Assistere a un programma televisivo negli spazi in cui viene prodotto non è lo stesso che seguirlo da casa o da Internet. L’esperienza cambia se, anziché starsene seduti in poltrona, si è spettatori in trasmissione. Lo dico non per indurre gli utenti a comparire sul set invece di occupare, come voleva Eco, la prima sedia davanti ad ogni piccolo schermo, ma perché interrogarsi sulle differenze è utile, anche per chiarirsi il senso della giusta distanza. C’è chi afferma che guardare la riproduzione ad alta fedeltà di un quadro dia le stesse sensazioni dell’essere di fronte alle materie del quadro. No, indipendentemente dalla quaestio sull’originale e l’aura, lo studio televisivo e il televisore o le piattaforme televisive sono dispositivi diversi e offrono quindi esperienze diverse. In un libro in uscita, La parola trasformatrice (Mimesis), sostengo che i linguaggi, verbovisivi, audiovisivi, multimediali, non rappresentano la realtà né contribuiscono solo a produrla, ma la trasformano e ci trasformano. Ne ho avuto la prova con la partecipazione alla prima puntata dell’edizione 2023 di Che tempo che fa. Mi trovavo a Milano per unire l’utile al dilettevole, cioè la presentazione di un saggio a una visita gentilmente concessami al centro di produzione Rai di via Mecenate. Poi la voglia di capirci meglio ha dato corpo al diletto.
Lo studio di Che tempo che fa è grande 600 mq e alto 8,5 metri. Ha una scenografia semicircolare di schermi a LED multiproiezione, una platea con gradinate per 200 persone, molti monitor e un soffitto con un centinaio di teste mobili dove spicca una telecamera che corre in obliquo per tutta la sala, in orizzontale e in verticale. Anche una floor‐cam su due binari attraversa lo spazio e coglie angolazioni particolari. La tecnologia è ottimizzata per la fruizione televisiva. Da casa si fruiscono immagini di migliore qualità ed è possibile apprezzare il lavoro del regista, la vivacità delle riprese, l’impiego di luci e di effetti speciali visivi e sonori. In studio si coopera al successo della diretta. Tutto deve quadrare, essere canonico, garbato, controllato.
Michele Serra apre la puntata con il più classico dei temi, le promesse elettorali, suggerendo di votare per chi promette di meno. Gli fa seguito Casini che, sull’onda del nuovo libro C’era un volta la politica. Parla l’ultimo democristiano, chiede ai giovani, dal suo pulpito, di impegnarsi per il Paese sporcandosi le mani. Se Burioni e Locatelli, immancabili e ci tengono, addottorano sulla variante Kraken, l’inviato in Ucraina Ilario Piagnerelli aggiorna sui superstiti del palazzo di Dnipro sventrato da un razzo russo; e ricorda che occorrerebbero armi più potenti, in possesso di Italia e Francia. Da Cagliari interviene Antonio Albanese per raccontare Grazie ragazzi, il film diretto da Riccardo Milani e ispirato a una storia vera in cui impersona un attore fallito che in un carcere di massima sicurezza mette in scena Aspettando Godot di Beckett con alcuni detenuti. Super ospite della serata è il campione mondiale di MotoGP Pecco Bagnaia, accompagnato dalla famiglia e dalla sua Ducati.
Fazio è bravissimo, insieme allo staff, a valorizzare la diretta nei collegamenti, con rimandi fluidi e matrioske tra studio televisivo, esterni, altre reti Rai e Internet. Nel crossover con il glass box di via Asiago a Roma per il lancio della seconda edizione di Viva Rai2, Fiorello fa il solito scherzo di telefonargli in trasmissione e chiama poi Amadeus che, pronto, gli risponde da Rai1. In questo balletto di presenze reali e digitali, fra sorprese e cambi scena spettacolari che dal vivo si gustano di più, stride la divisione netta e fissa dell’universo femminile nei due ruoli di Luciana Littizzetto e Filippa Lagerbäck, concepiti per essere il contrario l’uno dell’altro tanto da suscitare la voglia di un’inversione: e se Filippa a volte prendesse il posto di Luciana e Luciana di Filippa? O la donna è necessariamente dicotomica nella società italiana, /bella e non pensante/ (non è il caso di Filippa) oppure /intelligente ma “affascinante”/?
Un assistente in sala, con l’aiuto di alcuni figuranti, istruisce il pubblico ad applaudire, a ridere, a evitare smorfie, pose scomposte, rumori e saluti a parenti e amici. Tutto deve quadrare, appunto. La chiave di lettura del talk show sta nell’acquario del tavolo di Fazio. Gli attivisti animalisti si sono risentiti per la situazione di prigionia e sofferenza dei pesciolini, trattati come soprammobili. Ma nel quarto potere della televisione quell’oggetto diventa soprattutto, volenti o nolenti, una figura simbolica esemplare per tutti i tipi di spettatori, vetrina delle reazioni cognitive, passionali, pragmatiche e sensibili da avere: muti e piatti come pesci. Che tempo che fa non va confuso con un servizio di previsioni meteo. Qui non si riportano condizioni dell’atmosfera ma in vent’anni, successivi al berlusconismo, è avvenuta una trasformazione dell’Italia e degli italiani in un pubblico e popolo moderato, mansueto, all’opposizione non si sa per che cosa, privo di idee e di coraggio, silente e assente. Va rivolto un appello a Fazio perché tolga il banco di pesci e cominci ad andare controcorrente, anche partendo da ciò che accade di bello in Italia grazie a persone comuni.
Nella lettera della Littizzetto una donna, Paola, ha finalmente un fegato nuovo dopo due anni di attesa. Qualcuno glielo ha donato combattendo le paure sul pensiero della morte per salvare una vita e far rivivere la propria in un’altra, o in più di una: le cornee serviranno ancora per vedere il mare, i polmoni si riempiranno di ossigeno per nuovi respiri e salite in bicicletta, il cuore tornerà a battere per amore, il fegato si attiverà per tanti piatti di amatriciana, e i reni potranno essere un filtro per drenare altre paure. Ecco la politica, giovani e anziani insieme, vivi ed estinti (ma non del tutto). L’invito della conduttrice a donare gli organi, dando il consenso quando si rinnova la carta d’identità, dal medico di base, agli sportelli dell’ASL, tesserandosi all’AIDO o scrivendo un’autocertificazione datata e firmata da tenere nel portafogli, è un messaggio politico puro. Fa da modello ai discorsi che la Rai potrebbe diffondere senza perdere l’aria smart, anzi, e per cui si andrebbe fieri di essere trasformati.