A inizio aprile di quest’anno, Einaudi ha consegnato al panorama editoriale italiano l’edizione tradotta di Mode… ein verführerisches Spiel; un testo che, oggi come allora, segna un’anomalia nella tradizione filosofica occidentale. Apparso per la prima volta in tedesco nel 1969, il testo di Eugen Fink (1905 – 1975) fa luce su un fenomeno largamente disprezzato dal pensiero filosofico, a causa di un aristocratico sentimento di altezzosità nei suoi confronti: la moda (con la dovuta eccezione, ed unica del suo spessore, di Georg Simmel, col suo testo Die Mode del 1911, trad. it. La Moda, SE, Milano 1996). Il saggio viene preceduto da una ricca introduzione di Giovanni Matteucci, docente di estetica filosofica all’Università di Bologna e curatore dell’edizione italiana, in cui, attraverso costanti rimandi al testo e alla bibliografia dell’autore, si offre al lettore un’attenta esegesi del pensiero finkiano.
“L’abbigliamento è un segno distintivo della cultura umana” (pag. 4), scrive Fink, e in quanto tale è meritevole di un’indagine estetica, fenomenologica e antropologica che riesca a liberarsi dei pregiudizi che la attorniano in favore di una vera, e prima, filosofia della moda. Nonostante la fama e l’autorità di Fink nel pensiero novecentesco, allievo diretto di grandi pensatori quali Husserl e Heidegger, le sue riflessioni sulla moda sono rimaste sostanzialmente ignorate. Persino la figlia, in una nota biografica, arriva a definirle un mero divertissement, o, per usare le sue stesse parole, una “scappatella filosofica” (pag. VIII). L’introduzione a cui abbiamo accennato torna qui utile non solo a condensare il pensiero dell’autore tedesco, ma anche a dimostrare come “il suo interesse per la moda abbia profonde radici nei capisaldi della sua prospettiva generale” (pag. IX), smentendo fin da subito l’ipotesi dispregiativa della “scappatella”.
L’occasione per la stesura del saggio furono alcune lezioni di supplenza di un collega malato all’Università di Basilea, dove un fortuito incontro con un commerciante tessile appassionato di filosofia portò l’autore a sostenere una serie di seminari per i capodivisione delle sue filiali svizzere. Alcuni dei temi di questi seminari, condotti tra il ’67 e il ’69, vennero poi raccolti nel testo pubblicato alla fine del medesimo anno, presentando in modo originale i pensieri del filosofo sulla moda. Per quanto il libro sia derivato da materiali seminariali, fatto che spiega probabilmente l’assenza di confronti diretti coi precedenti saggi sul tema, tra cui il sopracitato Simmel che Fink conosceva molto bene, non lo si deve certo credere un testo superficiale o di poco spessore. Al suo interno l’autore arriva a conferire alla moda lo statuto speciale di “fenomeno-chiave” (pag. 96) dell’esistenza umana, dimostrandone la dignità come oggetto di studio per le scienze umane e filosofiche.
L’argomentazione finkiana apre il testo affondando le radici nella dimensione storica dell’uomo, partendo da una rielaborazione della teoria kantiana sulle origini dell’essere umano. Riflettendo sul poco conosciuto scritto Inizio congetturale della storia degli uomini, pubblicato da Kant a cavallo tra la prima e la seconda critica, Fink ripercorre le tappe che hanno portato l’essere umano alla sua ascesa come specie dominante del pianeta. Sono quattro i passi fondamentali di questo percorso: (1) la conquista irrinunciabile del raziocinio, la libertà che si concretizza nell’essere privati della facoltà di perderla, lo spezzarsi delle catene dell’istinto animale in favore dell’incredibile fascino della scelta; (2) la sottrazione della sessualità al dominio dei sensi, il potere nei confronti di un desiderio sessuale svincolato dai ritmi biologici e, di conseguenza, la scoperta della pudicizia e del potere erotico del coprirsi e scoprirsi; (3) la progettualità nei confronti di un tempo slegato dall’immediatezza dell’attimo, la conoscenza dell’ora conscia dell’orizzonte passato e futuro tradotta nel valore prettamente umano della cura; infine, (4) l’assoluto specista nei confronti della natura su cui l’uomo si eleva a scopo finale, l’auto-assunzione del diritto di governare tutto ciò che non gode della sua stessa libertà.
Da ciò il ruolo assolutamente unico dell’essere umano, l’unico essere a cui “è stato ‘assegnato’ il compito di auto-forgiarsi” (pag. 12). L’unico essere che conferisce alle sue capacità di creare e procreare un valore profondo e intimo. L’uomo è sia un prodotto che creatore, un creatore la cui materia prima per la propria, unica, attività istitutrice di senso è se stesso, spiritualmente e materialmente. Proprio da qui, dalla dimensione materiale dell’esistenza creatrice umana, Fink si scaglia contro un’altra tradizione denigratoria del pensiero occidentale: la svalutazione del corpo. La materialità dell’uomo vista come àncora che “disturba il libero volo dell’intelletto” (pag. 13).
Fink ribalta questo obsoleto pregiudizio affermando che, al contrario, esistiamo in quanto corpo, in quanto esseri incarnati e aperti al mondo. La ragione e la libertà umana vivono radicati nella corporeità dell’uomo pervadendo ogni ambito essenziale della nostra vita. Non può sussistere, in conclusione, una rivalutazione socio-filosofica della moda e dell’abbigliamento umano senza, in primo luogo, una rivalutazione del valore e della dignità della corporeità umana su cui essa si posa.
Dopo questa lunga, benché essenziale, digressione Fink entra a gamba tesa nel tema della moda come fenomeno sociale. Parte perciò da una definizione di cosa possiamo intendere per “moda”. Al di là degli usi colloquiali e metaforici del termine, “la ‘moda’ è un fenomeno caratterizzato dal rapido mutamento in brevi periodi di tempo, soprattutto per quanto concerne l’abbigliamento umano” (pag. 20). Proprio questa sua incostanza, il fatto che sia continuamente cangevole e di breve durata, è fonte di molti dei pregiudizi che si nutrono nei suoi confronti; frutto dell’ennesima convinzione filosofica per cui il giudizio di valore debba coincidere col carattere di durevolezza e persistenza alla sfida del tempo. Altre invettive sostengono che la moda non sia altro che un’inutile ostentazione di lusso, un superfluo spreco di risorse oltre il necessario, o soltanto uno stratagemma dell’industria tessile per rimpolpare costantemente il mercato. Queste sono le critiche di quelli che Fink chiama “gli oscurantisti”, coloro che non comprendendo il ruolo del bello nell’economia e nella società umana e riducono l’abito a un mero strumento per la copertura del corpo o per il riparo dalle intemperie. Al contrario, ribadisce l’autore, “il corpo vivente è la realtà concreta dell’essere umano” (pag. 23), che esprime se stesso e le sue strutture di esistenza non solo tramite parole e azioni, ma anche tramite tutto un corollario di gesti, espressioni, atteggiamenti e, non da ultimo, anche col modo di vestire. Proprio con quegli “oggetti culturali” che indossa sul proprio corpo manifesta il proprio gusto, la propria cultura e, soprattutto, se stesso.
Il valore espressivo del vestiario è immediato ed estremamente comunicativo. È fonte di autorappresentazione del soggetto che, non prescindendo mai dall’utilità e dall’impiego degli abiti opportuni per l’occasione opportuna, ha occasione di esprimere il proprio essere e i propri pensieri ancor prima di aprire bocca. Importante proprio in questo senso è stata la capacità della moda, nei tempi moderni che si affacciavano già negli anni di Fink, di espandere la propria sfera di influenza e di comunicatività al di là delle occasioni festive ed esplicitamente conviviali. La sua presenza ha scavalcato i soli eventi dell’alta società, permettendo il suo ingresso anche nel quotidiano – rivoluzionandosi, internazionalizzandosi ed espandendo il terreno di gioco a tutte le età e ceti sociali.
La moda, quindi, fa parte delle manifestazioni della vita sociale pubblica, è il modo in cui “ciascuno può comunque dare risalto alla propria individualità” (pag. 32) esprimendola verso gli altri come meglio ritiene. Di fatto “individualità” e “dimensione pubblica” sono due sfere tra cui la moda è in continuo oscillamento. Sono proprio i suoi “cambiamenti repentini [e] capricciose fantasie” (pag. 33) a permettere a ciascuno di dare originalità e individualità al proprio abbigliamento rimanendo in sintonia col gusto contemporaneo. Proprio a partire da questo concetto possiamo affrontare un altro argomento smentito da Fink: la presunta coercitività della moda. La relazione tra produttori e consumatori non è di manipolazione, tantomeno di costrizione. Il fenomeno è in realtà molto più complesso.
Partendo dal presupposto che, come ben sottolinea l’autore: “Sarebbe utopico ed esagerato pretendere che i singoli esseri umani esprimano se stessi in modo del tutto ‘originale’ […], così come, d’altra parte, si sottostimerebbero gli individui se li si pensasse come semplici consumatori senza spina dorsale di tutto quel che dall’industria viene loro offerto” (pag. 75). Il ruolo dei produttori di moda sta più nel cogliere il gusto del pubblico, anziché di indirizzarlo perentoriamente. L’industria della moda deve fare i conti con l’imprevedibilità della fantasia umana, con la naturale propensione dell’individuo verso la libertà e l’originalità, non potendo quindi permettersi di ridurre la sua proposta ai risultati di una sterile indagine di mercato.
È necessario che lo stilista presti una grande attenzione anche agli aspetti più marginali dell’ambiente sociale, come un’antenna il cui ruolo è quello di “captare” gli stimoli ancora inermi nel tessuto sociale per poi riprodurli nel tessuto materiale che offre. Per questo la guida della moda può esistere solo come forma di suggestione o, come recita il sottotitolo del testo, di seduzione. Qui la seduzione va al di là della comune connotazione moralista di induzione al peccato, indica piuttosto “la capacità, da parte di esseri umani o cose, di sedurci alla vita, di farci dire sì a un’esistenza al tempo stesso terribile e bella – la seduzione in quanto ispirazione, incoraggiamento, suggestione e incanto” (pag. 86). Tale influenza non è sempre trasparente per chi la riceve, si esercita invece proprio in forza di sottili rinvii tra tabù e violazioni intenzionali che agiscono sul consumatore anche a livello inconscio, ma è proprio grazie a queste seduzioni che possiamo parlare dell’industria della moda non come forza “dittatoriale”, quanto più come “figura guida” dell’individuo nell’ambito della propria autorappresentazione nell’abbigliamento.
L’ultimo elemento d’interesse sul quale vorrei soffermarmi è la definizione di moda che viene data nel titolo stesso dell’opera: un gioco. Come detto in precedenza, la moda ha aperto le proprie porte alle più svariate classi sociali e la sua forza d’influenza si esercita ormai in gran parte degli ambienti in cui viviamo. Il vento di libertà soffiato dai tempi moderni ha portato la libertà stessa a essere riconosciuta come diritto umano universale e, assieme ad essa, è giunto il tempo libero. All’interno della società lo scontro dicotomico tra il “tempo serio” del lavoro, degli impegni sociali istituzionali e il “tempo libero” della socievolezza disimpegnata ha quasi sempre visto un prevalere della prima sulla seconda, a eccezione della nostra epoca in cui l’essere umano ha più tempo libero che mai. “La sfera della ‘socievolezza’ è uno spazio che è stato ‘risparmiato’ dalla serietà della vita e dalla gravità dell’esistenza” e come un allegro giullare replica in maniera ironica e canzonatoria la vita seria: “mette in scena onori, titoli, questioni importanti, affari e conflitti” (pag. 67) col solo fine di prendersene gioco. “In questo modo, si fanno beffe della vita seria cui sono temporaneamente sfuggiti, e ciò diventa per loro un passatempo” (pag. 68) con cui giocare. Ed è proprio il gioco l’elemento essenziale della socievolezza.
La socievolezza mette così in scena dei “mondi immaginari”, certamente finti, ma non falsi; mondi di apparenza in cui sgravarsi dei pesi della “vita seria” esorcizzandola e parodizzandola nella più rinfrescante libertà creativa. In questi mondi partecipano non solo i giocatori, ma “questo tipo di gioco coinvolge vari oggetti di scena, scenografie e costumi […]. Al gioco alterno della moda oggi partecipano attivamente più esseri umani di quanto mai in passato” (pagg. 73-74). L’industria della moda si trasforma così anche in una “industria del tempo libero”, in cui tutti i segni del simbolismo della moda aiutano i giocatori ad interpretare ruoli, mutarli, capovolgerli e, fondamentalmente, a giocare.
Da questo breve excursus delle argomentazioni finkiane sulla moda possiamo capire come tutto ciò sia ben più di una mera “scappatella filosofica”. Fink ha saputo dimostrare come la moda goda di tutte le qualità necessarie a un fenomeno per essere un dignitoso oggetto di ricerca da parte delle scienze umane e filosofiche, senza esclusione di colpi. A chi ancora si trincera dietro altezzose invettive nei suoi confronti, e si scaglia contro di essa definendola inutile, accusa spesso rivolta anche nei confronti della filosofia in generale, si può rispondere con le ultime righe del secondo capitolo del testo che abbiamo appena analizzato, mutuate da un noto poema di Voltaire: “Per comprendere la moda, per apprezzarne adeguatamente la produzione, si deve tenere presente che: non c’è nulla di più necessario del superfluo”! (pag. 31).