Il centenario della nascita di Paolo Volponi (1924-1994), celebrato con mostre, seminari, convegni, letture sceniche e un festival, culmina in un volume che, per la prima volta, riunisce i testi sulle arti di questo formidabile umanista industriale italiano. Paolo Volponi. Scritti di critica 1956-1994. Il principio umano dell’arte (Electa, pp. 414, 20 riproduzioni a colori, € 32.00), a cura di Luca Cesari, è il numero zero di una collana di antologie d’autore, “Scritti”, ispirate, nei colori e nel formato di stampa, ai libri che De Chirico ha dipinto nei suoi quadri. Il riferimento, in particolare, è all’opera esposta nella vetrina della galleria di Paul Guillaume a Parigi, Il cervello del bambino (1914), battezzata così dal poeta Louis Aragon e che, acquistata da André Breton per la casa di rue Fontaine, ha presenziato a tutte le riunioni del gruppo surrealista. D’altronde Surréalisme è la traduzione letterale francese della Metafisica dechirichiana: andare oltre le cose fisiche attraversandole, non valicandole. Parole e immagini, in un’arte della conoscenza del mondo tesa all’intravisione, si tengono insieme.
Il volume si compone di più di settanta scritti di Volponi, fra articoli per quotidiani e riviste, saggi, presentazioni di mostre, interviste e lettere. È un arcipelago di testi accomunati dal“tumulto” di Volponi verso le opere e uniti da relazioni con artisti, designer, architetti e conservatori. Lo arricchiscono una testimonianza della figlia Caterina, la prefazione di Maria Rosaria Valazzi, una nota biografica di Emanuele Zinato e un’ampia e approfondita introduzione di Luca Cesari, che di Volponi esalta le “vivide descrizioni” di opere d’arte, rigorose e mai indulgenti con la letteratura. “Una mistione di passatempo e serietà che si afferma con semplicità suprema in una tendenza duttile e operosa”. Autodidatta, sebbene spiritualmente allievo di Roberto Longhi e a lungo collaboratore di Paragone, Volponi segue le orme di Diderot e dei “geniali critici dilettanti, senza i quali non esisterebbe la critica dei grandi professionisti”.
L’urbinate cresciuto nella fornace di mattoni del nonno, infatti, non ha una formazione da storico dell’arte. A ventiquattro anni ha appena pubblicato la sua prima raccolta di poesie (Il ramarro, 1948) quando Adriano Olivetti lo chiama a coordinare i Servizi sociali di soccorso ai senzatetto del dopoguerra (UNRRA-CASAS), poi a Ivrea come capo del personale della sua azienda. Più tardi consulente della FIAT per i rapporti fra industria e città e successivamente segretario della Fondazione Agnelli, Volponi accentua il proprio impegno politico nel 1975, con l’elezione in Parlamento nelle liste del PCI. L’educazione all’arte rappresenta per lui soggettivamente una passione, un diletto appunto, anche come riparo immaginativo dai rischi dell’alienazione in fabbrica, e oggettivamente “uno schermo per le classi più popolari”. Nel saggio che apre la raccolta, Il senso di una lezione (1956), Volponi contesta “le formule difficili dell’accademica cultura”, avverse alla “comprensione reale e più intelligente dei monumenti d’arte, perché aleggianti in un clima artificioso e senza alcun legame con i problemi della gente”. E si pone alla ricerca di “un metodo di ispezione viva”, che aiuti le persone a trovare “nelle armature, nei volti, nelle sofferenze, nelle mani e nei modi di vivere di altri tempi, indicazioni e conforti sulle loro capacità di conoscere”.
Così Il tributo (1425) di Masaccio colpisce Volponi per “Il principio umano della pittura-scienza”, rivoluzione praticata non da un singolo autore, ma dai figli del popolo, quando le arti meccaniche si elevano alla dignità delle arti liberali. Masaccio, nello spettacolo geometrico di una pittura finalmente allargata, inserisce figure ignote, marginali. C’è poi La Flagellazione (1450) di Piero della Francesca, che piace a Volponi perché annuncia il modello di città rinascimentale sia con lo spazio rigoroso e armonioso, sia con la limpidezza dell’aria. Più vicina a noi, la scultura di Arnaldo Pomodoro è un tempo che scava, che frange le forme e vi scorre, analogo a quello delle rocce di Pietrarubbia. E le incisioni di Arnaldo Ciarrocchi, Luigi Bartolini, Leonardo Castellani, Carlo Ceci divengono racconti di lotta del bianco che si spezza, si ammatassa o si allenta per risorgere come nero, senza spandersi e senza svanire. Volponi sdrammatizza il mito del pezzo unico, il rapporto feticistico con l’originale. E valorizza l’autenticità di acqueforti, litografie e xilografie che fanno sentire ostinazioni della mano e resistenze e cedimenti della materia. La natia Urbino, con le vedute di cui si è “riempito”, è al centro di tutte queste riflessioni. Orgoglioso per la tradizione della Scuola del Libro, lo scrittore ci tiene a ricordare che la Biblioteca vaticana, la più munita e preziosa al mondo, è federiciana e urbinate, strappata alla città dall’astuzia di papa Urbano VIII.

L’attività di collezionista e consulente per case d’asta spiega strumenti di lettura non canonici ed è documentata, nell’antologia, dal bel saggio autobiografico della figlia Caterina: i quadri “hanno vissuto con noi”, ma “andavano e venivano continuamente”. Averli in casa rappresentava una ricchezza non nei termini volgari del possedere, del consumare, del sottrarre agli altri, ma come arricchimento culturale, per sollecitare dialoghi fra generazioni e cercare risposte sulla vita. Per ricevere conforto, in un senso che Volponi ha voluto rendere pubblico nel 1991 donando tredici opere alla Galleria del Palazzo Ducale di Urbino, in memoria del figlio Roberto morto prematuramente. Altri ventuno pezzi hanno integrato il primo lotto nel 2023, a nove anni dal decesso dello scrittore e per volontà delle eredi.
Questo volume, insomma, ha molti pregi: introduce i lettori ai saperi e sapori di Volponi in ambito artistico, alle sue ekphrasis sfidanti, capaci di tradurre sensibilmente le trame della pittura e delle materie; permette di cogliere aspetti finora opachi dei suoi racconti e romanzi; e riporta l’attenzione sulle opere, che sono il mezzo fisico fondamentale di confidenza con i predecessori e di insegnamento per il futuro. Anche il rapporto fra economia e arte è fortissimo, con la scommessa che le opere possano risolvere la contraddizione tra la forma privata dell’appropriazione e la sua socializzazione. Spunti teorici e pratici delineano, ad esempio, una scienza di gestione del patrimonio italiano nell’ottica di un superiore interesse. Per contrastare il mercato clandestino, l’incuria, i furti e la contraffazione delle opere, Volponi suggerisce una ricostituzione dei profitti non nel solito modo dell’accumulazione personale, ma con investimenti sui beni pubblici, vendendo, a civili collezionisti e amatori, piccoli reperti archeologici, opere di minori, copie o repliche che ora giacciono nei magazzini dei musei. Una cultura finalmente unitaria nascerebbe da simili processi di immissione nel mercato, utile a salvarci da molte cecità.
