Capitalismo o neofeudalesimo? Un’introduzione

Come pensare insieme la crisi della riproduzione sociale, l’intensificarsi delle disuguaglianze economiche e la riduzione dell’orizzonte politico? In Capitalismo o neofeudalesimo? Jodi Dean delinea le coordinate per reinterpretare i mutamenti globali del modo di produzione capitalistico e proporre una nuova ipotesi finalizzata a comprendere la fase attuale dello sviluppo del capitalismo stesso. Su Scenari proponiamo un estratto del libro.

1. Panoramica 

Che cosa definisce il capitalismo contemporaneo? Come lo descriviamo? Quali sono i suoi tratti salienti? È addirittura corretto descrivere il nostro presente come capitalista? La mia ipotesi è che il capitalismo stia diventando qualcosa d’altro, qualcosa che possiamo proficuamente descrivere come neofeudale. Le dinamiche proprie del capitalismo si stanno avviluppando su se stesse in una sorta di sussunzione assoluta, con nuovi signori e nuovi servi, con una micro-élite di miliardari delle piattaforme e un massiccio settore di servizi, ovvero di servitori. Nel chiederci se l’ipotesi neofeudale abbia senso, se il capitalismo stia veramente diventando qualcosa di diverso, dobbiamo tenere a mente che il capitalismo si è sempre sovrapposto ad altri modi di produzione, su cui ha fatto leva e che ha sfruttato a suo vantaggio. Il capitalismo li deteriora, smantellando le condizioni a cui essi si erano adattati e assoggettandoli a leggi a loro estranee. 

Da alcuni anni ormai sono alle prese con la questio ne posta da McKenzie Wark: “e se non fossimo più nel capitalismo, ma in qualcosa di peggiore?” [1]. Sulle prime pensavo che tale questione fosse assurda: certo che siamo nel capitalismo, in un capitalismo veramente orribile, estremo e neoliberale; in un capitalismo che ha abbandonato il compromesso ad esso imposto dai movimenti operai nel XX secolo e procede a briglia sciolta nella sua corsa al profitto. Ma più esaminavo la questione, meno l’idea di un capitalismo eterno e sempre in grado di adattarsi diventava convincente. Harry Harootunian, ad esempio, critica l’immagine di un “capitalismo compiuto in occidente”. Tale immagine impedisce di vedere non soltanto lo sviluppo diseguale del capitalismo, ma anche il suo stesso regresso in aree del mondo che definiamo – maldestramente – “Sud del mondo”; ci impedisce di vedere la dipendenza del capitalismo da processi di lavoro, forme di sfruttamento e pratiche di oppressione non capitalistici, e distoglie la nostra attenzione dal modo in cui i processi capitalistici, a lungo diretti verso l’esterno – attraverso il colonialismo e l’imperialismo –, si stanno ripiegando su di sé in modi che non sono più capitalistici. 

Oggi l’accumulazione non si realizza tanto attraverso la produzione di merci quanto attraverso l’affitto e la predazione: prendendo e non producendo, come sostiene Brett Christophers [2]. Il Mr. Moneybags di Marx appare meno come una rappresentazione del capitalista e più come quella di un proprietario terriero o un finanziere, come quella di qualcuno che ottiene una sua quota. E che dire del fatto che nel XXI secolo la gran parte dei posti di lavoro si trova nel settore dei servizi, nel servaggio a larga scala in tutto il mondo? Nei paesi ad alto reddito, il 70-80% dell’occupazione è nei servizi, e anche la maggior parte dei lavoratori in Iran, in Nigeria, in Turchia, nelle Filippine, in Messico, in Brasile e in Sud Africa è impiegata in questo settore [3]. La mia scommessa è che pensare in termini di neofeudalizzazione come tendenza interna del capitalismo possa aiutarci a comprendere il presente. 

Anziché alla fabbrica sociale teorizzata da Mario Tronti, l’aumento della flessibilità dei processi capitalistici ha condotto al “maniero sociale”. La società non è più orientata verso la produzione di lavoratori e merci (anche se questi continuano ad esistere); è un ordine fatto di servizi personalizzati, privilegio, gerarchia e lealtà. Sempre più persone, costrette a vendere la propria forza-lavoro per sopravvivere, vendono questo lavoro nella forma di servizi destinati a chi è in cerca di consegne, di autisti, addetti alle pulizie, trainer, assistenti sanitari a domicilio, babysitter, di guardie, coach e così via. La compravendita di servizi è resa possibile da nuovi intermediari, piattaforme tecnologiche i cui proprietari si inseriscono tra chi offre servizi e chi li ricerca, assicurandosi di riscuotere un compenso insieme ai dati e ai metadati che accompagnano la transazione. Le nostre interazioni basilari non ci appartengono. Con i progressi nella produzione che sembrano giunti ad un vicolo cieco, il capitale è oggi tesaurizzato e brandito come un’arma di distruzione: i suoi detentori sono i nuovi signori, il resto di noi dipendenti, invece, è composto da servi e schiavi proletarizzati. 

In quel che segue, tratteggerò le caratteristiche basilari del neofeudalesimo e avanzerò un argomento a sostegno dell’utilità politica dell’ipotesi neofeudale. La mia scommessa è che il neofeudalesimo ci restituisca un’immagine del presente che ci consente di comprendere la disuguaglianza, la finanza, la frammentazione, il lavoro flessibile e quello delle piattaforme e dei servizi, oltre che le crisi di riproduzione sociale proprie della contemporaneità, consentendoci di vederli come elementi di una singola tendenza a cui si può dare un nome: neofeudale. La concentrazione monopolistica del capitalismo comunicativo, l’intensificarsi delle disuguaglianze e l’assoggettamento dello stato al mercato stanno dando luogo a un neofeudalesimo in cui l’accumulazione si realizza tanto attraverso l’affitto, il debito e il potere politico quanto attraverso la produzione di beni. A livello globale, per esempio nelle industrie della conoscenza e della tecnologia, i proventi derivanti dai diritti sulla proprietà intellettuale eccedono quelli derivanti dalla produzione di merci. Negli Stati Uniti, i servizi finanziari contribuiscono al PIL più dei prodotti dell’industria manifatturiera. Il capitale è sempre meno reinvestito nella produzione; è accumulato, consumato o redistribuito in forma di rendita. Il valore si auto-valorizza sempre meno. I processi di valorizzazione si sono espansi ben oltre la fabbrica, in cicli complessi, speculativi e instabili, sempre più dipendenti dalla sorveglianza, dalla coercizione e dalla violenza. 

Jodi Dean, Capitalismo o neofeudalesimo?, Mimesis Edizioni, 2024, 96 pp., 10€

Nel definire le tendenze del nostro presente come neofeudali, intendo segnalare anche un mutamento nei rapporti di lavoro. L’ideale del lavoro liberamente contrattato, che giustifica e mistifica rapporti di classe, è oggi insostenibile. Per dare conto degli odierni rapporti sociali di accumulazione del capitale non si può fare appello nemmeno a una vaga parvenza di consenso liberamente accordato. La maggior parte delle persone non ha altra scelta che lavorare. Molti non hanno un lavoro da scegliere. Alcuni di noi si accorgono che i nostri telefoni, le nostre biciclette, macchine e case hanno perduto il loro carattere di proprietà personale e si sono trasformati in mezzi di produzione o di estrazione di un canone di rendita. Connessi a piattaforme di proprietà altrui, i beni di consumo e i mezzi di sussistenza sono ora mezzi per l’accumulazione da parte dei proprietari delle piattaforme. Alcuni si crogiolano nell’illusione che il nostro “servizio” [4] sia creativo, che siamo membri di una classe privilegiata di lavoratori della conoscenza. Eppure, gran parte di quel lavoro è sempre più realizzato gratuitamente, o, al limite, con la mera possibilità di una retribuzione. Spesso i lavoratori della conoscenza, come i lavoratori a giornata, competono per i contratti: se vinciamo, allora possiamo lavorare in cambio di un salario. La maggior parte di noi costituisce una sottoclasse senza proprietà, in grado di sopravvivere soltanto provvedendo ai bisogni di chi ha alti guadagni (per esempio, come loro assistenti personali, trainer, tutor, tate, cuochi, addetti alle pulizie, ecc.). Nei prossimi dieci anni, il lavoro che negli Stati Uniti produrrà più occupazione sarà l’assistenza alla cura della persona; non lavoratori della sanità ma assistenti che fanno il bagno alle persone e si occupano della loro pulizia. Un’altra epoca li avrebbe chiamati servi [5]. I lavoratori salariati sono ulteriormente espropriati dei loro guadagni minimi attraverso debiti ineludibili, tasse, sanzioni e canoni di affitto. Negli Stati Uniti, i proventi delle tasse sulle persone fisiche vengono redistribuiti alle corporation. Nel 2018, ad esempio, 57 aziende – tra cui Amazon – non solo non hanno pagato tasse, ma hanno ricevuto denaro sotto forma di sgravi fiscali. Il governo statunitense spreme denaro dai suoi cittadini per pagare le corporation. 

2. Dare un nome al presente 

Negli ultimi decenni diversi termini sono stati proposti per designare l’attuale sistema politicoeconomico: 

a. il più in voga, probabilmente, è neoliberismo (con i suoi corollari: post-welfare state, post-keynesismo, post-fordismo, globalizzazione); 

b. capitalismo dell’austerità o del precariato; 

c. per coloro che si concentrano sulle reti e sull’informazione c’è il capitalismo delle piattaforme, cognitivo, comunicativo e digitale; qui si può annoverare anche il capitalismo della sorveglianza e algoritmico; 

d. Brett Christophers ha teorizzato il capitalismo rentier, in cui le strategie di accumulazione riguardano l’avere, piuttosto che il fare; 

e. chi si concentra sulle prigioni e sulle forze di polizia ha talvolta pensato il presente in termini di capitalismo carcerario, magari evidenziando il complesso carcerario-industriale; 

f. infine, come parte dell’esame critico delle responsabilità del capitalismo per quanto riguarda il cambiamento climatico, si hanno designazioni quali capitalismo fossile, capitalismo del carbone e capitalocene. 

Questi diversi termini per designare l’attuale società economica si accompagnano a definizioni precedenti, quali imperialismo, capitalismo monopolistico e capitalismo finanziario, così come a termini, quali capitalismo razziale e patriarcale, che tentano di raffigurare i modi in cui lo sfruttamento economico dipende da forme di oppressione sessualizzata e razzializzata. E dobbiamo tenere a mente che questi diversi approcci al capitalismo si accompagnano ad affermazioni secondo cui il capitalismo sarebbe stato del tutto oltrepassato. Paul Mason, per esempio, è tra coloro che hanno suggerito che la nostra epoca sarebbe post-capitalista. Slavoj Žižek ha proposto la denominazione di “comunismo liberale” per l’ideologia elitaria associata a Bill Gates e George Soros. Žižek sostiene che la loro filantropia sia una sorta di auto-negazione capitalista: “il capitalismo odierno – scrive – non può riprodursi da sé. Ha bisogno della carità extraeconomica per sostenere il ciclo della riproduzione sociale”[6]. E a questo mix post-capitalista si può infine aggiungere il termine “antropocene”, cogliendo nella sua diffusione all’interno della teoria critica il segnale di un oltrepassamento dell’economia politica verso l’epocale, il geologico, verso qualcosa che giace completamente al di fuori del tempo della produzione umana. 

I vari termini sono sostenuti da analisi e politiche diverse. Essi identificano differenti insiemi di problemi, dinamiche, rapporti di proprietà e di potere, luoghi di lotta, e così via. Per esempio, alcune delle migliori e più solide teorizzazioni del neoliberalismo lo descrivono come una risposta di classe reazionaria, come un progetto classista volto all’appropriazione della ricchezza, come sostengono Gérard Duménil e Dominique Levy, o Robert Brenner. 

Le diverse analisi del capitalismo sono vagamente correlate alle lotte degli ultimi decenni: Occupy Wall Street, gli Indignados, i movimenti di piazza, le lotte contro l’austerità e la precarietà; le lotte ambientali, comprese quelle per chi deve pagare quando il prezzo del gas aumenta; le lotte sugli affitti, contro i pignoramenti, per la casa e contro gli sfratti; Black Lives Matter e le politiche razziste; le lotte antifasciste; e ancora: le lotte di genere, per l’aborto, contro la violenza sulle donne, e addirittura le lotte reazionarie dal basso che assumono forme razziste. Nel senso più ampio, possiamo identificarle come lotte per l’accesso e il controllo, per chi definisce e controlla chi siamo e cosa siamo, che cosa otteniamo e dove stiamo andando, in un mondo in cui il capitalismo non può risolvere i problemi che crea né organizzare la produzione – anche quando controlla lo Stato –, mentre una nuova forma di organizzazione non è stata ancora messa in atto. 

La sfida riguarda il modo in cui pensare insieme la crisi della riproduzione sociale, l’intensificarsi delle disuguaglianze economiche (capitalismo rentier), l’impotenza politica e la riduzione dell’orizzonte politico al “survivalismo” e alla mera sussistenza. Come spiegare le interconnessioni tra capitalismo comunicativo e delle piattaforme, “rentierismo”, precarietà, crisi della cura e “survivalismo”? 

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[1] Cfr. M.Wark, Il capitale è morto. Il peggio deve ancora venire, tr. it. di C. Reali, Nero, Roma 2021. Le note tra parentesi quadre sono del traduttore.
[2] Cfr. B. Christophers, Rentier capitalism: who owns the economy, and who pays for it?, Verso, London 2020
[3] A. Benanav, Automazione. La fine del lavoro come lo conosciamo, tr. it. di A. Bissanti, LUISS University Press, Roma 2022, p. 3. 
[4] Cioè di noi in quanto “accademici”: l’autrice si rivolgeva in questo seminario ad un gruppo di dottorandi/e e ricercatori/ricercatrici.
[5] D. Thompson, Why nerds and nurses are taking over the US economy?, in “The Atlantic”, 26 ottobre 2017 (https:// www.theatlantic.com/business/archive/2017/10/the-future-of-jobs-polarized-unequal-and-health-care/543915/). 
[6] S. Žižek, La violenza invisibile, tr. it. di C. Carparo e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano 2007, p. 29. 


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