Piangere senza essere visti: il cinema di Yorgos Lanthimos

Ispiratore della new-wave del cinema greco, Yorgos Lanthimos è riuscito a imporsi come uno degli ultimi registi capaci di esprimere una distinta forma di autorialità all’interno delle proprie opere. In occasione della sua vittoria del Leone d’oro al miglior film con Povere creature!, proponiamo un estratto di Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos di Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino. 

Lanthimos opera a cuore aperto. I racconti del regista greco – nell’insinuante alterità delle riprese, nelle urticanti mosse che ci preparano agli incontri con la crudeltà di cui è disseminato il suo cinema – avvicinano i personaggi e sanno divenire intimamente disturbanti, come possono esserlo individui che sono vittime dello straniamento di una società di cui non si sentono parte e che li vuole, al contempo, casuali esecutori dell’indifferenza che permea le loro esistenze. La fuga è continuamente ricercata, l’evasione escogitata nei modi più estremi per sottrarsi ad un mondo sempre più catalogante. Gli scenari convenzionali che si prospettano ai personaggi dei film di Lanthimos fanno paura, significano repressione e regressione. Sia in un film dal taglio più sperimentale (Kinetta), sia in una produzione di maggiore respiro (Il sacrificio del cervo sacro, La favorita), nell’opera del cineasta greco i protagonisti sperimentano l’ossessione del controllo delle proprie azioni come di quelle altrui, verso spirali autodistruttive che chiamano in causa la contemporaneità e i miti tragici, la crisi della ratio occidentale e il dominio di un inconscio mai domato né compreso, nel segno della dissoluzione sconcertante delle relazioni tra individui che appare come il grido d’allarme di un cineasta i cui personaggi paiono calati in una solitudine sconcertante, attraverso quell’anestesia del sentire che sembra connotare un mondo cinematografico straordinariamente allusivo.

Il cinema di Yorgos Lanthimos è denso e rappreso in racconti che sono situazioni e ambienti scrutati dalle riprese, dove la componente visiva si accompagna alle dissonanze provocate dalla matrice sonora, sperimentale e colta, attraverso immagini che veicolano il progressivo venir meno dell’equilibrio psichico e armonico per i personaggi e per chi guarda il film. Un deragliamento che mina la prigione dorata della Regina Anna (La favorita), così come quello della famiglia benestante dell’Ohio (Il sacrificio del cervo sacro), ed è ottenuto attraverso lo stile inesorabile del cineasta, che sin dalle prime mosse nel mondo del cinema sperimenta includendo e adoperando scelte importanti, chiedendo il meglio ai suoi collaboratori e lavorando in stretta simbiosi con loro, come succede per la lunga collaborazione con lo sceneggiatore Efthymis Filippou, che firma con lui Kynodontas, Alps, The Lobster, Il sacrificio del cervo sacro, e Nimic, e con il direttore della fotografia Thimios Bakatakis, che realizza con Lanthimos Kinetta, Kynodontas, The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro: un team artistico che li vede crescere insieme e portarsi dai toni di un cinema orgogliosamente calato nelle desolazioni di una Grecia simil-concentrazionaria alle non meno allusive produzioni internazionali la cui raffinatezza linguistica amplifica il discorso allegorico. Lanthimos ama quindi circondarsi dei suoi attori prediletti, e quando può li ritrova lungo il cammino. Gli succede con la moglie Ariane Labed, con Angeliki Papoulia, e più avanti con Colin Farrel e Olivia Colman, per citare soltanto i nomi più noti. Ama sviluppare a fondo i ruoli e le situazioni, in sintonia con gli interpreti, scavando nell’emotività per dar volto a quello spaesamento attonito e anestetizzato che possiamo cogliere nei suoi film, lo stordimento di individui mossi dalle regole di una crudele commedia di cui non è sempre immediato identificare i moventi. 

Yorgos Lanthimos nasce a Pangrati (Atene) nel 1973. Studia regia cinematografica e televisiva alla Stravrakos Film School e non disdegna affatto il mondo della commedia sin dal lungometraggio d’esordio O kalyteros mou filos, co-direzione con l’amico attore Lakis Lazopoulos (distribuito fuori dalla Grecia con il titolo My Best Friend). Un esordio che Lanthimos eviterà di considerare parte della sua filmografia vera e propria, trattandosi sostanzialmente di un film condiviso nelle scelte registiche e attoriali con Lakis Lazopoulos e Antonis Kafetzopoulos, alla prova in una performance da commedia surreale, dove le bugie e le amicizie si intrecciano nella vicenda di Kostadinos (lo stesso Lakis Lazopoulos), assicuratore di una importante società, che ha vinto un viaggio all’estero come premio per la sua dedizione al lavoro. Ma il viaggio non va in porto perché Kostadinos perde l’aereo, e al suo ritorno a casa ritrova la moglie a letto con Alekos, il suo miglior amico. In questa vicenda stravista, emerge il rapporto tra tue individui che scoprono di essersi nascosti molti segreti, e di aver giocato sporco l’uno alle spalle dell’altro.

Solo la scoperta del tradimento mette davvero la parola fine ai loro matrimoni, che crollano in un racconto di sesso e inganni dove l’umorismo qualche volta è il vero motivo d’attenzione per un racconto che apre il via a vari intrighi erotici, sfrontati e divertenti, in una scena quasi futuristica. Il grottesco e la bizzarria di alcuni personaggi (il detective, gli individui calvi che ricompaiono nella vicenda) sono elementi che sarebbe persino troppo facile voler riconoscere come un’anticipazione del cinema di Lanthimos che verrà, ci basti cogliere come, in una commedia attoriale di bugie, sia ravvisabile seppure in larga lontananza come una parentela primigenia, un’affinità originaria tra alcune situazioni oltraggiose vissute dai due protagonisti – amici fin dall’infanzia che hanno trascorso parte della vita tormentandosi a vicenda – e gli intrighi e le bugie dello scenario de La favorita, il film più mainstream del futuro cineasta internazionale. Qui gli eventi rivelano un altro inganno, nascosto dalla moglie di entrambi gli uomini, preludono intrighi erotici che restituiscono il clima di una trama abusata, sebbene la comicità del film sia a suo modo già spietata.

Un tono divertito che aleggia oltre una certa svagata confusione, nell’intensità che si accompagna alla volontà di seguire la recitazione di Kafetzopoulos, interprete nato in Turchia ma di nazionalità greca, presto noto soprattutto per i ruoli in Scorpios, Stakaman!, e in Akadima Platonos, titolo con cui vincerà il Pardo d’oro per la miglior interpretazione maschile al Festival internazionale del film di Locarno nel 2009: attore che in O kalyteros mou filo porta il suo abituale stile di persona timida ed introversa la cui medietà viene diritta dalla consuetudine di un abituale ruolo per la televisione greca (Scorpios, serie televisiva di 20 episodi interpretati dal 1995 al 1996). Per Lanthimos, che assiste attentamente il clima grottesco della rappresentanzione di un set surreale, O kalyteros mou filo è l’occasione per farsi cinematograficamente le ossa prima di potersi dedicare da solo alla macchina da presa. Prima di diventare regista peraltro, Lanthimos è lui stesso un attore, quindi creatore di videoclip in attesa che il suo mondo espressivo diventi autonomia di senso con Kinetta, nel 2005, il primo lungometraggio da lui unicamente diretto in cui Yorgos comincia ad elaborare la sua poetica cinematografica. Il corpo e il linguaggio sono i suoi primi territori d’indagine, in una geografia di personalità in cui si fugge da sé stessi per cercare altre possibilità di vita (parossismo che raggiungerà il culmine in Alps, in cui un gruppo di attori si addestra a inserirsi nei nuclei familiari che hanno subito un lutto per alleviare loro l’urto del dolore, in realtà realizzando, con la recitazione e la sostituzione del defunto, una palese alterazione della naturalezza mostrando la finzione – e il cinema di cui è nutrita questa anomala squadra – come ulteriore chiusura dal mondo).

Kinetta mostra sin da subito come gli individui cerchino l’oppressione, sebbene in una forma simulata e perciò anche anestetizzata; il rito della sopraffazione è divenuto regola sociale, come nella scena di Kynodontas in cui i due genitori indottrinano i figli dentro i recinti di una casa in cui il linguaggio diviene distorsione e manipolazione di significati, ambito di violenza non solo mentale. Le personalità, deturpate nel corpo e nel linguaggio, sperimentano la crisi dell’invidividualità. I protagonisti dei film di Lanthimos non hanno quasi mai un nome proprio, e sono identificati unicamente per tratti esteriori o materiali. Vivono nell’isolamento, senza contatti con il mondo esterno, proprio come in Kynodontas, o nella vistosa tenebra di un hotel dove i single hanno soltanto quarantacinque giorni di tempo per trovare l’anima gemella pena l’essere trasformati in un animale: allegoria quest’ultima che che riguarda The Lobster e procura a Lanthimos e a Filippou la prima nomination agli Oscar per la sceneggiatura nel 2017. 

R. Lasagna, B. Pallavidino, Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos (Mimesis Edizioni, 126 pag., 12€, 2019)

Intanto, i festival internazionali già da tempo si sono accorti di Lanthimos e della rinascita del cinema greco: per citare soltanto il Festival di Cannes, il cineasta greco è premiato nel 2009 per Kynodontas (Un Certain Regard), nel 2015 per The Lobster (Premio della giuria) e nel 2017 per Il sacrificio del cervo sacro (Miglior sceneggiatura). Yorgos Lanthimos si afferma in pochi anni come uno dei più interessanti registi europei, i cui soggetti – dalla Grecia dei primi lungometraggi, all’Irlanda distopica di The Lobster, all’America contemporanea de Il sacrificio del cervo sacro, sino alla ricognizione dell’Inghilterra patriarcale settecentesca ne La favorita – riverberano le tensioni sociali della Grecia contemporanea segnando con un filo logico sotterraneo ma coerente lo smarrimento dell’individuo dinanzi alla perdita di certezze, lasciando all’immaginazione e ai furori dei suoi outsider le speranze di quel cambiamento reale che possa portare lontano dalle convenzioni.

Con il successo dei festival, e poi anche di pubblico, Lanthimos è talora definito pretenzioso, sopravvalutato, scaltro. Ma il prezzo della diffidenza ha il suo controcanto nell’attenzione della critica. La coerenza del discorso dell’autore, che sanziona gli errori dell’uomo moderno nel beato sonno della coscienza in cui questi persevera, rappresenta con forme di estrema lucidità il cinismo dell’abiezione, la voracità della società in cui ai personaggi è chiesto di essere schiavi, repressi dal controllo dell’emotività che passa anche attraverso la deformazione del linguaggio e dei pensieri. La ricerca espressiva rielabora attraverso il percorso con lo sceneggiatore Filippou l’aspetto di umorismo amaro che attraversa i racconti, in linea con una ricerca sull’immagine in cui un tono minimale quasi geometrico esprime con limpida paradigmaticità la desolante condizione in cui gli outsider si confrontano gettandosi contro le regole di un sistema spietatamente ottuso. La raffinatezza stilistica è una costante sia nell’exploit meta-cinematografico dello scarno Kinetta, sia nelle luminose ricorrenze barrylyndoniane de La favorita, dove Lanthimos, pure affidandosi alla sua imaginerie, fa rivivere la Storia e i conflitti di classe in un film polifonico e moderno, vistosamente deformante ben oltre la consuetudine dei grandangoli con cui il regista fregia il suo sguardo contemporaneo; nel film, la condizione femminile in un mondo di grotteschi ostacoli è attentamente rappresentata nelle motivazioni che rendono almeno in parte giustificabili anche le mosse spietate delle protagoniste in uno scenario storico sanguinoso che non prevede per loro difese.

Dall’astrazione metafisica, alla coscienza storica, il passo potrebbe sembrare arduo ma Lanthimos lo affronta a testa alta, tanto che i corsi e i ricorsi storici sembrano in qualche misura collegarsi con la circolarità delle sue vicende, con il fato che ha già prescritto il futuro per i personaggi de Il sacrificio del cervo sacro ma anche con la sinuosa enigmaticità di Nimic, cortometraggio di 12 minuti presentato a Locarno 72°, in cui il cineasta greco sembra distillare i toni musicalmente tragici del suo cinema coniugandoli con il discorso sulla mancanza di certezze dell’uomo contemporaneo, che cerca altrove o addirittura nei corpi altrui l’àncora di una (im) possibile salvezza. Nimic è essenzialmente un film musicale, come minuziosamente musicale è la composizione dei film di Lanthimos, da sempre attento alle associazioni tra le strutture musicali e la sfera affettiva, secondo una consapevolezza che rimanda agli antichi greci che attribuivano a ciascun modello ritmico o melodico un particolare carattere in grado di influenzare gli stati d’animo e la volontà degli ascoltatori. Questa consapevolezza espressiva è ribadita dalle pagine migliori di The Lobster e Il sacrificio del cervo sacro, diventando dichiarazione programmatica in Nimic, per ribadire che ogni azione o gesto, individuale o corale, identifica il personaggio e i suoi tormenti, così come le colpe che cerca di estirpare (piuttosto che scontare, se si parla del sonno della consapevolezza che contraddistingue il medico ne Il sacrificio del cervo sacro). E un’orchestra accompagna a scatti il risveglio del violoncellista Matt Dillon, che si prepara la colazione nel suo rituale quotidiano, nel quadretto di una famiglia borghese americana il cui carattere ansiogeno è sottolineato dall’alienante e continua interruzione della musica scandita dal timer che simbolizza anche le ripetute interruzioni durante le prove musicali che seguiranno. L’incontro con una donna sulla metropolitana di New York – interpretata da Daphné Patakia – restituisce a Dillon, poliedrico interprete anche del recente La casa di Jack di Lars Von Trier, un incubo ad occhi aperti che ci riporta tanto a Il sacrificio del cervo sacro quanto ad Alps. La semplice domanda: “Do you have the time?”, pronunciata dalla donna che sembra una figura stregata e dallo sguardo asettico, introduce un’ossessione che proseguirà con l’inseguimento della donna sino a casa del nostro artista che troverà moglie e figli incapaci di dire chi sia quello appartenente al padre tra i due volti rientrati a casa. Ancora una volta ci troviamo davanti a un riflesso della nostra immagine che tenta di prendere il nostro posto, e Nimic, che in rumeno significa niente, è una perla nichilista dentro la sinfonica e affascinante composizione artistica di Yorgos Lanthimos, autore che ha annunciato tra i suoi progetti futuri l’adattamento del romanzo di Jim Thompson Colpo di spugna ed è sempre alla ricerca di immagini e situazioni in grado di tuffarci nel vuoto, nell’incertezza, turbando quel sonno della coscienza che troppe volte si nasconde nell’anestesia delle relazioni e che un percorso artistico può ridestare con scatti e mosse di urtante bellezza.

Nel lacerante percorso attraverso il dolore, le menomazioni, in Lanthimos la ricerca della fuga porta alla ferita, alla perdita del dente canino che dovrebbe essere un rito di passaggio in Kynodontas ma si tramuta invece nell’ennesima bugia deformante di una cultura che non offre alcuna educazione di progresso, che ha dimenticato la sua grande e gloriosa tradizione. Una grandezza che può essere recuperata con lo studio del linguaggio, attraverso una nuova educazione, che può avvenire anche con il cinema, l’arte, la musica. Una consapevolezza rigenerata può strutturare la realtà e l’arte, dandosi come comunicazione differente e territorio per relazioni eque, paritetiche. La consapevolezza strutturale e teorica attraversa il cinema di Lanthimos offrendo ad esso originalità e consistenza, quel guardare al differente nella necessità di un linguaggio e di una cultura che traggano spessore da premesse etiche condivise. Anche nei confronti dell’evolversi dell’essere umano in relazione alla divinità e al mistero dell’universo, i racconti di Lanthimos seguono un dettato che induce a pensare alla coerenza e alla lucidità di cineasti come l’amatissimo Kubrick, al disincanto di Cronenberg e Haneke, alla lirica visionarietà di Tarkovskji. Uno sguardo consapevole dello smarrimento, in cui le prove dell’uomo avvengono al cospetto del fato e degli dèi, e dove la hybris, la violazione della norma della misura, come ne Il sacrificio del cervo sacro e ne La favorita, obbliga, conformemente alle regole degli uomini, ad una punizione. Un dolore in più, che Lanthimos coglie con rinnovato sgomento nel corso della sua maturazione artistica, con note di tragicità che rendono il suo cinema scomodamente vivo, oltre la facciata della scena artificiale in cui i suoi personaggi si muovono e patiscono, piangono senza essere visti. Un cinema dagli echi lontani ma nuovo e coerente, la cui estetica raffinata e singolare continua a trovare estimatori (come Gucci che si affida al contributo visivo di Lanthimos per un lookbook che celebra gli abiti tra le meraviglie dell’antica Roma).


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