In occasione del cinquantunesimo anniversario della nascita di Vincenzo Consolo, un’immersione nella bibliografia dell’autore siciliano. Su Scenari, un estratto di «Da paesi di mala sorte e mala storia» Esilio, erranza e potere nel Mediterraneo di Vincenzo Consolo (e di Sciascia) di Giuseppe Traina.
Alla svolta del nuovo secolo la bibliografia secondaria sull’opera di Vincenzo Consolo si è particolarmente infittita. Volumi monografici, atti di convegno, fascicoli monografici di riviste, singoli articoli hanno contribuito all’analisi critica e alle esplorazioni filologiche, sempre più frequenti, dei testi consoliani. In mezzo a questa svariata produzione, di qualità mediamente molto alta, sta – come una boa di fondamentale importanza – il “Meridiano” L’opera completa (2015), curato da Gianni Turchetta con passione non inferiore alla competenza: un libro che ha reso disponibile, nei suoi apparati, una quantità mai prima raggiunta di informazioni biografiche, bibliografiche e filologiche, oltre a una lettura particolarmente persuasiva delle caratteristiche fondamentali dell’opera di Consolo e della sua centralità nella letteratura italiana del secondo Dopoguerra, affidata all’introduzione critica al volume. Questo panorama, decisamente incoraggiante, è arricchito dalla quantità e qualità di testimonianze amicali, tra le quali vanno ricordate almeno quelle di Sebastiano Burgaretta e di Corrado Stajano, e di adattamenti e riletture, in varie forme artistiche, delle sue opere – impossibile dimenticare, per la straordinaria suggestione poetica, la Lunaria (2014) in musica di Etta Scollo.
Detto questo, e avendo l’autore di questo libro già prodotto su Consolo una monografia risalente a una ventina d’anni fa e altri interventi successivi, sarebbe opportuno chiedersi se un libro come questo sia davvero utile, se aggiunga qualcosa al panorama appena tratteggiato. La risposta, al di là dell’inevitabile narcisismo autoriale, potrebbe essere “sì” soltanto nella misura in cui il taglio che ho voluto dare a questo nuovo libro riesca a essere coerente con un assunto: che le opere di Consolo comprese tra gli anni Novanta e la morte (2012) siano dotate di una peculiare capacità di parlare al lettore di oggi con intatta veridicità e particolare efficacia per il presente.
Ciò non vuol dire che le sue prime opere abbiano perduto valore: tutt’altro! La ferita dell’aprile (1963),romanzo d’esordio, rimane, a mio (e non solo mio) avviso,un’opera ancora da riscoprire e da sottrarre al coté tardo-neorealista nel quale è stata impropriamente arruolata; Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) è un capolavoro indiscusso che seppe rimettere in discussione e positivamente decostruire la tradizione del romanzo storico italiano; Lunaria (1985) è un’opera che, al di là delle apparenze rococò, rivela una notevole forza espressiva, da rileggere nell’àmbito di un’altra peculiare mitografia, per l’appunto di argomento lunare, alla quale ha apportato un contributo non sottovalutabile; Retablo (1987) è un altro capolavoro (forse non troppo amato dal suo autore e forse per questo un po’ trascurato da taluni studiosi) che andrebbe letto, oltre che per il suo specifico valore di testo perfettamente in bilico tra espressività linguistica e iconografica, inserendolo ai piani alti della breve stagione postmoderna della letteratura italiana (ipotesi storiografica per alcuni studiosi risibile ma per me molto seria, eppure da verificare con rigorosi supplementi d’indagine); Le pietre di Pantalica (1988) è una tappa importantissima, che rivela ormai la sua natura ancipite di raccolta di racconti ma anche di rielaborazione di un romanzo mancato, e che, forse proprio per questo, traghetta l’autore verso una stagione nuova che si apre, se la mia ipotesi è corretta, con gli anni Novanta.
Rimandando alle pagine successive per la parte analitica del mio ragionamento, si può qui alla svelta ricordare che, dagli anni Novanta in poi, testi come L’olivo e l’olivastro,del 1994(ma con anticipazioni significative presenti in Retablo e Le pietre di Pantalica), Nottetempo, casa per casa (1992), Lo Spasimo di Palermo (1998) e la costellazione di raccontini, articoli, brevi saggi e testi memoriali che sono stati, in parte, raccolti in Di qua dal faro (1999), La mia isola è Las Vegas (2012) e Cosa loro (2018), hanno consentito a Consolo di porsi in posizione di tempestiva e “militante” presenza, quando non di acutissima anticipazione, rispetto a fenomeni sociali di indiscutibile centralità, non soltanto nella vita pubblica italiana ma anche in quella internazionale (Consolo ha dimostrato un’attenzione agli scenari politici e culturali internazionali che, dopo la morte di Sciascia e Calvino, trova soltanto in Claudio Magris un possibile termine di paragone nella letteratura italiana di fine secolo): l’opzione netta per uno “sviluppo senza progresso” e le conseguenze visibili soprattutto in campo economico e ambientale, non disgiunte, talvolta, dal ritorno, o rigurgito, di facili soluzioni politiche affidate all’“uomo forte” di turno; l’oblio sistematico della memoria storica e della sensibilità linguistica che l’appiattimento sul presente della comunicazione telematica e la diffusione di basici e asettici linguaggi transnazionali hanno irrimediabilmente innescato; il picco di violenza raggiunto dal potere di Cosa Nostra e poi la sua non meno pericolosa sommersione, che implica il non mollare mai la presa rispetto ai gangli del potere politico ed economico; l’aumento esponenziale delle migrazioni in àmbito mediterraneo e la tragica diversità delle risposte che i governi hanno dato al dilagare del fenomeno.
Se la trattazione di tali temi fosse stata affrontata da Consolo con piglio meramente testimoniale, staremmo parlando di risultati non troppo diversi da quelli raggiunti da scrittori-giornalisti importanti come Alessandro Leogrande e Roberto Saviano; ma importa non dimenticare che mai, o quasi mai, il Consolo di questo ventennio estremo ha dismesso la sua inconfondibile vocazione a una scrittura che non soltanto si distaccasse sistematicamente dalla lingua d’uso ma che, per la sua natura “palinsestica”, si collocasse anche in una posizione critica e autocritica di continua rimessa in discussione dei fondamenti (stili, generi letterari, collocazione dell’intellettuale) che la tradizione letteraria italiana ha codificato.
In questo atteggiamento sta la fedeltà di Consolo a sé stesso, alle sue opere degli anni Sessanta-Ottanta e alla sua caparbia collocazione intellettuale “di opposizione”; ma è anche vero che, rispetto a quelle prime opere, in alcuni testi del suo ventennio estremo Consolo è riuscito, con difficoltà e con sofferenza, a dischiudere, sempre in letteratissima forma, talune significative feritoie su uno strato “rimosso” della sua storia personale e familiare. Se ne hanno cospicue testimonianze, che vanno interpretate con misura e sensibilità, soprattutto nei due romanzi Nottetempo, casa per casa e Lo Spasimo di Palermo. Ho provato a parlarne, sia pure non per primo ma – spero – con qualche non superflua aggiunta, e, così facendo, ho volutamente quasi trascurato, soprattutto nel saggio su Lo Spasimo di Palermo, altre importanti implicazioni (politiche, letterarie e di poetica) già molto esplorate dalla critica e che qui do, dunque, per acquisite.
Trattando, invece, delle componenti riconducibili al “rimosso” ho cercato di metterle in relazione con le peculiarità che si nascondono dietro stratificazioni mitografiche che hanno avuto principalmente a che fare con una problematica rielaborazione del mito ulissiaco: e va detto che anche nella riscoperta del poema omerico (ma anche della tradizione tragica greca) Consolo si è collocato in significativa sintonia con altri importanti esponenti della letteratura mondiale a cavallo dei due secoli.
Infine, poiché in tale ventennio di scritture consoliane il tema mediterraneo (di cui tratto nel primo e nel quinto saggio del libro) riveste una centralità assoluta, non è sembrato superfluo aggiungere, in appendice, un testo dedicato al tema del Mediterraneo nell’opera di Leonardo Sciascia, lo scrittore che Consolo ha riconosciuto, insieme a Lucio Piccolo, come il più importante tra i suoi “maestri”: un tema che in Sciascia non ha rivestito importanza centrale ma che, tuttavia, una sollecitazione dell’amico Luigi Cepparrone mi ha indotto a studiare (per parlarne in un convegno di cui non sono ancora stati pubblicati gli atti), raggiungendo qualche conclusione forse non priva di interesse e meritevole, mi sembra, di rientrare in questo volumetto, fosse pure per contrasto – ma anche con significative analogie.
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Un’ultima considerazione: sebbene il terzo saggio del libro sia dedicato specificamente a Lo Spasimo di Palermo, temi e motivi di questo romanzo ricorrono anche negli altri saggi. Ciò dipende, certamente, dalle tante ragioni di carattere letterario che fanno di questo libro una tappa fondamentale (e quasi definitiva) nell’itinerario di Consolo e anche della letteratura italiana di fine secolo. Ma tale frequenza di riferimenti dipende anche da ragioni di carattere personale, valide per me e per non pochi siciliani della mia generazione, cresciuti nutrendosi, via via che apparivano, dei libri, degli articoli e delle interviste di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo: ciascuno a suo modo, e in modi e tempi diversi (dovuti alle rispettive parabole esistenziali e alle umanissime scelte e contraddizioni proprie dell’essere umano), questi tre scrittori hanno accompagnato le disillusioni e le illusioni (in alterna vicenda) di una generazione di siciliani onesti (e perciò facili alle illusioni) che aveva fra i trenta e i quarant’anni alla fine del secolo e che si era nutrita, anche a distanza, dei riverberi di una stagione culturale e politica forse contraddittoria ma piena di fondate speranze nella possibilità di combattere con successo la mafia e i suoi inestricabili rapporti col potere politico ed economico. Soprattutto tra Palermo e Catania (ma con non trascurabili ricadute anche in qualche altra provincia siciliana), e quasi per un decennio, sembrò che la magistratura, le forze politiche (o alcune di esse), le forze dell’ordine, la chiesa cattolica, quella che si chiamava la “società civile”, i giornali e certe associazioni culturali di più o meno ampio respiro avessero finalmente stretto alleanze virtuose, mai prima concretamente sperimentate, conducendo una battaglia innanzitutto in campo culturale e sociale, ma anche politico, foriera di concreti successi.
Lo Spasimo di Palermo, con il suo timbro inequivocabilmente apocalittico, siglò nel 1998 il definitivo cadere di queste illusioni e, per questa generazione, anche la fine della giovinezza. Due ottimi motivi per essere mestamente affezionati a questo magnifico romanzo.