Uomini, animali e politica: attualità della riflessione dell’ultimo Derrida

Uno dei “ritornelli” classici e più conosciuti della filosofia è certamente la celebre frase di Aristotele secondo cui l’uomo è un animale politico, affermazione ripresa spesso nel senso comune e utilizzata per sottolineare l’intrinseca socialità nella vita umana, ma che in realtà implicava una idea più sottile, legata al fatto che l’uomo realizzasse autenticamente se stesso solo interessandosi alla politica, anche perché nel mondo greco gli uomini esclusi dalla politica erano schiavi (per una lettura critica globale della filosofia politica di Aristotele si rimanda al classico Bien, G., La filosofia politica di Aristotele, Il Mulino, Bologna, 1985). Si tratta in ogni caso di una frase che, a ben guardare, mette in relazione concetti come quello di uomo, animale e politica che si intersecano enormemente nell’attualità del XXI secolo richiamando ampi dibattiti e riflessioni. Su questo percorso continuano a risuonare in modo particolare gli interventi dell’ultimo Jacques Derrida, che, nella fase più matura del suo pensiero, si caratterizzò fortemente come filosofo politico e che addirittura, tra le sue ultime esperienze intellettuali, ha lasciato una serie di seminari emblematici in merito, poi pubblicati in due volumi postumi (si vedano Derrida, J, La Bestia e il Sovrano, Vol. I (2001-2002), Jaca Book, Milano, 2009 e Id., La Bestia e il Sovrano, Vol. II (2002-2003), Jaca Book, Milano, 2010). Qui infatti, il filosofo francese si sofferma sul tema della sovranità in rapporto alle figure degli animali che spesso la accompagnano nella vicenda del pensiero politico, affrontando questioni legate sia a noti esponenti della filosofia politica – da Aristotele a Machiavelli, Bodin, Hobbes, Rousseau, Heidegger, Schmitt, Marx, Kant – sino a Agamben, sia, come nello stile di Derrida, a figure del mondo della letteratura come La Fontaine, Celan, Lawrence, Defoe: si pone così molto chiaramente il problema della soglia che nello stesso tempo congiunge e separa uomo e animale, entrando nel cuore della logica del potere, che Derrida vuole riconsiderare nei suoi legami con i viventi.  La decostruzione del politico che Derrida ha avviato giunge in quegli ultimi seminari a intercettare in modo sistematico la questione dell’animale, della vita e del pensiero del vivente: in questa sede intendiamo quindi rileggerla nel suo insieme per coglierne i nodi che coinvolgono molte vicende dell’epoca che viviamo.

Nell’ambito delle correnti del post-strutturalismo francese cui viene solitamente ricondotto (mi sono impegnato in una agile contestualizzazione al riguardo in D’Alessandro, R., Giacomantonio, F., Post-strutturalismo e politica. Foucault, Deleuze, Derrida, Morlacchi, Perugia, 2015), il decostruzionismo di Derrida infatti applicato alle categorie filosofico politiche, si era inizialmente concentrato su quelle che assumono maggiore rilevanza rispetto all’evoluzione della società tardo moderna (democrazia, cosmopolitismo, Stato, legge-diritto-giustizia, multiculturalismo, cittadinanza, ecc.), mettendo così in discussione e ripensando il rapporto tra Stato e politica, soprattutto in rifermento al contesto della democrazia, la cui radice andrebbe individuata in «un’alterità senza differenza gerarchica» (Derrida, J., Politiche dell’amicizia, Raffello Cortina, Milano, 1995, p. 271) ossia richiederebbe una forma di uguaglianza che si sottrae allo schema tipico della società occidentale e della sua tradizione che si fonda sul razionalismo, sulla preminenza dell’elemento maschile, del legame di familiarità e di fratellanza, dell’autoctonia, della nascita e della nazione. La democrazia appare a Derrida come una forza che oscilla tra le dimensioni dell’uguaglianza e della libertà (si veda Id., Licenza e libertà: lo spregiudicato (rouè), in Id., Stati canaglia,  Raffaello Cortina, Milano, 2003), poiché la democrazia non è né un regime, né una costituzione in senso stretto e dunque, il concetto di democrazia, da una parte, si lega alla sovranità statale-nazionale, all’autoctonia, al diritto di cittadinanza per nascita, ma,  d’altra parte, la democrazia si lega al cosmopolitismo, all’avvenire del diritto internazionale e alla distinzione tra Stati legittimi e Stati che non lo sono.  In questo quadro si collocavano implicazioni influenti in chiave giuridico-politica, per cui le leggi non sono giuste in quanto leggi, non si obbedisce loro perché sono giuste ma perché hanno autorità e l’autorità delle leggi si fonda esclusivamente sul credito che si accorda loro (si veda Id., Dal diritto alla giustizia, in Id., Forza di legge, Bollati Boringhieri, Torino, 2003). 

In conseguenza a questi risultati dei suoi studi, che lo hanno peraltro reso uno dei referenti dei dibattiti intellettuali sulla globalizzazione, Derrida, in ultima analisi perviene a vedere, appunto nella tradizione politica occidentale, uno dei luoghi privilegiati per comprendere come la soglia che distingue i caratteri propri dell’uomo rispetto all’animale diventa ambigua. Infatti, quando Derrida tocca le dimensioni della sovranità politica e dello Stato nei suo seminari, egli nota acutamente che tali dimensioni ora sono rappresentate come ciò che si eleva, attraverso la legge e la ragione, al di sopra della bestia, della vita naturale e dell’animale, ora e simultaneamente come manifestazione della bestialità umana. In un passaggio significativo egli afferma che ovunque crediamo di affrontare problemi di sovranità, «la questione non è quella della sovranità o della non-sovranità, ma quella della modalità del trasferimento e della spartizione della sovranità cosiddetta indivisibile – cosiddetta e supposta indivisibile ma che è sempre divisibile» (Id., Undicesima lezione, in Id., La Bestia e il Sovrano, Vol. I (2001-2002), cit., p. 363), per cui «libertà e sovranità sono per molti aspetti, concetti indissociabili» ( ivi, p. 374). 

Come è stato recentemente rilevato (si veda l’utile lettura critico-politica di De Simone, A., Jacques Derrida. L’impossibile, la politicità dell’umano e il bestiario filosofico, Mimesis, Milano, 2023), il discorso derridiano sulla bestia e il sovrano non mira a togliere la base antropologica della soggettività, ma apre lo spazio di tensione tra la questione del vivente e le forme della politica, poiché la sua riflessione «coinvolge la nostra comprensione della soggettività e dei confini tra i viventi» (Ivi, cit., p. 131) ed è forse l’approdo di un lungo percorso di ricerca in cui è sempre stata presente la consapevolezza della necessità di problematizzare i fondamenti e l’orientamento antropocentrico della filosofia e dei discorsi che gravitano intorno ad essa. Si tratta di un punto cruciale che trascende la pura teoria e tocca questioni attuali sollevate dai movimenti animalisti, e conferma una solidarietà di fondo tra l’ontologia e la politica di Derrida. 

Alla luce degli ultimi seminari che Derrida ha lasciato, la sua filosofia politica viene dunque a configurarsi molto significativamente rispetto al panorama contemporaneo, ponendo una via differente dalle correnti normative e da quelle realiste che si contendono la scena e che hanno avuto come esponenti di rilievo due figure con cui Derrida si è anche specificamente confrontato, ovvero Habermas e Schmitt. Rispetto ai contributi di Habermas (si vedano in particolare Habermas, J, Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano, 1996, Id., Solidarietà tra estranei, Guerini e associati, Milano, 1997, Id., L’inclusione dell’altro. Studi di teoria politica, Feltrinelli, Milano, 1998, Id., La costellazione postnazionale, Feltrinelli, Milano, 1999), va sottolineato che il filosofo francese, per quanto giunga a una convergenza di fondo sul discorso habermasiano sulla democrazia e l’Europa, interpreta le categorie giuridico-politiche secondo un canone meno lineare e più articolato, per cui si mette in luce l’essenziale “decostruibilità” del diritto e di ogni assetto istituzionale e, parallelamente, il fatto che la promessa democratica custodisce «un rapporto escatologico all’avvenire di un evento e di una singolarità, di un’alterità inanticipabile» (Derrida, J., Scongiurare – il marxismo, in Id., Spettri di Marx, Raffaello Cortina, Milano, 1994, p. 86). Rispetto a Schmitt(si considerino soprattutto Schmitt, C., Le categorie del “politico”, Il Mulino, Bologna, 1972, Id., La dittatura, Laterza, Bari, 1975, Id., Dottrina della costituzione, Giuffrè, Milano, 1984, Id., Il nomos della terra, Adelphi, Milano, 1991), d’altra parte, il cui pensiero viene collocato da Derrida in continuità con la linea di pessimismo antropologico di Hobbes, si deve notare che sebbene il giurista-filosofo tedesco ponga la sovranità in quanto decisione sullo stato di eccezione, che fa la legge eccettuandosi dalla legge, egli nella sua impostazione esclude il divino e l’animale (su cui invece Derrida insiste particolarmente come abbiamo visto) dal contratto politico.

Se si hanno ben chiari tutti questi snodi, allora è lecito credere che la cifra della filosofia politica di Derrida, scorrendo incalzante dagli anni Novanta con Politiche dell’amicizia sino ai seminari sulla bestia e il sovrano, determina, sull’orizzonte contemporaneo, una traiettoria in cui la concezione del soggetto politico mette profondamente in discussione ogni identità che si voglia purificata dell’alterità e dell’eterogeneità. In questa concezione probabilmente risiede più che mai la grandezza di Derrida, pensatore “perturbante”, che conserva una rilevanza per la filosofia contemporanea, anche al di là della filosofia stessa.


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