Ombre del capitale dal crepuscolo del Novecento: rileggendo Paolo Volponi

Quando nel 1989, in modo forse per certi versi surreale, cade il Muro di Berlino e collassa tutto l’universo simbolico che fino ad allora aveva segnato il Novecento, esce anche (pochi mesi prima di quell’evento chiave) un romanzo dello scrittore Paolo Volponi, Le mosche del capitale (facciamo qui riferimento all’edizione Einaudi, Torino, 1991). Oggi, alla luce di tutto quello che la storia mostrò nei decenni seguenti, il romanzo appare forse come lo specchio chiaro in cui si riflette tutto lo Zeitgeist che caratterizzava il mondo occidentale e in particolare l’Italia che giungeva a quel momento così epocale. A oltre trent’anni dalla pubblicazione del  libro, ora che nel 2024 ricorre il centenario della nascita dello scrittore, pare ben più di una ricorrenza di occasione soffermarsi su una riflessione in merito che suscita suggestioni non marginali. Infatti, a ben guardare, in generale l’opera di Volponi contiene indubbiamente una cifra consistente nel cogliere la condizione politica, sociale ed esistenziale che caratterizza il contesto dell’ultimo scorcio del Novecento e che si spinge fino ai giorni nostri; un contesto post umanista, determinato dal mondo del capitale nella sua fase ormai neoliberale che instaura il suo predominio su tutta la cultura (sul capitalismo del modello neoliberale è sempre utile rimandare a Magatti, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009, nonché a Žizek, S., Vivere alla fine dei tempi, Ponte alle Grazie, Milano, 2011). Come è stato assai recentemente colto, inquadrando il canone di Volponi in un più ampio scenario tra cultura e politica e toccando la riflessione filosofica e la critica sociologica, si nota come esso sembra racchiudere in modo molto emblematico un certo senso del “romanzo occidentale”, tra bios e tecnica, sapere e potere, nel mondo del capitale: i mutamenti culturali e sociali, congiunti a quelli  che ineriscono al lavoro critico dell’intellettuale e del suo ruolo civile e pedagogico, pongono in luce gli effetti sociali perversi di omologazione e sradicamento in atto nell’orizzonte di crisi della razionalità capitalistica, per cui, in Italia, Volponi, collocandosi accanto a scrittori come Calvino e Pasolini, avverte gli effetti collaterali di questa metamorfosi antropologica (si veda la sfaccettata e proficua lettura in merito proposta da  De Simone, A., Romanzo occidentale. Volponi e noi. Stenogrammi di filosofia, letteratura e politica, Mimesis, Milano, 2024, specialmente pp. 47-48). E proprio quel romanzo volponiano, denso e allegorico, visionario e discontinuo, Le mosche del capitale, in cui si rappresenta la vicenda dell’umanista Bruto Sarracini, dirigente industriale con serie competenze, che non riesce a trovare soddisfazione alla sua aspirazione a eliminare l’alienazione del lavoro con le armi del progresso industriale, è l’istantanea delle frustrazioni e delle illusioni dell’Italia degli anni Settanta, incapace di delineare una strategia intellettuale e civile e ormai avviata, nel declino dell’ideale marxista, all’indiscusso potere del capitale.  Le “mosche del capitale” che danno il titolo al libro sono, a ben guardare, come si afferma esplicitamente all’interno del romanzo stesso, tutti i nemici della prospettiva di Sarracini, ossia “tutti gli amministratori e i manager industriali di successo, fatti di voli e voletti, di ali e alette… azzurre come cravatte… tutti a modo, con gesti e accenti, aggiornamenti e riverenze, relazioni e riferimenti, le sapienti colorate voraci mosche del capitale, sì le mosche… per di più svolazzano e ronzano dappertutto, in bell’inglese, per andare a succhiare e sporcare” (Volponi, P., Le mosche del capitale, cit., p.133). In effetti, in questa immagine è in gioco tutto un panorama, italiano e più ampiamente della civiltà occidentale, di cui fanno parte le dimensioni del modernismo, del lavoro, della democrazia e della cultura industriale, delle morfologie del potere, di un certo fatale disincanto del mondo: si può quindi correttamente rilevare che Volponi difenda una posizione umanista ma “anti-antropocentrista”, sotto certi aspetti con qualche analogia con la dimensione di diagnosta dell’etica pubblica di Leopardi  (si vedano Guidi, E. M., Volponi oltre il 900, Freccia d’oro, Cento, 2023 e De Simone, A., Romanzo occidentale, cit.). E, all’interno di questa posizione, il giudizio di Volponi sul capitale è molto drastico e senza appello: la realtà attuale è quella degli inganni, delle simulazioni, degli imbonimenti, con cui il capitalismo rovina il mondo e ciò non viene nemmeno più messo in discussione, poiché si è scivolati nell’individualismo e nell’egoismo (si veda Raboni, G, Il peccato capitale, in Volponi, P., Le mosche del capitale, cit., soprattutto pp. 284-285). Siamo in una fase in cui i moniti della sociologia critica francofortese (si pensi naturalmente alle classiche analisi di Horkheimer, M., Adorno, T. W., Dialettica dell’Illuminismo, Einaudi, Torino, 1997 e Marcuse, H., L’uomo a una dimensione, Einaudi, Torino, 1999, che ai profondi cambiamenti nello spirito pubblico e nella natura umana della piena modernità vedono accompagnarsi un pericoloso processo di disumanizzazione) sono passati in secondo piano, in una fase segnata  da una “cultura del narcisismo” (si veda Lasch, C., La cultura del narcisismo, Bompiani, Milano, 2001), ed è subentrata una totale acquiescenza rispetto alla nuova logica di un potere che determina un mondo non più di persone, ma di personaggi fuori dall’umanità, se non di semplici cifre, entità, immagini. In tal senso, è molto indicativo nel romanzo il fatto che Volponi faccia prendere parte alla narrazione, anche vari oggetti e animali, che non usano un linguaggio proprio e neppure umano, ma appunto quello del capitale, poiché sembra che nulla ormai possa mettersi contro il sistema istituito (si veda Guidi, E. M., Volponi oltre il 900, cit., specialmente pp. 68-72): e ciò peraltro sembra sottendere un modo di irridere l’eloquio di tipo aziendale o manageriale, all’interno di una idea di intendere la letteratura che evade da schemi prefissati sia nei temi che nelle strutture.

 Scrittore “estremo”, “che ha la consapevolezza di un vivere in un momento cruciale dell’umano evento” (De Simone, A., Romanzo occidentale, cit., p. 164), in Italia caratterizzato dalle stagioni degli “anni di piombo” e della crisi energetica, del disimpegno e dell’incalzare dell’individualismo narcisista, Volponi ha proposto contenuti che determinano la comprensione attenta di un milieu del crepuscolo del Novecento, che si è delineato in modo sempre più inquietante nel XXI secolo, tra dominio, guerra e distruzione, sullo sfondo di un sonnambulismo generale della nostra vita quotidiana, in un regime temporale di eterno “presentismo”, che trascura colpevolmente la memoria e la storia, soggiogandosi volentieri all’utilità, al profitto e all’apparenza e facendo assurgere a protagonisti tutti coloro che, in cerca di effimera visibilità, si rendono patetici operatori di una “società dello spettacolo” (restano sempre indicative su questo punto, indubbiamente complementare alla critica del capitale a partire dal tardo Novecento, le considerazioni di Debord, G., La società dello spettacolo, Baldini e Castoldi, Milano, 2013).

  L’umanismo anti-antropocentrico e amaramente disilluso di Volponi fornisce dunque una chiave ermeneutica potente e diretta che apre le porte a serie prospettive di analisi della nostra epoca e dei suoi processi politici, sociali, etici, istituzionali e che, per coloro che non sono fagocitati nelle vuote dimensioni del successo fine a se stesso, dell’autoaffermazione e dell’idolatria del mercato, costituisce un luminoso punto di riferimento. Resta ovviamente inteso che in quest’ottica critica, che non tutti riconoscono o vogliono riconoscere, si combatte tuttora e sempre più una battaglia decisiva in cui si determina se la cultura non si riduce a intrattenimento, se la politica non si riduce a dominio, se il successo non si riduce a ridicola autoesaltazione. E se in definitiva la vicenda umana può andare al di là di superficialità e ipocrisie così diffuse in questo primo scorcio del XXI secolo: non si tratta di una questione meramente intellettuale o letteraria, ma sostanzialmente di senso sociale nella declinazione più attuale dello smarrimento dell’uomo moderno, che fatalmente richiama gli aspetti della coscienza, dell’immaginario, delle istituzioni e del loro complesso intreccio, caro alla nobile tradizione della sociologia della conoscenza (si veda Berger P.L., Luckmann T., Lo smarrimento dell’uomo moderno, Il Mulino, Bologna, 2010).


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