LA SOCIETÀ DEI MANICHINI

La nostra società si configura come un gioco di sguardi dove ognuno è costantemente guardabile. Nel corso di questo articolo vorremmo presentare una dinamica che riteniamo essere strutturale della società odierna, quella dello sguardo, alla luce dei social network, intesi come una finestra da cui guardare ed essere guardati. Internet riesce in qualcosa di sensazionale: risolve nella virtualità la presenza ingombrante del corpo, facendo sì che ci si possa incontrare tutti nello stesso luogo. Ma non è tutto qui: istituisce anche un nuovo modo di realizzare la propria individualità tutto da indagare per comprendere le forme dell’umanità digitale. La rivoluzione della rete non è solo tecnica, economica e sociale ma soprattutto antropologica e ontologica: riguarda la maniera di essere umani e il senso di sé stessi. È per questa ragione che crediamo fondamentale riflettere sul corpo e la socialità virtuale partendo dallo sguardo: se i social sono un varco per l’altro, è naturale che le occhiate richiedano un’analisi profonda.

Insomma, è necessario capire cosa ne sia dell’identità di ognuno a fronte di uno sguardo scrutatore. Seguiremmo pertanto la linea di pensiero di Sartre, dove lo sguardo incontra l’ontologia e l’esistenzialismo: nella nostra epoca di guardoni, guardare significa riposizionare l’essenza e l’esistenza di chi incrociamo. Per questo siamo certi che la visione sartriana ci aiuti in una ricerca sui nuovi modi della soggettività contemporanea: oggi si guarda con la perniciosa conseguenza di riassemblare l’identità di chi è preso di mira.

Guardare in faccia il nulla

Lo sguardo assoggetta l’individuo. In senso assolutamente neutro, questo significa “intenzionalizzare” la propria coscienza verso un oggetto. Ciononostante si capisce presto che mirare qualcuno non sia come inquadrare una tra le cose al mondo: come detto, Sartre sovraccarica lo sguardo di tratti ontologici ed esistenziali per cui il soggetto guardato arriva a dubitare di sé stesso – “La tendenza a sfuggirmi, che mi domina e mi trascina, e che io sono, la leggo in quello sguardo indagatore e in quell’altro sguardo: l’arma puntata su di me” (J.-P. Sartre, L’Être et le Néant, Éditions Gallimard, Parigi 1943; tr. it. di G. Del Bo, L’essere e il nulla, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 317).

Il discorso entra in scena in un punto tormentato de L’essere e il nulla. Malgrado sullo sfondo dell’opera ondeggi un generale disincanto, la parte dedicata all’esistenza d’altri (cfr. ivi, pp. 271-358) trasporta una forte inquietudine. Riteniamo che lo sguardo ne sia l’acme dacché per Sartre le cose stanno così: l’umano è irrimediabilmente irrisolvibile (cfr. ivi, pp. 701-712) perché non raggiunge mai una individuazione soddisfacente. Di più, il nulla della parzialità della nostra persona ci catapulta in “Questo sconvolgimento [che] è il mondo” (ivi, p. 702) e, per questo, la libertà stessa finisce per coincidere col nulla e l’angoscia (cfr. ivi, p. 64; pp. 67-71). Il nulla fonda la libertà proprio perché, sentendolo in noi stessi, siamo spinti a riempirlo individuandoci nella nostra identità. Per tutti questi fattori, essere guardati è un’esperienza a dir poco traumatica: come detto, lo sguardo assoggetta chi lo subisce. Per il Sartre de L’essere e il nulla solo le cose sono compiute nel loro senso diversamente dall’umano che, ancora, non si identifica mai una volta per tutte. Diciamo: il coltello, che è una cosa, è pienamente sé stesso – quel coltello è un coltello e può determinatamente rispondere del suo essere con un taglio netto. Se il coltello risolve tutto il suo senso in un atto, è difficile che qualcuno chiarisca appieno la sua individualità – che io sia me stesso insomma – in un singolo fatto. Il punto è proprio questo: disperiamo di individuare il nostro senso senza che niente realizzi la nostra soggettività. Così, la libertà naufraga nel labirintico nulla dell’identità umana.

Lo sguardo è scioccante perché “mi rimanda da me a me stesso” (ivi, p. 312) o come riporta Sartre: “Ecco, ho sentito dei passi nel corridoio: mi sta guardando. Che cosa significa ciò? Che sono improvvisamente ferito nel mio essere e che delle modificazioni essenziali appaiono nelle mie strutture, modificazioni che posso cogliere e fissare concettualmente con il cogito riflessivo” (ivi, p. 313).

Guardare cambia la struttura del soggetto che viene guardato anzi, peggio, ferisce il suo essere. In altri termini, lo sguardo sprofonda nell’identità di chi è preso di mira e ne fruga le crepe congelandolo come fosse una tra le altre cose del mondo. Ma diversamente da queste che sono “piene attualità” (ivi, p. 61), lui è alla sofferta ricerca di sensatezza – e di questo si vergogna:

“Ma la vergogna mi rivela che io sono quell’essere. Non al modo dell’«ero» o del «doverlo essere», ma in-sé. Solo, non posso realizzare il mio «essere-seduto»; tutt’al più, si può dire che lo sono e non lo sono insieme. Basta che altri mi guardi perché io sia ciò che sono. Non per me stesso, certamente: non potrò mai realizzare questo essere-seduto che colgo nello sguardo altrui, rimarrò sempre coscienza; ma, per l’altro. […] per l’altro, io sono seduto come quel calamaio è sul tavolo; per l’altro, io sono curvo sul buco della serratura come quell’albero è inclinato dal vento. Così, per l’altro, io ho deposto la mia trascendenza” (ivi, pp. 315-316).

Guardando si depone la trascendenza altrui, ovvero ne si ghiaccia il tentativo di individuazione: io vengo visto fare qualcosa e sono quell’atto, come se lo sguardo scattasse un’istantanea della mia persona. Eppure oltre quell’atto per cui vengo visto sono anche altro: un’altra azione, un altro sentimento, un’altra parola detta. Lo sguardo fa cortocircuitare l’identità perché, malgrado stia ancora individuandosi, la raggela a un momento: di qui la vergogna di essere visti quando non si è ancora davvero sé. E la disperazione di non poterlo forse mai essere.

È chiaro che lo sguardo per come lo immaginava Sartre dipendeva dalla presenza corporea dei soggetti[1]. La nostra idea è che i social abbiano pericolosamente eliminato questa condizione saldando, prima di tutto, l’ingombro della corporeità: Internet è un’istanza dove è possibile che tutto l’universo allochi in un singolo punto. I social risolvono infatti il corpo in sedi virtuali che sono un’infinita camera di risonanza per le soggettività. Al netto dell’invettiva, Eco aveva ragione da vendere dicendo che “I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar”[2]: le opinioni che prima non risuonavano oltre gli argini del contesto ora hanno un’eco devastante. Così la propria individualità si trova alla costante mercé dello sguardo e del sistematico congelamento della propria identità.

Maestri dello spionaggio

Siamo la società dello sguardo: guardiamo e veniamo guardati in qualunque momento, a patto di essere connessi. Non è un paletto di grosso conto: oggi è davvero difficile trovare qualcuno che non abbia abbracciato le convenienze della virtualità[3]. La rivoluzione più importante dell’internet è la digitalizzazione delle attività quotidiane[4] nonché la digitalizzazione del denaro, cosa che ha interessato più teorici dell’economia[5].

Ciò che ci interessa dimostrare è che i social network siano una finestra spalancata sui soggetti e pensare lo sguardo come un’istantanea sugli individui aiuta a farlo: la nostra non è solo la società dello sguardo ma, più nel profondo, è la società della vergogna. Se la proprietà fissativa dello sguardo sartriano faceva vergognare in momenti circoscritti dove l’occhio prendeva di mira, i social ci sottopongono a vergogna costante perché siamo sempre visibili.

Il social ci chiede subito di creare un profilo – ovvero di generare una forma virtualizzata della nostra persona – e di presentarci con una breve biografia che evidenzi passioni o attitudini così da facilitare le interazioni: posso connettermi meglio con qualcuno se ho già una vaga idea della sua personalità. Il nostro account deve allora tirare bene le somme della nostra identità. Prendiamo a esempio gli usatissimi Instagram e Facebook, probabilmente le piattaforme di socialità virtuale più utilizzate fra tutte[6]: malgrado abbiano due funzionalità distinte, nonché un bacino di utenza diverso[7], condividono il fatto di virtualizzare la propria persona; in entrambe infatti operiamo con una modalità digitalizzata della nostra identità. La metafora della finestra funziona ma a questo punto potrebbe suonare meglio quella della galleria: prendiamo il nostro telefono e ci apriamo all’esibizione di quelli che possiamo definire corpi performativi.

Potrebbe sembrare un controsenso, visto che internet scarnifica i corpi, si tratta invece di un fenomeno intricato che possiamo sciogliere così: il corpo sublimato con la digitalizzazione è recuperato nelle società virtuali. Aprendo qualsiasi social, facciamo i conti con un’esposizione di corpi fermi in foto o dinamici in video. Ripetiamo, corpi performativi: in posa per delle foto o in azione per dei video, in tutti i casi performano la propria identità. Diversamente da ciò che accadeva per lo sguardo d’altri, che raggelava l’identità in un atto, ora siamo noi stessi a coagularci in un post.

Naturalmente esponiamo il nostro corpo quando lo crediamo maggiormente apprezzabile, riducendolo a manichino della nostra persona: sentiamo lo sguardo addosso ma anziché ripudiarlo tentiamo di accaparrarcelo; quanti più “mi piace”, commenti e condivisioni otteniamo tanto più sentiamo realizzata la nostra soggettività. L’insolvibilità del soggetto, il suo nulla e quindi la sua libertà, cercano un’occasione di completezza nei post virtuali: io sono qui, sono proprio questo qui. Nonostante questo fenomeno sia stato diffusamente trattato sotto il cappello della psicologia o sociologia[8], crediamo si debba intervenire con gli attrezzi dell’ontologia: non è una soddisfazione solo emotiva o sociale quella che traiamo dallo sguardo o dall’apprezzamento altrui, ma una vera e propria (ri)codificazione della nostra soggettività.

La socialità virtuale ci congela e plastifica perché siamo istantaneamente accessibili: se prima ci catapultavamo nel mondo per realizzare la nostra identità, ora lo facciamo soppesandola alle interazioni digitali. Come se non bastasse, il profilo rimane guardabile pure disconnettendosi: non si deve postare qualcosa per essere visibili perché quello che si è pubblicato in precedenza sopravvive alla morsa del tempo. Questa pressione ha portato alcuni social a correre ai ripari, ad esempio WhatsApp coi messaggi a singola riproduzione[9]. È stata un’azione atta ad assicurare più privacy all’utenza ma, dietro le quinte, è possibile abbia tenuto conto dell’ansia della sopravvivenza di immagini, video e contenuti multimediali: ora ho mandato questo, l’altro potrà sempre vederlo e io sarò sempre visibile.

Oggi come oggi fluttuiamo tra il controllo ossessivo dei feedback del nostro profilo – l’ identità nel XXI secolo – e l’angoscia di rimanere osservabili: la connettività genera un’identità raggelata dallo sguardo costante della massa virtuale. L’essere umano del nuovo secolo è virtualizzato: non gioca più la propria individualità trascendendosi al mondo, direbbe Sartre, ma sulla visibilità digitale. I social network sono sicuramente un buon modo per mantenere i rapporti con quell’amico lontano, ma dall’altro lato costruiscono nuove logiche per l’affermazione della soggettività: logiche all’avanguardia, fiore all’occhiello di un’umanità che sta radicalmente modificando il suo modo di stare al mondo.

Siamo convinti che le suggestioni di Sartre sullo sguardo siano un punto di partenza prolifico per una indagine sull’individuo e le società virtuali: le categorie di vergogna e congelamento dell’identità sono un bisturi che incide tagli precisi nelle logiche socio-virtuali del nostro secolo. Ne va di una diagnosi coerente dell’umanità del nostro tempo, che oggi come mai mette in discussione le sue strutture fondamentali.


[1]    Il fatto stesso di vedere ed essere visto presuppone un individuo sensorialmente attivo. Non a caso tutti gli esempi usati da Sartre per parlare dello sguardo fanno capo all’esperienza visiva nonché, letteralmente, ai bulbi oculari. Cfr. J.-P. Sartre, L’essere e il nulla, cit., p. 310.

[2]    Questo è quanto Eco disse ai giornalisti che lo intervistarono per la sua laurea honoris causa in Comunicazione e Cultura dei media presso l’Università degli Studi di Torino nel Giugno 2015. Qui l’intervista integrale mandata in onda sul canale dello staff Comunicazione e Relazioni Esterni UniTo: https://www.youtube.com/watch?v=u10XGPuO3C4 (ultimo accesso: 30 Ottobre 2023).

[3]    Maggiori dati e approfondimenti qui: https://wearesocial.com/it/blog/2023/01/digital-2023-i-dati-globali/ (ultimo accesso: 2 Novembre 2023).

[4]    Sono vari i testi che hanno cercato di ricostruire la storia della virtualizzazione del mondo. Uno dei più interessanti, recenti e, a mio parere, innovativi, è M. M. Mapelli, Per una genealogia del virtuale. Dallo specchio a Facebook, Mimesis, Milano 2011.

[5]    Di seguito riportiamo alcuni degli studi più interessanti in merito: E. Castronova, Synthetic Worlds. The Business and Culture of Online Games, University of Chicago Press, 2005; tr. it. di I. Fulco, Universi sintetici. Come le comunità online stanno cambiando la società e l’economia, Mondadori, Milano 2007; F. Rachline, Que l’argent soit – capitalisme et alchimie de l’avenir, Calmann-Lévy, Parigi 1993; tr. it. di E. Nebiolo, Che il denaro sia! Capitalismo e denaro virtuale, ECIG, Genova 1997; D. Wolman, The End of Money. Counterfeiters, Preachers, Techies, Dreamers–and the Coming Cashless Society, Da Capo Press, Boston 2013; tr. it. di M. Cupellaro, The end of money. Indagine sul futuro del denaro: avvento e sopravvento di un mondo senza contanti, Laterza, Bari 2015; E. Croci, Iperidentità. Tra reale e virtuale: i gesti e il nuovo marketing della contemporaneità, Franco Angeli, Milano 2021. Abbiamo cercato di suggerire lavori variegati: la virtualizzazione del denaro, nonché una sua visione più metafisica e sicuro meno materialistica, incentiva indagini che non possono limitarsi alle teorie economiche “classiche”. Queste ricerche forniscono una chiave di lettura buona per serrature diverse ma complementari: le strutture classiche del mondo stanno incrinandosi a favore di nuovi assetti e concetti. Per questo pensiamo importante indagarne le diverse sintomatologie.

[6]    Ci sono importanti oscillazioni a seconda dei Paesi. Esistono delle mappature interessanti, aggiornate periodicamente, tra cui questa: https://vincos.it/2023/02/04/i-social-e-gli-instant-messenger-piu-usati-al-mondo-le-mappe-del-2023/ (ultimo accesso: 1 Novembre 2023). Queste statistiche delineano l’evoluzione delle logiche social: mano a mano emergono applicazioni con un’interazione gradatamente più semplice e istantanea. Pensiamo a TikTok, dove basta uno scorrimento per godere interamente delle sue funzionalità. Seguendo questi andamenti è possibile lavorare sui diversi modi di relazionarsi dell’essere umano all’epoca della socialità virtuale.

[7]    Cfr. http://de.imginternet.it/affermarsi/i-social-media-leader-nei-principali-mercati.kl#/ (ultimo accesso: 1 Novembre 2023).

[8]    La letteratura sul tema, come ben si può immaginare, è sconfinata. A seguire, alcuni dei più interessanti: G. B. Artieri et al., Fenomenologia dei social network. Presenza, relazioni e consumi mediali degli italiani online, Guerini Scientifica, Milano 2017; J. Franchi, Solitudini connesse. Sprofondare nei social media, Agenzia X, Milano 2019; G. Riva, B. K. Wiederhold, P. Cipresso, The Psychology of Social Networking Vol. 2. Identity and Relationships in Online Communities, De Gruyter, Berlino 2019; G.-I. Ivana, Social Ties in Online Networking, Springer, Berlino 2018.

[9]    Cfr. https://tech.hindustantimes.com/how-to/whatsapp-introduces-view-once-feature-to-users-here-s-how-to-use-it-71628216085917.html (ultimo accesso: 2 Novembre 2022).


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139