La grande illusione degli anni ’90: rileggendo le visioni politiche di fine millennio

Gli anni Novanta del Novecento hanno costituito una fase di notevole transizione: sono stati probabilmente l’ultimo momento di congiunzione e maggior vicinanza tra il mondo post-industriale tardo capitalista e quello ormai globalizzato turbo capitalista. Sono stati anni di cambiamenti proseguiti a ritmi vertiginosi, ma che, al di là delle contraddizioni e delle difficoltà che presentavano, sembravano comunque caratterizzati da una fiducia politica di fondo nel senso che la storia aveva preso, nella valutazione delle situazioni storiche ed economiche, nel ruolo stesso della globalizzazione e dell’Europa, nei rapporti tra gli Stati e nell’organizzazione delle istituzioni. Essi, quindi, a ben guardare, hanno racchiuso visioni politiche e sociali di notevole rilevanza, sia nel loro rapporto con il “secolo breve”, sia in quello con il secolo attuale, determinando una sorta di equilibrio di tendenze, in cui anche molte dimensioni culturali hanno raggiunto una certa solidità di struttura.

Bisogna, infatti, tenere presente che il muro di Berlino cade, in modo anche un po’ sconcertante, nel 1989, e con la sua caduta ha praticamente termine la guerra fredda, assieme alla divisione dei blocchi e a tutto l’universo simbolico che, fino ad allora, il Novecento aveva portato avanti. Nei primissimi anni Novanta si dissolvono la Russia e la Jugoslavia, gli USA divengono la potenza egemone, e si va compiendo chiaramente l’Unione Europea: non può stupire che la visione politica che si accompagna a tutto ciò sia quella veicolata da Francis Fukuyama (si veda naturalmente Fukuyama, F., La fine della storia e l’ultimo uomo, Rizzoli, Milano, 1992), che in questo contesto, secondo una prospettiva influenzata dal pensiero hegeliano e in particolare dalle sue pagine sulla “lotta per il riconoscimento”, coglie un sostanziale di punto di approdo finale della storia umana, per cui trionfano gli ideali della democrazia e del liberalismo (che appunto trasformano il desiderio di riconoscimento in una forma più razionale), sullo sfondo della globalizzazione.


Lo stesso Karl Popper, nel suo ultimo libro prima della sua scomparsa pubblicato nel 1994, proponendo la sua riflessione sulla storia e sulla politica, non ha remore – lungi dal cinismo e dal materialismo storico, come pure dalla lettura di Fukuyama – ad affermare ottimisticamente che nel mondo in cui vi viviamo «ci va meglio non solo economicamente, ma siamo migliori anche moralmente» (Popper, K. R., Tutta la vita è risolvere problemi, in Id., Tutta la vita è risolvere problemi. Scritti sulla conoscenza, la storia e la politica, CDE, Milano, 1998, p. 234) e che «in Occidente, attualmente viviamo nel migliore mondo sociale che sia mai esistito» (Id., Contro il cinismo nell’interpretazione della storia, in Id., cit., 250). E anche lo storico marxista Eric Hobsbawm, in un volumetto uscito proprio alla fine degli anni Novanta, ammette che l’ultimo decennio del Novecento, in cui si è giunti a un generale miglioramento di molte condizioni socio-culturali, prefigurava l’aspettativa di una situazione del XXI secolo in cui il grado di felicità degli essere umani poteva crescere grazie alla progressiva emancipazione dell’umanità dal dominio dell’indigenza (si veda Hobsbawm, E. J., L’homo globalizatus, in Id., Intervista sul nuovo secolo, a cura di Polito, A., Laterza, Roma-Bari, 1999, specialmente p. 107).
Non è più davvero il tempo delle ideologie e va sistematizzandosi sempre più la posizione dell’informatica con le prime sommarie forme di diffusione di internet, mentre le dinamiche di privatizzazione e deregolamentazione prendono sempre più piede. L’unico modello di vita divenuto plausibile è quello occidentale, o meglio americano (si veda l’utile lettura critica di Calvo-Platero, M. Calamandrei, M., Il modello americano, Egemonia e consenso nell’era della globalizzazione, Garzanti, Milano, 1996).

L’ultimo scorcio del secolo, orientato a una ristrutturazione spazio-temporale che segna la tendenziale depoliticizzazione delle relazioni sociali a favore di un approccio tecnocratico, aprendo un orizzonte “tecno-nichilista” (per una lettura critica in tal senso si rimanda a Magatti, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009), è dunque già sostanzialmente globalizzato e imperniato sulla prospettiva del liberalismo, tuttavia, e questo è il punto interessante da notare, questa condizione, probabilmente perché proprio in uno stadio ancora tutto sommato iniziale, in cui gli echi delle evoluzioni e delle tradizioni novecentesche erano vividi, si configurava in una modalità per così dire più misurata, meno ossessiva, rispetto a quanto poi si determinerà nei primi due decenni del XXI secolo e ancor più nell’ultimo quindicennio. Sia chiaro, gli anni Novanta comportano già una società dello spettacolo, dei consumi, dell’apparenza, dell’individualismo, e determinano già una società de-ideologizzata in cui i limiti nazionali sono già diventati porosi, ma i vari contesti culturali, politici, comunicativi, sociali riescono ancora a conservare alcuni elementi tipici dello Zeitgeist del secolo breve.


Dal punto di vista politico l’Occidente e gli USA restano dominanti e inattaccabili, solo dall’11 settembre 2001 (con l’attentato culminato nel crollo delle Twin Towers di New York) la situazione cambierà e il terrorismo internazionale più volte in seguito mostrerà marcatamente i suoi effetti devastanti; inoltre, la generale disaffezione per la politica presente nell’Occidente dell’ultimo scorcio del Novecento non ha ancora portato le derive massicciamente populiste cui oggi siamo abituati. Molto banalmente, anche diversi processi culturali e comunicativi, pur sempre più influenzati dalle logiche di profitto e mediatiche, conservano alcuni standard tradizionali: basti pensare a sport come il calcio e la Formula 1, tradizionalmente seguiti dalle masse, che non hanno ancora conosciuto tutti gli stravolgimenti del XXI secolo, nella loro impostazione e nella loro fruizione, che li avrebbero condotti del tutto nell’alveo del business dello spettacolo e dello sfruttamento pubblicitario; oppure si può pensare alla situazione delle serie televisive: in questo periodo ci sono già titoli che appassionano i fan (tanti ricorderanno i casi di Friends o X-files, per fare esempi divenuti iconici) in modo molto più coinvolto di quanto succedeva con i telefilm di dieci o vent’anni prima, ma di certo non si è ancora nella condizione di maree di titoli proposti continuamente come avviene oggi attraverso Amazon o Netflix. Lo stesso individualismo generalizzato, che caratterizzava le società avanzate di quell’epoca, non era sollecitato dalle dinamiche di internet e dei social media (invasi dalle figure degli influencer) che avrebbero preso piede dopo i primi anni del XXI secolo.


Stanti queste condizioni generali, qui solo marginalmente toccate, si comprende forse meglio l’illusione delle visione politica degli anni Novanta: certamente la fine delle dittature dell’est Europa, la libera circolazione che ne derivò, l’idea dell’accesso illimitato a beni, servizi e persone, intrecciato alla dimensione informatica che le tecnologie permettevano, il volto quasi salvifico che molti scorgevano nella globalizzazione, portavano a una valutazione del canone del liberalismo divenuto trionfatore di cui non si coglievano ambiguità e possibili coni d’ombra. Del resto le dialettiche liberalismo-socialismo, mercato-pianificazione, parevano chiaramente risolte, perché la storia stessa aveva dato molti responsi pratici in merito, in modo peraltro assai macroscopico e la filosofia politica più accademica sviluppava in quel momento le sue categorie attraverso il ricorso alle teorie di John Rawls (si vedano soprattutto Rawls, J., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2008 e Id., Liberalismo Politico, Comunità, Milano, 1993) o Friedrich Hayek (si veda soprattutto Hayek, F., Legge, legislazione libertà, Il saggiatore, Milano, 2000), o al limite di uno Jürgen Habermas (si veda Habermas, J., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano, 1996), che dopo la svolta linguistica giunge a un approccio normativo, che molti critici vedono distante dalle istanze della Scuola di Francoforte in cui egli si era formato.

E allora quale sguardo volgere agli anni Novanta? Quale deve essere la valutazione più corretta del loro immaginario politico-sociale, agli occhi degli abitanti della società del XXI secolo che oggi viviamo? Nell’approcciare simili questioni senza cadere in retoriche o polemiche infruttuose, è importante comprendere che si deve certamente tenere presente l’abbaglio della fine della storia e non scivolare nelle ingenue nostalgie del passato, ma si deve anche avere l’accortezza di notare, che forse, per loro particolare congiuntura storica, gli anni Novanta sperimentarono la forma meno corrosiva del liberalismo globalizzato, un liberalismo che, in quell’epoca, sebbene progressivamente influente e senza più avversari, non era ancora debordato come nella fase attuale (appunto ormai definita proprio “neoliberale”), perché agli uomini appariva come una teoria vincente, molto più che come il dogma che sotto molti aspetti oggi invade, a volte anche sfacciatamente, ogni forma di esistenza e sancisce, per dirla con uno dei maggiori intellettuali critici attuali, Slavoj Žižek, una condizione, culturalmente e politicamente, “post umana”(si veda in merito Žižek, S., Come un ladro in pieno giorno. Il potere all’epoca della postumanità, Ponte alle Grazie, Milano, 2019).



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