuno anni l’8 dicembre 2002.

L’Ossabaw Book non fu mai scritto. Fu abbandonato per l’avventura africana. Oggi restano solo il diario e pochi appunti preparatori.
La storia di questo libro che non c’è mi ossessiona da anni, un po’ perché l’ho sentito come un ideale passaggio di testimone, un po’ perché continuo a chiedermi se non sia stato meglio così. Colors of Africa, che è un libro immenso, non sarebbe mai esistito altrimenti, eppure Ossabaw, che è un’isola sulla costa della Georgia, non ha più avuto l’opportunità di diventare quel luogo letterario che Kilgo aveva immaginato. Quello che trovo commovente nel diario, però, è che mentre nei libri pubblicati Kilgo cancellava ogni traccia del lavoro preparatorio, delle letture accumulate, della riflessione metaletteraria, qui è insistentemente presente il making of, le istruzioni per l’uso che l’autore si dà di volta in volta per avvicinarsi allo scopo. Come si può trasformare un luogo in un libro? Come si fa a tradurre un’isola reale in un’isola mentale? Come può Ossabaw, il suo terreno sabbioso, i suoi maiali selvatici, la sua storia precolombiana, la riserva naturale, le vicende umane recenti, la fondazione culturale di Sandy West, la marginalità geografica, il paesaggio non anonimo ma nemmeno eclatante, la vicenda personale dello scrittore, la malattia che stringe lentamente il cappio attorno al collo, come può insomma l’accidente, l’occasione, l’interesse periferico diventare una cosmografia insulare significativa per tutti? Come può l’ordinario diventare necessario? Come fa un sito a diventare segno?

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Bello, mi dico, ma ancora una volta: che cosa ci fa James Kilgo tra i Geoanarchici, lui che non ho mai conosciuto di persona e che se avessi pronunciato la parola “anarchia” in sua presenza mi avrebbe guardato da sopra gli occhiali di metallo con quei suoi occhi azzurro-ghiaccio come per dire “figliolo, sei nel posto sbagliato”? La ragione per cui l’ho tirato qua dentro per i piedi, però, piacerebbe anche a lui. I Geoanarchici avevano un grande progetto in mente: rifondare la geografia sostituendo al modello cartografico tradizionale, autoritario, coloniale, un modello paesaggistico, più ancorato al corpo, all’universale sensibile, alla libertà esplorativa e cognitiva di chi si espone alla Terra non per dominarla ma per acquisire dei modelli mentali ed etici coerenti alle dinamiche dell’ecosistema. In un mondo che si divide in negazionisti del cambiamento climatico, accompagnati da vastissime masse di indifferenti, e in cervelli che pur senza troppa speranza lavorano duramente per mostrare alle persone che il collasso degli ecosistemi terrestri provocherà il collasso della mente umana, Kilgo prenderebbe la parola e, dalle spiagge della sua Ossabaw immateriale, proverebbe a convincerci di una cosa molto semplice: che nessun uomo è un’isola, che se una zolla è portata via dal mare, tutta la Terra è più piccola.

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La riflessione di Kilgo sull’immaginario era così ancorata alla realtà e al tempo stesso alla potenza interiore delle cose che la domanda che rivolgeva ai paesaggi e agli animali nei paesaggi aveva addirittura a che vedere per lui con una forma possibile di guarigione. Ovviamente nel diario parla di sciamanesimo in senso etnografico, ma lo fa scivolando subito nel metaforico, e nel personale. Sentiva cioè nella carne la malattia che lo braccava, ma riconosceva con stupore il potere taumaturgico dell’Africa, della Terra nella sua declinazione primitiva e archetipica. Scrivere è narrare, è narrarsi, ma è anche rispondere a domande primarie sull’efficacia simbolica della parola, una parola che non evoca solo immagini ma anche la loro anima. Un’anima che ha il potere di cambiarci, qualcosa che Kilgo aveva intuito prima dell’Africa camminando sulle spiagge di Ossabaw.

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Kilgo era un uomo realizzato, pensava di avere avuto quasi tutto dalla vita, tranne l’Africa. L’Africa era entrata nella sua testa da bambino e Hemingway e la Dinesen avevano fatto il resto. A cinquantanove anni, però, sembrava un sogno scaduto, per molte ragioni. La salute, i soldi, forse qualcosa di più nascosto e subdolo. Ormai Kilgo si era pensionato dall’università dopo trentatré anni d’insegnamento e l’orizzonte sempre più inclusivo della malattia lo aveva spinto a rassegnarsi. Le recidive del cancro gli stavano fornendo un alibi, per chiudersi, per smettere di esporsi all’esperienza diretta delle cose, della vita, come un animale ferito, dice in Colors of Africa, che striscia lentamente in un buco e aspetta di stare meglio o stare peggio. Per questo, quando Steve Ebbert lo avvicinò in un weekend di marzo stringendogli la mano come una pinza e chiedendogli di accompagnarlo in un safari in Zambia, Kilgo si scosse di dosso molto più di una semplice rassegnazione. Per circa un anno riuscì a curare la malattia che ormai gli aveva invaso la mente, esponendosi all’alito ruvido del Pleistocene.

Steve Ebbert non era il tipo d’uomo che istintivamente poteva piacere a Kilgo. Lavorava nella speculazione immobiliare e teneva nel suo ufficio delle teste impagliate di animali africani, ma quando gli si presentò affermando di conoscerlo attraverso Deep Enough for Ivorybills, il suo primo libro, Kilgo gli concesse un’opportunità. La risposta comunque arrivò subito, affermativa, su due piedi. Steve rise e chiese se prima non dovesse parlarne a sua moglie, ma Kilgo era assolutamente certo: verrò, verrò. Aveva paura che Steve ci ripensasse. Erano gli ultimi giorni di marzo del 2000. Lo scrittore acquistò un nuovo diario e il 5 aprile annotò sulla prima pagina:

Ora posso dirlo. Sto per andare in Africa. Suppongo che dovrei usare il vecchio Deo Volente presbiteriano, ma mi sembra più un incrociare le dita che essere pii. In ogni caso sono lieto di dare il merito di questa opportunità a Dio e suppongo che Lui lo voglia.

In una delle ultimissime note del diario di Ossabaw Kilgo aveva scritto che la sua esperienza sull’isola non andava considerata una “ricerca religiosa”, l’Africa ancora meno. L’Africa era per lui “elementare, vera, originaria” e gli offrì la possibilità di scrivere di ciò che amava di più, cioè gli animali e i paesaggi. Ma nel nuovo diario annotò: “la storia è nel sangue”. Alcune pagine prima aveva scritto che la parte più consistente dell’esperienza africana era stato vedere e odorare una carneficina, ma una volta tornato ad Athens (e solo allora) lesse i testi di Livingstone, cosa che lo aiutò a gettare una luce retroattiva su tutta la vicenda. Nel diario annotò infatti che Livingstone gli aveva fornito una “immagine” in cui fede ed esperienza africana diventavano una cosa sola. In altre parole, l’esploratore scozzese era importante per lui perché aveva combinato in sé Dio con la wilderness. Un’immagine, dice Kilgo, e sottolinea la parola. Perché non si trattava di trasfigurare un’esperienza materiale in esperienza religiosa, ma di trovare un contenitore (visuale, narrativo, letterario) per parlare di due piani che si incastravano tra loro ma che non dovevano confondersi. Nelle pagine conclusive di Colors of Africa, Kilgo racconta che un mattino, tornato ad Athens, tossì e tossì e alla fine sputò sangue. La metastasi aveva raggiunto i bronchi. Seguirono giorni di confusione e paura, ma una notte, dormendo con la nipotina che allora aveva due anni e mezzo, si ricordò di una frase della King James Bible: “Non pensare al domani. Il domani si prenderà cura di sé. Ciò che tieni tra le braccia è il santo presente. Cercami lì. Perché non sono altrove che adesso”. Così Kilgo scrive:

Lungo le settimane di radioterapia che seguirono, ho meditato quotidianamente su queste parole, e la cosa mi ha procurato un po’ di pace. Ho ritrovato anche la vitalità dei miei ricordi africani, e ho capito che la mia esperienza là fuori, nel bush, era il presente, o l’immanenza del presente, che non è Dio ma che è l’accesso a Dio. Il creato e le sue creature, uomini e animali, mi avevano trascinato nell’adesso e trattenuto là ammaliato per tre settimane, come non ero stato ammaliato fin dai giorni dell’infanzia, quando non avevo un passato e il futuro non recava minaccia. Soprattutto ho capito che l’Africa è stata un dono, gratuito, senza legami, senza clausole, solo un’opportunità di presentarmi al presente, ogni momento, momento dopo momento, qualunque cosa portasse l’adesso. Non c’era niente di religioso in tutto questo, almeno nel senso convenzionale del termine, ma un’energia cosmica che mi piace chiamare grazia di Dio, e che diceva e ancora dice, Ecco, questo è per te. Resta vivo, e approfittane.

Il viaggio cominciò il 28 maggio da Atlanta e il 29, via Johannesburg, Kilgo arrivò a Lusaka, Zambia. Problemi alla dogana e alcuni piccoli incidenti logistici fecero da soglia psicologica al grande continente africano. Ma è il 30 maggio che, volando su un bimotore, Kilgo arrivò nel luogo che lo precipitò nel cuore del viaggio, Mfuwe. Ecco. L’aereo si stacca da terra e Lusaka appare dall’alto come un vasto sfogo crostoso sulla pelle del paesaggio. Poi il bush, i boschi, e infine la valle del Luangwa che spinge le sue dense acque fangose dentro lo Zambesi. Una volta a terra, un traballante spostamento su un Toyota Land Cruiser attraverso un paesaggio che nel primo tratto ricorda a Kilgo il Sud rurale degli anni Quaranta. A lampi, dalle rare radure nella boscaglia, si intravedono gli azzurri rigonfiamenti delle colline orientali. Poi la strada sterrata, e il campo che fungerà da casa per le prossime tre settimane. Finalmente.
“Africa, by God!”. Tre settimane. Dove vive nel bush. Dorme sotto il cielo notturno. Beve il caffè del mattino mentre i cercopitechi iniziano ad agitarsi sui rami in cerca dei primi tepori del sole. Durante il giorno cammina tra giraffe, elefanti e zebre, e dall’alba al tramonto le tortore si chiamano tra loro. A pranzo e cena mangia selvaggina e la notte, dal letto, guarda costellazioni ignote, mentre gli ippopotami e le iene scandagliano il silenzio. Il fumo del focolare si inclina ed entra nella capanna attraverso le pareti d’erba. E lui si sente vicino, come non era mai stato, al mondo com’è.

Kilgo doveva partecipare al safari come semplice osservatore, ma un giorno Steve Ebbert gli cedette la sua quota per abbattere un cudù, cosa che Kilgo fece con un .300 Weatherby Magnum. La caccia del cudù occupa la parte centrale del libro, quarantacinque pagine in cui fatti e riflessioni si intrecciano in modo serrato. Kilgo era ancora un cacciatore, nonostante non avesse ucciso un cervo da dieci anni, ma non era mai stato interessato ai trofei e, in generale, alla caccia come esercizio di potenza. Quello che lo interessava era la connessione che si stabilisce tra uomo, luogo e animale, con tutti i dubbi che il sangue e la morte portano con sé. Nelle prime pagine del libro, Kilgo racconta della sua discussione con uno studente francese energicamente anticaccia. E racconta anche di come nei giorni immediatamente precedenti alla partenza avesse dovuto confrontarsi con la freddezza e il disappunto di molte persone che non riuscivano a capire come una persona “colta e civile” potesse partecipare alla barbarie di un safari in cui antilopi, zebre e anche leoni e leopardi sarebbero stati ammazzati. Difficilmente un cacciatore smette di esserlo, ma è difficile trovare un cacciatore che s’interroghi così a fondo sulla morte e sul fatto di dare la morte. Ma Kilgo era andato ancora più in là e aveva stretto una connessione vertiginosa tra la morte dell’animale e la propria fine: la preda e il predatore uniti da un destino speculare.

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Nel diario africano Kilgo annoterà:

Hemingway scrisse narrando la morte, non solo come argomento, ma come oscura ossessione. Io voglio che il mio lavoro risuoni del ferro battuto della vita. In effetti ci riuscì. La vita come forza ancestrale e come desiderio irriducibile nella fragilità dei giorni è un’ossessione per Kilgo, ma la morte rimane nei suoi testi, come un’ombra che si allunga sul bush e non risparmia nessuno. È appunto questo, però, che aiuta a mettere in prospettiva le singole morti individuali, quella dell’animale e quella dell’uomo. Il passaggio da osservatore a cacciatore e la lunga caccia al cudù produssero in lui una specie di “cambiamento metafisico”, le parole sono sue. Il punto cruciale è che uccidere (giusto o sbagliato che sia) implica una responsabilità. Non si tratta di scattare qualche foto o dare la carne ai cuochi e la testa della bestia all’imbalsamatore. Bisogna usare le parole in modo appropriato, bisogna capire retroattivamente perché si è data la morte a un animale, magari approfondendo le tradizioni e la consapevolezza del luogo in cui il dramma della caccia si è consumato. Ma l’Africa non è la Carolina del Sud o la Georgia, per questo Kilgo arriva a pensare che l’unica maniera per dare un senso alla morte del cudù è raccontare onestamente i fatti. La scrittura come atto di gratitudine, come riparazione, come esorcismo.

Nel 1974 il biologo e antropologo Stuart A. Marks pubblicò un libro intitolato Large Mammals and a Brave People, dedicato ai cacciatori Bisa della valle del Luangwa. Nell’ultima pagina del diario africano datata 7 maggio 2001, Kilgo annota di aver passato tre giorni con Marks e che l’incontro è stato determinante per chiarirsi le idee sul libro che vuole scrivere. In particolare, Marks offre a Kilgo un altro punto di vista sulla letteratura dedicata all’Africa. Cornwallis, Harris, Cumming, Roosvelt, Hemingway e tanti altri hanno scritto degli “adventure-romance” di stampo più o meno coloniale. Quello che manca quasi sempre sono le voci dei nativi. L’etnografia di terreno può servire da correttivo, e Kilgo è particolarmente sensibile al consiglio. Già in Africa aveva voluto imparare i nomi degli animali in lingua locale e, leggendo Marks, assimila numerose informazioni sulla cultura e le tradizioni dei Bisa. Ad esempio, vizimba è un rituale attraverso il quale si mostra gratitudine agli antenati per il successo avuto nella caccia. Secondo Robert Benson, il libro di Kilgo è una sorta di vizimba per ringraziare dell’esperienza in Africa e, in qualche modo, per validare attraverso il racconto l’uccisione del cudù. I resoconti etnografici riportano spesso un fatto diffuso nelle culture di caccia e raccolta: la narrazione della caccia è coessenziale alla caccia stessa. Azione riparatoria per non inimicarsi l’anima dell’animale ucciso, rituale conviviale che aiuta a rinsaldare i legami nel gruppo, strategia di trasmissione del sapere, invito all’emulazione. Per il cacciatore consapevole, un modo per dare senso alle proprie azioni e per scandagliare il mistero della morte. Per lo scrittore, un modo di guardarsi da fuori dopo essersi immerso nelle paludi vischiose di ciò che accade. Per il malato di cancro, un viaggio per metabolizzare la morte sciogliendola in un panorama più vasto, fatto di flussi di vita primaria che si accendono e si interrompono. Kilgo parla poco dell’aldilà. In pratica mai. La sua ricerca di senso e di Dio qui nel presente (adesso, nella vita, nelle cose) è l’indizio di un’anomalia che si dilegua tra le parole.

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Se si guida sulla South Carolina Highway 3, attraverso Allendale County, si attraversano grandi piantagioni industriali di pini e vaste zone dove giovani conifere e alberi da legno duro coprono la visuale a destra e a sinistra. Viaggiando a nord, da Estill, si incontrano campi di soia e cotone, o frutteti di pesche. Ma passando per Cohen’s Bluff Road o Bethlehem Church, il paesaggio cambia radicalmente. L’impressione è quella di un salto nel tempo, verso un’epoca anteriore al taglio delle grandi foreste di pini del Sud. L’eliminazione relativamente recente del sottobosco per favorire la caccia alla quaglia ha prodotto un paesaggio molto simile alle savane alberate che i primi coloni incontrarono nelle pianure costiere della Carolina del Sud, quando gli incendi naturali o gli incendi controllati dai Nativi avevano modellato il paesaggio. Pini maestosi a perdita d’occhio separati da vaste radure in cui lo sguardo può spingersi lontano. La stessa sensazione di muoversi in paesaggi forse identici a quelli incontrati da Hernando de Soto, quando arrivò in Nord America, si ha nelle aree paludose lungo il fiume Savannah. Qui gli ultimi tagli nel bosco risalgono alla Seconda guerra mondiale e, già prima, erano stati occasionali e mai estensivi. Quercus pagoda, Quercus michauxii, Quercus nigra, Liquidambar, Fraxinus pennsylvanica, Laurus, Ulmus e, nelle depressioni umide, Taxodium distichum, Nyssa aquatica, Carya aquatica e Quercus lyrata. John ha scritto diffusamente sulla flora e la fauna della Carolina del Sud e, mentre mi parla, si capisce che ciò che lo affascina (e che aveva affascinato suo padre) sono i paesaggi che parlano del tempo. Il Tempo Grande.

Deep Enough for Ivorybills doveva intitolarsi inizialmente River Swamp, e prima A Certain Slant of Light, e ancora prima Give Me These Hills. Chiunque può rendersi conto che Kilgo ha trovato alla fine il titolo giusto, quello “vero”, voglio dire. Tradotto parola per parola in italiano funziona male. Per questo nell’edizione italiana si è deciso di intitolarlo Dai luoghi profondi. Prose sulla Wilderness.
Certo, rinunciare al picchio becco d’avorio (Campephilus principalis – Linnaeus 1758) significava privare il titolo della sua anima, ma il riferimento naturalistico sarebbe sfuggito a un pubblico italiano e, in generale, europeo. L’Ivory-billed woodpecker era (e forse, nonostante la dichiarazione definitiva di estinzione del 2021, ancora è) una specie endemica degli Stati Uniti del Sud. Le ultime fotografie scattate in Louisiana rimontano al 1935 e, dagli anni Quaranta del Novecento, non si registrano avvistamenti certi. Per dirla in modo poetico, l’Ivorybill è il Santo Graal dell’ornitologia. Nel 2002, pochi mesi dopo la morte di Kilgo, venne organizzata una spedizione nei bayous del Pearl River, in Louisiana, dove uno studente in scienze forestali aveva riferito di aver visto l’uccello nel 1999. Nei trenta giorni in cui durò la spedizione non si trovarono prove consistenti, ma al decimo giorno si udì il caratteristico doppio battito del becco contro il tronco, come nelle registrazioni conservate negli archivi sonori. Nel 2004 qualcuno disse di averne avvistato uno in Arkansas, e così via in Florida, Mississippi e ancora in Louisiana fino al 2009. Da allora la febbre da Ivorybill si è un po’ calmata, e comunque non esiste una prova diretta (fotografie, video, campioni di DNA) o indiretta (ottenuta escludendo specie affini) che confermi che questo straordinario uccello esiste ancora in qualche angolo sperduto del Sud. Proprio questo ci fa capire che cosa volesse dire Kilgo, la sua idea di wilderness: non solo luoghi intatti e difficilmente raggiungibili dall’uomo, ma immersi in una specie di liquido primordiale, qualcosa che ha a che fare con la visione e il sogno.

[…]

Un tempo cercavo titoli che non conoscevo nella misteriosa libreria di Kilgo, poi il mistero è passato e oggi guardo le coste impolverate come un insieme policromo a cui si mescolano oggetti e ricordi. La scarpetta di Jimmy e il vasetto con l’acqua del Black Creek. La foto della lapide e un coltello in corno di cervo. La penna intagliata da Grainger McKoy e il cranio di un animaletto selvatico. E ovviamente, alle mie spalle, maestosa e incombente, l’enorme testa imbalsamata del cudù. Vado a guardarla da vicino. Sulla pelle del dorso e del collo si vedono i graffi di quello che una guida locale ha detto essere un leone. L’occhio di vetro, dolce e profondo, non guarda proprio niente, però. Sono io che guardo il mio riflesso sulla sua superficie convessa e, in questo fittizio scambio di sguardi, capisco serenamente di aver fallito: questa parte di Landness dedicata a Kilgo mi sta davanti come una testa imbalsamata. La wilderness, la verità, la vita si sono perse altrove in qualche irrecuperabile savana africana, o in una parete piena di arte rupestre che ignora il nostro mondo come la pupilla a fessura di un coccodrillo albino. Allora che cosa ho fatto? Kilgo ne parla in Deep Enough for Ivorybills e, dopo di lui, alcuni amici e lettori hanno cominciato a usare un termine, songfeast, per indicare un dono reale o simbolico che segue una caccia simbolica o reale. Tutto ha origine in un racconto:

C’è una fiaba popolare eschimese in cui una dea aquila minaccia di morte un giovane cacciatore se non accetta di imparare ciò che lei chiama il songfeast: una celebrazione dopo la caccia in cui il cacciatore mette in scena l’accaduto e distribuisce agli ospiti carne e pellicce. Quando entrai a far parte del T.H.A. Club a Groton, scoprii che tutte le sere si teneva un songfeast. Cominciava quasi silenziosamente, al ritorno dei cacciatori dai campi all’imbrunire, così silenziosamente che se eri nuovo del club, o se eri un ospite, non ti accorgevi se non dopo che qualcosa aveva avuto inizio. Magari cominciava con un tale che diceva a qualcun altro in piedi presso la sponda insanguinata di un furgone: “Beh, raccontami”.

E ancora:

Un vero songfeast si compone di tre parti. La prima è il fatto in sé, l’esperienza che è occasione per il canto. La mia è stata ricca grazie alle persone con cui ho camminato e ai sentieri che abbiamo percorso. Tuttavia, come tutte le esperienze, è stata a volte anche fortuita ed effimera. Nel desiderio di darle un significato, e in qualche modo di conservarlo, ho cercato di cantarla, di raccontare ciò che è successo. E questa è la seconda cosa, il libro. La terza è l’offerta di doni. Dal momento che, ahimè, non ho abbastanza carne e pellicce da distribuire, posso solo offrire in cambio una misura colma di gratitudine a tutti coloro con i quali ho condiviso una tazza di caffè o un sorso di bevanda calda in una giornata fredda e ventosa.

Gennaio 2016, Modena. L’antefatto di questo songfeast per Kilgo sono io che mi sveglio in quella che un tempo era la casa dei miei nonni, in una camera in cui ho composto al buio, nella mia testa, lunghi frammenti di questo libro. Un gelo mi prende perché so dove sta andando tutto quanto. Paesaggi estinti. Animali estinti. L’estinzione che ci abita dentro e un pezzo alla volta consuma il nostro passato, lo cancella. 2002 e 2022 si danno la mano come due streghe incurvate sul mortaio osceno del Tempo. Adesso però allungo una mano, sento il corpo di mio figlio. Sta ancora dormendo. Il suo respiro prezioso solleva le mie dita premute sulle sue costole. Un calore profondo passa da lui a me. È buono. È potente. E per un po’ non ho paura di morire. Così, improvvisamente, capisco. Non ho mai stretto la mano di Kilgo ma Kilgo è qui con me, nel sangue di mio figlio. Muovo la mano sui suoi capelli. Sui capelli di entrambi. Nonno e nipote. Accarezzo la testa di due bambini in uno. Ed ecco, sono in pace. L’Antropocene è arrivato.



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