Non è facile parlare di Lewis Mumford: la sua produzione variegata sfugge a una classificazione ben precisa, ed è proprio tale complessità e originalità di pensiero, che affianca l’urbanistica alla filosofia, a renderlo un bel punto di partenza per un’indagine sull’attualità. La città, sotto la lente di Mumford, assume un connotato praticamente ontologico: parla la lingua dell’umano che la abita, e diventa quindi espressione della sua identità. Nel panorama delle grandi metropolitane e dell’informazione calzante, il disegno urbano abbozza la geometria di una nuova umanità che è nostro interesse scoprire.
Queste visioni trovano spazio ne Le trasformazioni dell’uomo, un tentativo contemporaneamente antropologico e filosofico di leggere la storia partendo dalle varie forme di socialità organizzata. A questo fine, Mumford tirerà una linea che parte dall’uomo primitivo fino all’uomo contemporaneo teorizzando, infine, un’umanità in prospettiva. Dal mio canto, credo che questo lavoro sia un prolifico punto di partenza a uno studio approfondito delle logiche della contemporaneità.
Il sentiero tracciato, che come detto parte dalla primitività fino al prossimo futuro, non solo è interessante perché testimonia dove si credeva si stesse andando alla fine del Novecento, ma pure in quanto regala categorie interpretative ancora valide. Per questa ragione, direi, la ricerca di Mumford è “inattualmente” attuale: malgrado alcune proposte siano forse invecchiate peggio di altre, la strategia di studio è adatta ai nostri tempi, per capire dove siamo e dove siamo diretti. Mi interessa ripercorrere grossomodo le tappe tracciate dall’autore, aggiungendovi un ulteriore tassello che scaturisce da un modo del soggettivo che mi piace chiamare individualità bucata, col fine di presentare l’attuale condizione umana.
Individui bucati
Mentre leggevo Crave di S. Kane e mi lasciavo rapire dal suo tanto sconvolgente quanto attraente teatro, ho notato come l’autrice rappresentasse le crepe nell’animo dei personaggi facendo completare a ognuno le frasi dell’altro. Ogni dialogo di quel testo è (de)strutturato in modo tale che ogni periodo venga rotto e completato da un altro soggetto, anche fraintendendone il senso; così, l’integrità di ogni soggetto si disperde negli altri individui che si sovrappongono. Questa particolarità mi ha portato, altrove, a definire i soggetti kaneiani come individualità bucate che «si compenetrano, si intersecano e […] si toccano con una pressione che sprofonda nell’abisso dell’identità di ciascuno», essendo «una miscela indifferenziata di soggetti, la cui natura confusa è sintomo di un’individualità rotta e frammentata».
In buona sostanza, penso l’individuo bucato come una forma del soggetto caratterizzata da un’apertura spregiudicata. Il mondo in cui viviamo – che già Mumford credeva una civiltà mondiale che comunica una cultura mondiale – necessita di individui aperti perché recepiscano una realtà globalizzata. Ciononostante, a questa tachicardica realtà corrisponde un’individualità che anziché essere estensivamente aperta, è profondamente bucata.
Una bucatura certamente particolare: se al di là del buco si trova il mondo dei nostri progetti, custode della possibilità di determinarci come individui, al di qua della voragine c’è il modo per ognuno di scrutarvici dentro. In questo senso la perturbante verticalità del nostro buco ci apre alla comunicazione con l’altro, visto che più questi sprofonda nella nostra intimità più autentica sarà la relazione. Sono sicuro sia qualcosa che chiunque possa condividere, tenendo a mente il proprio vissuto: le relazioni, di qualsiasi stoffa siano, acquistano sincerità quando ogni parte si immerge nell’identità dell’altra. Corroborate dalle teorie psicoanalitiche, queste considerazioni penso assumano più vigorosità: a una profondità intrapsichica che ci decentra nella nota tripartizione Io, Es e Super-io, corrisponde un’apertura che ci fa comprensibili gli uni gli altri.
Sia questo, lo strapiombo della nostra persona ci indirizza alla disarmante esperienza del vuoto, una categoria filosoficamente fondamentale, credo bene, per capire tanto quanto sia mancante quanto ciò che deve essere recuperato. La soggettività è dunque eccentrica e si ritrova spaesata tra le stesse mura della sua individualità. Infine, sapendo di essere assente a sé stessa, si getta nell’esperienza del possibile sperando che, alla fine, possa fondarsi.
Questi discorsi sono noti a Sartre che, chiudendo L’essere e il nulla, sostiene che una buona ontologia interroga la fondatezza del soggetto partendo dalla sua assenza di fondazione – «se l’in-sé dovesse fondarsi, non potrebbe tentarlo che facendosi coscienza, in altre parole, il concetto di “causa sui” comporta in sé quello di presenza a sé, cioè della decompressione d’essere nullificante» (ed. il Saggiatore S.r.L., Milano 2014, p. 705).
Del contemporaneo si sono date varie letture: lo si è definito liquido o spettacolarizzante; si è pure sperato di ricucire un freudismo tagliente con gli approcci, ad esempio, di Marcuse e Fromm. Tutte queste analisi dell’umano chiariscono che l’esposizione del fondale dell’individuo sia una questione impellente.
La grande sfida del contemporaneo globalizzato – la cui espansione a dire il vero mi pare tutt’altro che al suo termine proprio ora che è forte del digitale – è la ricodificazione delle individualità. È una questione che per certi versi mi pare avanzata dalle comunità LGBTQ+: la ricerca di un’identità del soggettivo adatta alla propria persona. Non è un problema di natura solo biopolitica, perciò: se la discussione verte l’acquisizione di certi diritti, più in profondità si cerca una più completa e ampia visione dell’individualità.
Nel mondo della velocità e della prestezza, in una realtà macroscopica oltre ogni limite; nel contesto della pluralità e della confusione, il soggetto, già un mistero per sé stesso, dimentica qualcosa di fondamentale: realizzarsi nella sua specificità. Una specificità che si esprimerebbe attraverso una coltivazione genuina della propria quotidianità. Cercando una realtà di soggetti plurali, si spersonalizza l’individuo che invece, proprio in virtù della sua indivisibilità etimologica, dovrebbe affermarsi nella sua singolarità. Lo svuotamento del soggettivo è cominciato disperdendosi nella molteplicità, la cui espressione economica, sociale e geopolitica propongo sia la globalizzazione.
L’uomo unitario ma disunito del contemporaneo
L’umano è inteso da Mumford come un essere fondamentalmente proteiforme: la sua evoluzione scaturisce non tanto da un principio di adattabilità darwiniano quanto dalla camaleontica capacità di modificare la propria forma sociale. Torno a dire come Mumford sia, dapprima che un filosofo, un urbanista e che, per questo, le sue ricerche sono influenzate tanto dall’urbanistica quanto dalle teorie dell’architettura.
Insomma, la categoria interpretativa più importante per leggere l’umano nelle varie epoche è, per Mumford, la struttura sociale e l’organizzazione urbanistica. Ogni momento culturale, che incorpora sviluppi tecnologici e scientifici diversi, è riflesso nella strutturazione del luogo ove ci si stanzia: alla comunità tribale dell’epoca arcaica corrisponde un’organizzazione del quotidiano di un certo tipo, al nuovo mondo ne corrisponde un’altra. È possibile, allora, studiare i momenti dell’umano a partire da come sceglie di abitare il territorio.
La lettura del testo viene molto agevolata dall’indice: il libro è una sorta di narrazione dell’umano che va dalle comunità dal sistema organizzativo tarato su piccole società, come le tribù, a stati complessi dall’organizzazione stratificata. La traiettoria, cosa più importante, fa presente quale modo dell’umano coincida con ogni disposizione sociale: se l’uomo arcaico è parte di una comunità che «si accontenta della propria sussistenza, desiderando raramente […] sostenere uno sforzo collettivo allo scopo di migliorare la produzione», nella post-storicità si è «spersonalizzato così profondamente che non è più abbastanza uomo per tenere testa alle macchine» (L. Mumford, Le trasformazioni dell’uomo, Mimesis, Milano 2021, pp. 52; 176).
La tesi di fondo, come già si può evincere, è quella che l’uomo, dopo aver imbastito infrastrutture sociali, urbanistiche e politiche dalla complessità micidiale, ha perso la cognizione della propria individualità. Peggio, ha perso la propria umanità. Questa lenta dipartita dell’umano ha una causa specifica, ovverosia la pervasività incontrollata della tecnologia su qualsiasi cosa avesse prima una presa diretta.
Un mondo sempre più megalomane e tecnologico produce delle soggettività frammentate e irrimediabilmente sfaldate. L’umano si assenta dai luoghi della sua attività che ora hanno un surrogato all’apparenza migliore, alla sostanza destabilizzante: la macchina. L’uomo perde terreno e, cosa più importante, perde la sua individualità, guasta la sua cognizione di sé. Perduta ogni forma di determinatezza, anela a una ricostituzione disperata che crede di trovare nel collettivo indifferenziato del globale, in quello che per dirla coi termini di Mumford è definibile Un solo Mondo. Una realtà per così dire onnicomprensiva, apparentemente unitaria ma sostanzialmente disgiunta.

Quello che pensa Mumford è un mondo coeso dal nucleo però parcellizzato; una struttura apparentemente coriacea ma internamente argillosa, come una impalcatura traballante. L’umanità è tenuta a galla da individui divisi e plurali, che cercano di stabilizzarsi non tanto diventando sé stessi quanto stringendosi sempre di più gli uni con gli altri. Quasi come, mi verrebbe da dire, si volesse creare una individualità di somma che, per quanto spersonalizzata, riassuma i frammenti persi strada facendo, riunendoli in un’unità forse sintetica ma al fondo confusa.
Le possibilità per l’umano di riappropriarsi della propria individualità stavano in «un’età di rinnovamento in cui il lavoro e il tempo libero, il sapere e l’amore si uniranno per dare forma a ogni stadio della vita e un obiettivo più alto alla vita nel suo insieme» (op.cit., p. 247). Alla luce di oggi, le cose sono andate alquanto diversamente.
Dopo gli anni novanta, con la diffusione di un nuovo tipo di tecnologia, come i computer e soprattutto l’internet e la socialità virtuale, la comunità si è estesa nei campi dove la distanza è annullata, e al suo posto c’è una immediatezza che prima, inviando ad esempio una lettera, poteva solo essere sognata. Se Mumford avesse potuto vedere tutto questo, forse avrebbe ritrattato la sua narrazione pensando, immagino, una comunità totalmente virtuale; un’umanità, come si dice, onlife. L’umano continua, allora, il suo processo di assoggettamento alla macchina. A onor del vero, si potrebbe dire che ora l’umano sia nella macchina, inserito in quei luoghi virtuali che di fatto lo alienano dalla sua quotidianità. Questi luoghi rappresenterebbero, invero, una quotidianità che nella pluralità di soggetti accolti non riguarda nessuno perché parla solo dell’intero.
Penso che le questioni avanzate nell’introduzione assumano più senso: le identità bucate sono irrisolte come soggettività in quanto, inserite in una molteplicità spersonalizzante, perdono la loro coscienza di sé; come se non bastasse, il tecnologico sferra un ulteriore colpo alla perdita di identità. Per tutte queste motivazioni l’impellenza dei nostri tempi è, senza mezzi termini, il singolo nella sua irripetibilità.
La ricerca di Mumford cristallizza quelle tappe storiche che hanno portato l’umano a smontarsi asservendosi alla macchina. Le sue prospettive diventano, infine, un’occasione importante per riavvolgere il nastro e magari comprendere da dove iniziare per risanare l’umanità giacché non ne va solo degli individui, ma del mondo che vivono.

Bibliografia essenziale
Ho parlato in modo decisamente più diffuso dell’individualità bucata in un articolo di commento all’opera Crave di S. Kane, edito dalla rivista Pagine Filosofali. URL: https://www.paginefilosofali.it/soggettivita-rotte-ed-individui-bucati-in-crave-di-sarah-kane-simone-santamato/
Z. Bauman, Modernità liquida, Laterza, Bari 2011; Vita liquida, Laterza, Bari 2008.
G. Debord, La società dello spettacolo, Massari Editore, Bolsena 2002.
Per quanto di cui abbiamo discusso, credo che il lavoro di H. Marcuse, L’uomo a una dimensione (Einaudi, Torino 1999), costituisca una lettura importante.
E. Fromm, L’arte di amare, Mondadori, Milano 2016.
L. Floridi, The Onlife Manifesto. Being Human in a Hyperconnected Era, Springer, New York 2014. Il testo, poiché open-source, è scaricabile al seguente URL: https://link.springer.com/book/10.1007/978-3-319-04093-6
All’interno di H. Arendt, Verità e politica (Bollati Boringhieri, Torino 2004), è presente un prezioso saggio breve dal titolo La conquista dello spazio e la statura dell’uomo che intavola discussioni vicine al nostro argomento.