Quando la figura del cyborg ha iniziato ad affermarsi nella cultura di massa? E quale relazione la lega all’immaginario cyberpunk? Ne Il corpo virtuale. Dal corpo robotizzato al corpo disseminato nelle reti (Krisis Publishing, 220 pag., 18€, 2022), Antonio Caronia traccia una breve genealogia del fenomeno e si sofferma sulle domande che la natura complessa del cyborg ha sollevato riguardo al rapporto tra corpo e tecnologia. Oggi su Scenari ne proponiamo un estratto.
A metà degli anni Ottanta, il gruppo di scrittori etichettati come “cyberpunk” scossero violentemente il mondo stagnante della fantascienza americana e mondiale, e si imposero all’attenzione dei media, che per qualche tempo dedicarono loro uno spazio ben maggiore di quello normalmente concesso agli eventi interni al ghetto di appassionati di questo genere narrativo. Nel 1984 Neuromancer, primo romanzo di William Gibson, otteneva un successo inusuale per un libro di fantascienza. Due anni dopo l’antologia Mirrorshades, curata da Bruce Sterling, presentava al pubblico una rassegna organica e stimolante di quello che ormai si presentava come un movimento. Che cosa avevano da dire di nuovo questi scrittori più o meno sui trent’anni, con molti aspetti underground, che ai convegni dividevano drasticamente la platea fra sostenitori e detrattori? Agli inizi degli anni Ottanta Sterling aveva fissato per loro, in un manifesto diffuso solo nel mondo dei fan, un programma ambizioso: “Noi dobbiamo creare la letteratura tipica di una società postindustriale” (Alphaville, 64). Qualche anno dopo lo stesso autore, nella prefazione a Mirrorshades, articolava meglio i punti di partenza e i temi. “I cyberpunk”, scriveva Sterling, “sono forse la prima generazione di scrittori di fantascienza che non sono cresciuti soltanto all’interno della fantascienza come tradizione letteraria, ma in un vero e proprio mondo fantascientifico” (Mirrorshades, 17). Sterling vedeva con chiarezza le modificazioni che gli sviluppi tecnologici degli ultimi vent’anni avevano indotto nella vita quotidiana e nell’immaginario.
Per i cyberpunk la tecnologia è viscerale. Non è il genio nella bottiglia di una Grande Scienza remota e distante: è pervasiva, terribilmente intima. Non è fuori di noi, è molto vicina a noi. Sta sotto la nostra pelle: spesso, dietro le nostre teste. Per noi non è più la gigantesca meraviglia sbuffante vapore, come era nel passato: lo Hoover Dam, l’Empire State Building, gli impianti a energia nucleare. La tecnologia degli anni Ottanta sta attaccata alla pelle, risponde al tocco: è il personal computer, il Walkman Sony, il telefono cellulare, le lenti a contatto morbide (Mirrorshades, 20).
La tecnologia inserita nella vita quotidiana, elemento di modificazione e ristrutturazione del corpo. L’artificiale come dimensione ormai scontata, evidente, esplicita, della vita. La “nuova carne” di cui già aveva già parlato David Cronenberg. Se l’aspetto più appariscente dell’immaginario tecnologico cyberpunk, quello immediatamente colto da lettori, critici e commentatori, fu il ciberspazio, che contribuì non poco a fare da cassa di risonanza per la tecnologia delle realtà virtuali che nasceva proprio in quegli anni, i testi dei cyberpunk insistevano però anche sul tema dell’invasione del corpo a opera della tecnologia. Fra i personaggi principali di Neuromante ce n’era uno, già apparso nel racconto “Johnny Mnemonic”, che riprendeva una figura tradizionale del noir di ambientazione urbana, il mercenario un po’ guardia del corpo e un po’ killer, personaggio metropolitano misterioso, dallo sguardo distante. Questa volta il personaggio era una donna, una street samurai con gli occhiali a specchio (questo accessorio, che dava anche il titolo all’antologia di Sterling, era stato il primo simbolo del movimento): il che, in un libro scritto da un uomo, era già una novità. Ma c’era dell’altro: gli occhiali di Molly non erano occhiali, erano occhi impiantati, occhi artificiali direttamente inseriti nell’orbita. E le mani di Molly, che erano anche capaci di tenerezza nell’amore, al momento del bisogno si trasformavano in armi micidiali, perché da sotto le unghie scivolavano fuori dieci affilatissime lame. Molly era, insomma, un cyborg, un organismo cibernetico, un essere umano in cui abitavano, oltre ai normali tessuti, oggetti estranei, artificiali, integrati nel suo sistema corporeo (tutto ciò, sfortunatamente, scompare nella versione cinematografica di Johnny Mnemonic del 1995, diretta da Robert Longo e sceneggiata dallo stesso Gibson, in cui Molly, ribattezzata Jane, è una presenza scialba, in tutti i sensi). Pochi anni dopo Walter Jon Williams, evidentemente ispirandosi all’eroina di Gibson, creava in Hardwired il personaggio di Sarah, un’altra bad girl con un’arma, se possibile, ancora più tremenda: un serpente cibernetico lungo due metri, che a riposo stava annidato dentro la sua gola, ma all’occorrenza scattava fuori dalla bocca della donna per colpire saettando l’avversario. E altre storie di occhi inusuali si potevano leggere in Mirrorshades. Paul di Filippo ci raccontava quella di Stone, mendicante cieco a cui viene impiantato un meraviglioso sistema visivo computerizzato, che gli consente di vedere in tutte le zone dello spettro elettromagnetico (“Stone è vivo”). Tom Maddox, in “Occhi di serpente”, ci parlava dei problemi dei reduci di guerra che conservavano anche in pace l’interfaccia operativa impiantata nel corpo con la quale connettevano il proprio sistema nervoso agli aerei che pilotavano. Bruce Sterling costruiva addirittura una storia del mondo (raccontata nel romanzo La matrice spezzata e in una decina di racconti) basata sulla dialettica fra Mechanists e Shapers, cioè fra coloro che scelgono di migliorare il proprio corpo per via di innesti meccanici e coloro che preferiscono la via della manipolazione genetica. Nel cyberpunk, insomma, il cyborg era di casa.
Il termine “cyborg” non era nato sulle pagine di un libro di fantascienza, ma negli ambienti della ricerca scientifica che orbitava intorno alla NASA. Negli anni Cinquanta l’ente spaziale americano aveva preso davvero in considerazione l’ipotesi di modificare chirurgicamente gli esseri umani, sostituendo parti del corpo e inserendo organi artificiali, per renderli adatti all’esplorazione di altri pianeti senza dover far loro indossare ingombranti tute. Così, nel 1960, due medici del Rockland State Hospital di New York, Manfred Clynes e Nathan Kline, avevano parlato di cybernetic organisms. Nella realtà l’ipotesi era rimasta tale, ma la fantascienza aveva sviluppato l’idea, annettendo d’ufficio il nuovo nato alla sua galleria di esseri artificiali. Frederick Pohl, quindici anni più tardi, quando ormai la NASA stava ridimensionando i propri programmi, avrebbe descritto proprio questo cyborg spaziale nel suo Uomo più. In effetti non si trattava affatto di un nuovo nato. La fantascienza aveva parlato di esseri ibridi carne-metallo fino dagli anni Venti e Trenta (quasi sempre alieni malvagi e perfidi), ma, se vogliamo, anche l’omino di latta di II mago di Oz (1900) di L. Frank Baum è un proto-cyborg. E Renato Giovannoli rintraccia l’idea della sostituzione completa degli arti con protesi artificiali addirittura in un racconto di Edgar Allan Poe del 1840, “L’uomo interamente consumato”, oltre a ricordare giustamente che sono cyborg anche i marziani della Guerra dei mondi di Herbert George Wells (Giovannoli, 25/26). Nell’immaginario, perciò, questo movimento di ritorno della tecnologia all’interno del corpo dell’uomo era stato segnalato per tempo, se non addirittura in anticipo sui tempi. Fino a tutti gli anni Sessanta e oltre, però, il cyborg, anche quando non è un alieno, non evoca affatto una prospettiva di convivenza e di integrazione con la tecnologia, ma al contrario una situazione di estrema conflittualità e di esclusione dalla comunità umana. L’abbraccio troppo intimo con la tecnologia produce dei paria infelici e dolenti. Esempi abbastanza significativi di questo tipo di cyborg si trovano nei racconti di Cordwainer Smith, uno scrittore oggi quasi dimenticato, colto e raffinato, che anticipò tendenze e temi degli anni successivi. La sua visione delle esplorazioni spaziali ricalca gli eventi reali della colonizzazione del nuovo mondo: nelle sue astronavi gli equipaggi sono formati da criminali, rifiuti umani, forzati che vengono deportati nello spazio. Sia loro, però, che i loro ufficiali (gli scanners), per poter sopravvivere al terribile mal di spazio, devono sottoporsi a un’operazione chirurgica che isola tutti gli organi interni dal cervello, e ne affida il controllo a cassette che portano appese sul petto. Sono esseri privati di ogni sensibilità, la cui unica connessione col mondo è data dalla vista. Perciò, quando gli scanner tornano a terra, per poter condurre una vita normale devono ricostituire temporaneamente il contatto col proprio corpo, con un’operazione traumatica e pericolosa (“Scanners Live in Vain”, I controllori vivono invano). Altre volte Smith parla di esseri capaci di connettere direttamente il proprio sistema nervoso con i sistemi di comando delle astronavi, o di laminated brains, esseri umani senza più corpo, la cui mente è stata trasferita in cubi artificiali. Ritroveremo figure di questo genere, qualche anno più tardi, nella narrativa di Samuel Delany, e poi in quella dei cyberpunk.
Per il momento il cyborg non è meno maledetto del robot. Esso esprime lo stesso desiderio di immortalità che abbiamo visto esprimersi nella figura dell’uomo di metallo o nell’androide (una posizione che è invece paradossalmente rovesciata in Do Androids Dream e in Blade Runner, dove i replicanti, proprio in quanto artificiali, hanno una vita a termine). Ma è un’immortalità malata, una cattiva eternità, quella assicurata dalla macchina. Un bizzarro racconto di Jorge Luis Borges e Adolfo Bioy Casares del 1967 chiarisce l’idea fin dal titolo, “Gli immortali”. I personaggi in questione si presentano nella forma di due cubi sovrapposti: sul cubo superiore, più piccolo, c’è una grata attraverso la quale sembra di intravedere degli occhi, e sotto di essa una fessura da cui sfuggono sospiri e voci indistinte. Dentro ai cubi abita il cervello dell’immortale, “irrigato giorno e notte da un sistema di correnti magnetiche, l’ultimo baluardo animale nel quale convivano ingranaggi e cellule. Il resto è fòrmica, acciaio, materiale plastico” (Borges, Casares, Cronache di Bustos Domecq, 96). Se la morte del corpo è causata dal deterioramento dei suoi organi, argomenta lo scienziato pazzo di turno, basterà sostituire il corpo pezzo per pezzo, mettendo al posto della carne corruttibile componenti inossidabili, per assicurare l’immortalità, anche se a prezzo dell’immobilità. È una satira grottesca e agghiacciante, che spinge alle estreme conseguenze il paradigma meccanicista. L’idea del cervello in una scatola di metallo è comunque un’idea molto diffusa negli anni Cinquanta e Sessanta. Ma nella narrativa e nel cinema di genere, senza il filtro distanziante dell’algida ed elegante ironia dei due scrittori argentini, essa esprime con drammaticità (e spesso con una certa retorica) l’ossessione di una perdita del corpo a opera dell’organizzazione industriale della società.
Un racconto del 1960 di Frederick Pohl, esponente di rilievo della cosiddetta social science fiction, o “fantascienza sociologica”, è significativo in questo senso. “Il tunnel sotto il mondo” racconta di Guy Burkhardt, abitante di una tranquilla cittadina del Midwest, che scopre di essere condannato a vivere, giorno dopo giorno, sempre la stessa giornata: stessi avvenimenti, stessi incontri, stessi gesti, solo le pubblicità in cui si imbatte sembrano cambiare ogni volta. Il protagonista si rende conto con raccapriccio che ogni sera gli abitanti vengono addormentati, i loro ricordi azzerati, e ognuno di essi è pronto, il mattino dopo, a rivivere quell’immutabile 15 giugno. Si tratta evidentemente di una diabolica sperimentazione su una comunità di ignari consumatori per testare l’effetto di diversi messaggi pubblicitari. Fin qui il racconto sembrerebbe dunque, in linea con i parametri della social science fiction, una variazione su un tema in quegli anni abbastanza diffuso, sull’onda del successo del libro di Vance Packard I persuasori occulti. Ma la verità è ancora più macabra. Gli abitanti della cittadina, scopre il protagonista, in realtà sono tutti morti in un gigantesco incidente che ha distrutto il paese. L’organizzazione pubblicitaria è però riuscita a salvare i loro cervelli, e li ha collegati ad altrettanti minuscoli robottini, che abitano la riproduzione miniaturizzata della città, posata su un gigantesco tavolo in uno dei locali dell’azienda. Questi particolarissimi cyborg sono perciò intrappolati in un micromondo chiuso e in un tempo circolare, prigionieri non solo di un corpo artificiale, ma di un universo claustrofobico dominato dai media. È uno dei racconti più dickiani di Pohl, che ci dice con inusuale chiarezza che il cyborg non è tanto una questione di tecnologia, quanto di organizzazione sociale. Il matrimonio del nostro corpo con la tecnologia non potrebbe funzionare se non fossimo già immersi in un paesaggio artificiale, un paesaggio in cui le cose e le loro rappresentazioni si confondono, un paesaggio che, grazie alla potenza e alla pervasività della tecnologia che lo costituisce, ha la forza di inscriversi direttamente nel nostro sistema nervoso. Anzi, noi non possiamo più pensarci come un “io” separato e distaccato dal mondo. La nostra soggettività non è più un nucleo stabile e autonomo che rispecchia il mondo, lo ordina con la sua razionalità, gli conferisce un senso: è un grumo temporaneo, di una densità appena sufficiente a garantire una parvenza di identità, destinato a sciogliersi e a riformarsi, ogni volta diverso, in quel paesaggio che, adesso lo vediamo, non è che un flusso di informazioni continuo, dinamico, sempre al confine fra stabilità e instabilità. La potenza dell’esteriorizzazione sta per rovesciarsi come un guanto: dopo essersi estroflesso nel mondo con la forza di una tecnica dominatrice e ordinatrice, l’uomo occidentale vede tutto il mondo rifluire entro di sé, direttamente e letteralmente dentro il suo corpo. Dopo l’esplosione dell’uomo nel mondo, l’implosione del mondo nell’uomo.