L'articolo L’arte del rivelarsi. Recensione di “Sotto il segno di Saturno” di Susan Sontag proviene da Scenari.
]]>Sontag nasce nel 1933 ed è, sin dagli anni universitari di Harvard, come si evince anche dalla biografia vincitrice di un premio Pulitzer nel 2020 di Benjamin Moser, interessata sia alla teoria critica di matrice francofortese, sia alla filosofia in generale, visto anche il suo dottorato di ricerca – sempre ad Harvard – incentrato sulla filosofia antica, l’etica e la metafisica classica. L’interesse per il pensiero francofortese si sviluppa anche attraverso l’incontro con il filosofo tedesco Herbert Marcuse che, durante i suoi anni di insegnamento ad Harvard, nel 1955, compose parte della sua opera più importante, Eros e Civiltà, durante un soggiorno a casa di Sontag e del suo compagno Philip Rieff.
È possibile dedurre questo profondo interesse sin dalla raccolta di saggi Contro l’interpretazione del 1966, edita in Italia sempre da nottetempo (2022). Nella scrittura di Sontag il metodo filosofico si accompagna all’analisi estetica e, in particolare, a quella del rapporto tra ciò che può essere definito come artisticamente valido e la realtà, la vita. La raccolta di saggi Sotto il segno di Saturno non è sicuramente da meno visto l’intento, da parte dell’autrice, di accostare a un livello apparentemente saggistico e bibliografico i costanti riferimenti attinti sia dalla cultura del tempo, sia dall’orizzonte stesso del pensiero di Sontag. Composta tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta e pubblicata per la prima volta nel 1980, la raccolta si sviluppa intorno all’omonimo saggio centrale. In queste pagine l’autrice sviluppa un’analisi della persona di Walter Benjamin, un altro dei filosofi più rilevanti all’interno della Scuola di Francoforte. Nel corso del testo la filosofa americana concentra la sua riflessione, in particolare, sul rapporto di Benjamin con la propria vita e la percezione che questa relazione si interfacci, a sua volta, con la scelta di analizzare e approfondire autori percepiti a lui più affini come, ad esempio, Charles Baudelaire e Marcel Proust. In tutta la penna benjaminiana il carattere saturnino viene spesso a galla: ciò è determinato anche da una costante indolenza e da un’autodisciplina costante in campo lavorativo. Questo carattere si estende a macchia d’olio su tutti i profili descritti nei vari saggi come quello di Antonin Artaud.
Artaud diventa, sotto l’occhio attento da lettrice di Sontag, l’archetipo perfetto di ciò che è il modernismo letterario e, nella sua trattazione, – che spera di cogliere il nocciolo più ultimo dell’esperienza letteraria, teatrale, filosofica e di pazzia di Artaud stesso – la matrice della più grande critica che il modernismo letterario ha posto nei confronti dell’arte letteraria: quella del rapporto con la vita. L’esperienza di Artaud, persona (oltre che autore), è tormentata dal rapporto con la mente e con il corpo ed è esasperata dal pensiero più intimo di creare un’arte che, sì, coinvolga lo spettatore, ma anche il mondo stesso. La sua ricerca di arte totale che, però, si svincoli dalla vita, lo porta ad affacciarsi sia all’esoterismo – poco prima del sopraggiungere della pazzia e dell’internamento nella clinica psichiatrica di Rodez nel 1943 – sia al surrealismo, per poi distaccarvisi per problemi di natura politica e letteraria con André Breton. Di natura letteraria, anche in virtù della percezione dei due nei confronti della mente stessa: se Artaud vedeva nel suo subconscio la prima radice del suo struggimento, Breton vedeva nella psiche l’unico accesso positivo dell’arte. Se per Artaud l’arte era l’unico modo per staccarsi dal sé inglobandosi nella carne stessa, per Breton era un semplice viatico felice per produrre qualcosa di nuovo.
Il tema della produzione e di come qualsiasi forma d’arte venga alla luce è centrale in Sontag per percepire il modo con cui i fatti vengono esperiti. In Malattia come metafora del 1978, il focus è posto su come la forma d’arte plasmi una realtà e la racconti. L’esempio perfetto è costituito da un breve saggio intitolato Fascino fascista. Qui, sono due i fenomeni a essere analizzati: il cinema di Leni Riefenstahl e il suo accostamento al feticismo di natura erotica delle divise delle SS che spopolava in quegli anni. In questa trattazione il cinema di Riefenstahl viene ampiamente criticato e valutato come forma simbolica più pura dell’idea stessa dietro al Nazismo e al Fascismo. Il cinema di Riefenstahl, nonostante la rivalutazione che Sontag stava vivendo, è anche posta nei confronti della popolazione indigena dei Nuba, oggetto del documentario omonimo della cineasta tedesca del 1973, paradigmatico di un modus operandi che ha come interesse ultimo l’enfasi sull’eroismo e sulla corporeità e una svalutazione della natura sessuale benché non di quella erotica. L’erotismo diventa erotismo di Stato e ciò si deduce dall’interesse della popolazione dei Nuba o, in particolare, ai maschi dei Nuba (l’attenzione di Riefenstahl è solo nei confronti della popolazione maschile) in una forma di erotismo della dinamica della lotta che i vari individui di questa tribù dovevano affrontare per dimostrarsi il più forte.
Quest’analisi fortemente critica nei confronti di una regista (cosa molto rara per Sontag stessa, che preferiva l’analisi costruttiva alla critica) si colloca all’interno della raccolta insieme al saggio di apertura, un vero e proprio encomio nei confronti dell’artista e sociologo anarchico Paul Goodman, scomparso proprio nel 1972, mentre l’autrice stava soggiornando a Parigi per motivi legati al suo lavoro di scrittrice. Questa perdita la colpì enormemente a livello personale e il saggio è pervaso da nozioni di carattere biografico, come il suo primo incontro con Goodman o con quale libro si approcciò alla sua scrittura. Ciò è accompagnato da un’analisi della vita e dell’opera di Goodman, seguendo il filone del rapporto tra arte e vita e mostrando come, anche a livello stilistico, il ricorso alla propria esperienza personale non risulti di scarsa importanza, ma vitale per comprendere in maniera migliore le intenzioni più intime di un autore che si sta affrontando e conoscendo, come mostra anche il cinema di Hans-Jürgen Syberberg descritto da Sontag stesso intorno alla figura di Adolf Hitler, protagonista-oggetto del film Hitler: un film dalla Germania del 1977.
Nella trattazione della pellicola di Syberberg l’elemento di prospettiva del soggetto si focalizza – come anche in un suo saggio successivo edito da Einaudi nel 1989, intitolato Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società – non solo su come il dittatore nazista sia stato percepito da se stesso, ma anche da chi viveva sotto il suo dominio, chi esperiva le notizie intorno alla Germania in quel periodo e anche nei confronti della prospettiva dello spettatore stesso. La dinamica del cinema di Syberberg influenza tutti e cerca di mostrare la prospettiva, anche la più superficiale, mettendola al centro della trattazione.
In chiusura della raccolta, sono poste le trattazioni intorno al semiologo e filosofo francese Roland Barthes e allo scrittore e antropologo bulgaro naturalizzato inglese Elias Canetti. Se il primo, riprendendo il lavoro di apertura di Sotto il segno di Saturno su Paul Goodman, è un’analisi della vita e delle opere di Barthes per encomiare una vita spentasi troppo presto, il secondo è un’analisi che, partendo dalla prospettiva di un discorso tenuto da Canetti in occasione del cinquantesimo compleanno, nel 1936, di Hermann Broch, scrittore e drammaturgo austriaco naturalizzato statunitense, si dirama intorno alla dimensione più propria della scrittura e della vita di Canetti: quello di confrontarsi con modelli forti. Questo contraddistingue sia tutta la produzione analizzata da Sontag nella sua trattazione, ma anche quella successiva di Canetti, sia, uscendo dalla raccolta, anche la vita di Sontag che, durante tutta la sua esistenza si è cimentata in un dialogo costante, positivo e non, nei confronti di vita e di penne estremamente complesse.
Sotto il segno di Saturno sancisce il rapporto post mortem tra nottetempo e Susan Sontag, portando in Italia una raccolta che, guardando il passato, si rivolge al futuro attraverso l’analisi delle vite di alcune personalità che hanno contraddistinto il Novecento;andando oltre a esse, si confronta con il rapporto tra produzione di massa e la politica, l’opera d’arte e l’analisi del mondo che ci circonda, la semiotica e i segni stessi che analizziamo della nostra esistenza. Il focus centrale del lavoro di Sontag, messo in risalto anche dalla traduzione e dalla piccola bibliografia in quarta di coperta di Dilonardo, è sì l’analisi delle opere e delle vita, ma pur sempre in una prospettiva di ampio respiro in grado di toccare il politico, il sociale, l’arte e la vita. L’estetica di Sontag non può essere vista come meramente fine a se stessa, ma ha come obiettivo e oggetto di analisi il più intimo rapporto tra il soggetto con il mondo, con il politico e con il sociale. Proprio per questa ragione la raccolta si rivolge a un pubblico specialistico, ma anche a chi conosce solo uno dei vari nomi citati in questa raccolta e ha intenzione di prodigarsi in un’analisi che, riprendendo le tipiche argomentazioni portate da Theodor W. Adorno e dalla Scuola di Francoforte, tenderà sempre a procedere non solo nei confronti del reale a lei contemporaneo, ma anche nei confronti del futuro stesso, nei confronti dell’Altro che legge e che leggerà.
L’importanza della riscoperta di Sontag attraverso il lavoro di Dilonardo e di nottetempo può sembrare marginale ma, addentrandosi nei testi, il tutto risulta fin troppo evidente: la penna della scrittrice e filosofa americana è l’anello di congiunzione necessario tra la riflessione tra le due metà del Novecento, tra I Mandarini di Simone De Beauvoir e I Samurai di Julia Kristeva, tra l’esistenzialismo e la teoria critica e lo strutturalismo, la semiotica e il rizoma di Gilles Deleuze. In definitiva, la pregnanza del pensiero di Sontag ha come referente primo il passato che conferisce uno sguardo verso l’Altro, non solo in senso psicanalitico o fattuale per il lettore, ma va anche a essere il futuro, il prossimo dimenticato o un lato del lavoro di un autore mai veramente valutato come le opere minori citate nel saggio su Benjamin. Susan Sontag è stata un’autrice importante per i movimenti sessantottini e deve essere rivalutata per capire come questo metodo sia necessario per riscoprire l’arte e come essa si interfacci al mondo.
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]]>Durante i primi giorni di guerra, gli analisti militari occidentali – in servizio presso la NATO oppure in congedo davanti allo schermo del computer – hanno cercato disperatamente di individuare nella manovra russa qualche traccia che consentisse di individuare la direttrice d’attacco principale e quelle secondarie, o i settori del fronte dove fossero presenti più linee successive di armate; hanno cercato di capire dove avessero luogo le penetrazioni preventive di forze aviotrasportate per aprire la strada ai mezzi corazzati, e come le colonne meccanizzate di soldati professionisti si sarebbero fatte strada nella sterminata pianura sarmatica per evitare i centri abitati e racchiudere in una serie di sacche di resistenza le forze ucraine ancora in via di mobilitazione. Insomma, cercavano tutti quegli indizi collegati alla dottrina militare nota impiegata dai russi in operazioni convenzionali che avrebbero consentito di comprendere la manovra in atto e di valutarla per prevederne gli sviluppi successivi.
La frustrazione è stata immensa, perché non è stato possibile rilevare niente di tutto ciò: l’avanzata russa sembrava una specie di macchia d’olio che progrediva uniforme, ma anche sempre più lentamente, e non si distingueva alcun asse d’attacco specifico, né primario né secondario. Le forze aviotrasportate e perfino le forze speciali (i famosi “spetsnaz”) sembravano impiegate “a pioggia”, e i centri abitati piuttosto che essere aggirati venivano investiti frontalmente, tutti insieme
grande inganno militare della storia: un’intera dottrina falsa venduta per vera, e quella reale tenuta nascosta fino all’ultimo momento; poi invece è diventato evidente come in effetti l’intera pianificazione operativa russa fosse semplicemente inadeguata alla situazione reale. In sostanza i russi stavano combattendo una guerra completamente diversa da quella per cui si erano preparati.
Questo in quanto il vincolo concettuale imposto dalla direttiva politica di pianificazione si basava su un pregiudizio ideologico dell’autocrate, rivelatosi semplicemente del tutto errato.
L’idea di Putin era che lo Stato ucraino, essendo basato su una nazionalità inesistente e quindi del tutto “vuoto”, sarebbe collassato di fronte alla potenza militare russa. Le Forze armate regolari si sarebbero dissolte o avrebbero rifiutato di combattere, la popolazione russofona sarebbe scesa in piazza reclamando quantomeno il disarmo se non addirittura l’annessione alla Russia, il governo sarebbe caduto e al massimo i gruppi armati nazionalisti sorti all’indomani di Euromaidan, quali ad esempio il famigerato “Reggimento Azov”, avrebbero opposto una resistenza localizzata e del tutto asimmetrica.
Ironicamente, questa era esattamente la stessa convinzione di Adolf Hitler alla vigilia dell’invasione della Russia nel 1941, quando si disse convinto che, di fronte a un attacco deciso e implacabile da parte della Wehrmacht, “l’intero marcio edificio dell’Unione Sovietica” sarebbe crollato in un colpo.
In forza di questa ipotesi operativa le Brigate russe erano state rinforzate con robusti contingenti della “Rosgvardija”, la cosiddetta “Guardia Nazionale” basata sui vecchi contingenti di Omon del ministero degli Interni: i reparti antisommossa della polizia impiegati per l’ordine pubblico. L’idea infatti era che il problema principale sarebbe stato fronteggiare l’iniziale ostilità di quei settori di popolazione che a suo tempo avevano sostenuto l’Euromaidan e che appartenevano alla fazione “arancione” e filoccidentale del paese; una vera resistenza militare non era prevista, e questo è ulteriormente dimostrato dalla scarsità del sostegno logistico accumulato, indice di una prevista breve durata delle operazioni, e addirittura dalla presenza nei bagagli individuali del personale militare russo di uniformi da parata. Esistevano infatti chiari piani per celebrare in Ucraina la tradizionale parata della vittoria nella “Grande guerra patriottica”, che si tiene ai primi di maggio.
In conseguenza di questo vincolo concettuale imposto dall’autorità politica, lo Stato Maggiore russo ha pianificato l’operazione militare non come un’invasione da condurre secondo dottrina convenzionale, ma come un’occupazione preventiva in un teatro operativo ostile, da condurre con criteri ibridi. Per fare un raffronto storico, il concetto operativo impiegato in Ucraina si può ricondurre più alle operazioni sovietiche in Cecoslovacchia nel 1968 e in Afghanistan nel 1979 che non a quelle della Seconda guerra mondiale sul fronte orientale contro la Wehrmacht.
Quello dell’occupazione preventiva, in inglese meglio espresso come forced entry, è un concetto operativo completamente diverso, che postula una complessiva assenza di resistenza armata organizzata avversaria, e che pone l’enfasi sulla sorpresa, sulla rapidità dell’azione, sull’assenza di fuoco di preparazione, e sull’occupazione preventiva di punti sensibili da effettuare preferibilmente con forze speciali infiltrate in precedenza o da inserire in teatro per via aerea. Questo tipo di azione tende ad acquisire fin dalle prime ore il controllo di tutti i punti nevralgici dello Stato da neutralizzare, rendendolo del tutto incapace di reagire e ponendolo quindi alla completa mercé dell’invasore: le forze armate avversarie vengono letteralmente sorprese all’interno delle proprie stesse caserme e disarmate sul posto senza dar loro il tempo o la possibilità di reagire. Di fatto, è quello che era stato fatto in Crimea otto anni prima.
Un ottimo esempio di questo tipo di operazione è quella attuata dai tedeschi ai danni dell’Italia l’8 settembre 1943: una situazione in cui chi dovrebbe difendersi non ha il tempo o il modo di reagire e finisce con il cedere le armi anche di fronte a forze sostanzialmente inferiori a causa dell’assoluto collasso delle comunicazioni con i comandi superiori. In sostanza si crea nei soldati il dubbio di essere lasciati soli a combattere e di essere destinati a morire per niente; in un tale clima di incertezza la motivazione al combattimento viene meno e la resa diventa un riflesso immediato, specialmente di fronte a un invasore apparentemente benevolo e per il quale esiste un’opinione pregressa generalmente non troppo negativa.
Una volta assunto che l’operazione russa è stata concepita come un’occupazione preventiva piuttosto che come un’invasione, e che gli invasori erano convinti di non dover fronteggiare una resistenza organizzata quanto piuttosto un’opposizione asimmetrica, la manovra russa assume un suo senso.
Le colonne corazzate sono state lanciate in avanti lungo le arterie principali in modo da muovere con la massima rapidità possibile, con in testa i carri armati per incutere timore e i reparti antisommossa per neutralizzare l’amministrazione e controllare i civili; paracadutisti e forze speciali sono stati proiettati in avanti in gruppi esigui per impadronirsi di centrali radiotelevisive, basi di avvistamento radar e sedi governative anche a distanze rilevanti dal fronte, nella convinzione che non avrebbero incontrato opposizione armata e che le colonne corazzate li avrebbero raggiunti rapidamente. Ma soprattutto, non è stata messa in atto alcuna campagna aerea per neutralizzare l’aviazione avversaria e non è stato fatto un tentativo serio di isolare e colpire le Brigate ucraine disposte per la difesa in profondità.
Insomma, gli osservatori e gli analisti militari occidentali non si raccapezzavano i primi giorni dell’invasione perché i russi avevano completamente sbagliato i parametri della loro pianificazione, e operavano in maniera non congrua alla situazione in cui si trovavano a combattere: i loro piani erano basati su presupposti completamente sbagliati.
L’errore di valutazione russo sulla volontà di resistenza ucraina è anche alla base del motivo per cui in Occidente pochi hanno creduto alla reale intenzione russa di passare veramente a vie di fatto dopo le numerose provocazioni effettuate in precedenza. In fondo Putin aveva ammassato ingenti forze al confine ucraino già altre volte, minacciando azioni militari mai materializzatesi, in perfetta coerenza con la sua dottrina ibrida tendente a lasciare gli avversari perennemente nel dubbio e a impiegare risorse militari per ottenere effetti di comunicazione politica e diplomatica.
Poiché in Europa esisteva una maggiore consapevolezza del reale atteggiamento della popolazione ucraina, dal punto di vista occidentale le forze militari russe schierate al confine a febbraio 2022 semplicemente non erano sufficienti per un’invasione, e per questa ragione fondamentale la maggior parte di osservatori e analisti – incluso il sottoscritto – riteneva che quello di Putin fosse solo un ulteriore bluff, esattamente come tutti quelli che lo avevano preceduto.
Dottrinalmente, nella conduzione di operazioni militari, l’attaccante deve poter disporre di un potenziale militare generico almeno tre volte superiore a quello del difensore per poter ottenere effetti di attacco soddisfacenti e tali da infliggere una sconfitta significativa all’avversario. Naturalmente il calcolo di questo potenziale è estremamente complesso e non si limita al mero confronto numerico di soldati, carri armati o pezzi di artiglieria; però tali numeri hanno la loro importanza, e se le differenze non sono significative occorre che l’attaccante disponga di un vantaggio schiacciante in qualche altra dimensione, quali la sorpresa, la volontà di combattere, l’addestramento o la tecnologia.
Di fatto l’intelligence occidentale attribuiva ai russi una chiara superiorità in ciascuno di questi settori, ma in nessuno di essi si trattava di un vantaggio schiacciante. In definitiva, la superiorità militare russa appariva netta, ma non soverchiante in misura tale da rendere l’invasione un affare sicuro, e quindi credibile.
In mancanza di questa certezza di totale superiorità, e in assenza di una ragione politica per correre un rischio particolarmente elevato come un’aggressione militare priva di superiorità accertata nei termini richiesti dalla dottrina, veniva abbastanza naturale considerare l’invasione poco probabile.
Del resto, non c’erano state guerre convenzionali e simmetriche in Europa dal 1945, e non si vedeva come la Russia potesse voler compromettere la sua economia scatenando un conflitto che da parte occidentale non sembrava avere ragione alcuna.
Con l’Occidente e la stessa Ucraina che non si aspettavano una vera invasione, la Russia si trovava nelle condizioni migliori di poterla condurre con il vantaggio di una sorpresa a livello quantomeno operativo, se non addirittura strategico.
L’errore concettuale di Putin però ha rovesciato completamente la situazione, e alla fine è stata proprio la resistenza organizzata degli ucraini a sorprendere i russi.
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]]>Duro intelligere e morbido sentire
il peggio che ci possa capitare.
Patrizia Cavalli
Leopardi e la filosofia è un testo di recente edizione, curato da Gabriella Giglioni e Gaspare Polizzi, che si sostanzia in una serie di scritti all’interno dei quali il filosofo e storico della filosofia italiano Remo Bodei tenta, a più riprese, un confronto con il pensiero e l’opera di Giacomo Leopardi. Pubblicata postuma nel 2022 dalla casa editrice Mimesis all’interno della sua collana LEOPARDIANA, la raccolta si compone di nove saggi, di cui quattro inediti [1], elaborati dall’autore in un arco temporale che va dal 1992 al 2017. Come sottolineato dai due curatori, tale continuità testimonia senz’altro l’“attenzione di lunga durata” che Bodei riserva al poeta. All’interno dei vari scritti, l’autore affronta alcuni dei loci classici della poetica leopardiana – quali, ad esempio, il materialismo, la concezione della natura, il concetto di ultrafilosofia, ecc. –, mettendoli in risonanza con la tradizione filosofica che l’autore padroneggiava come pochi altri suoi contemporanei.
Questo tentativo di recupero si colloca nel solco del più generale interesse, registrato all’interno della teoresi e della critica italiane novecentesca e contemporanea, nei confronti del lascito filosofico di Giacomo Leopardi. In particolare, nel primo saggio, intitolato La scoperta del Leopardi filosofo e tratto dall’intervento tenuto da Bodei nel 2017 in occasione del XIV Convegno Internazionale di studi Leopardiani, i debiti dichiarati sono quelli nei confronti del maestro Cesare Luporini e dell’amico e compagno Sebastiano Timpanaro, entrambi fautori di una linea interpretativa tesa a collocare Leopardi entro la tradizione materialista. Già questo riferimento diretto ai due studiosi sembra, peraltro, porre Bodei in una posizione molto distante da chi accosta la riflessione del recanatese al pensiero di filosofi come Schopenhauer, Heidegger, Cioran. I molti richiami alle opere di Luporini e Timpanaro attraversano, peraltro, tutto il testo, facendosi segno tangibile del dialogo vivace, a volte critico, che Bodei intrattenne sul tema leopardiano con i due studiosi e, più in generale, con la prospettiva esegetica incline a ricondurre il poeta entro la tradizione materialista. Se è indubbio che il Leopardi di Bodei non si risolva del tutto in questa posizione, soprattutto – come vedremo – per il grande rilievo assegnato dallo stesso autore alla dimensione cosmica propria della riflessione leopardiana, appare comunque chiaro come all’interno del testo venga attestato maggior credito all’interpretazione materialista rispetto che alla tendenza a operare una lettura di Leopardi in chiave esistenzialista. In primo luogo, ciò appare giustificato dal fatto che Bodei giudichi l’accostamento di Leopardi al materialismo come filologicamente più rigoroso, ma non si tratta solo di una questione di metodo. Infatti, più si entra nel vivo dell’esegesi, soffermandosi sulla selezione dei topoi leopardiani operata dall’autore e sulla struttura entro cui egli li articola in costellazione, più tale “corrente calda” diviene decisiva. Entriamo, dunque, nel merito.
La prima citazione diretta dell’opera di Leopardi che troviamo nel testo è la seguente: «come l’uomo non può né collo intelletto né colla immaginazione né con veruna facoltà né veruna sorta d’idee oltrepassare d’un sol punto la materia» (Zib. 3503, 23 settembre 1823). Se si esamina la teoria della conoscenza leopardiana, elaborata sotto l’influenza dell’empirismo e del sensismo, la tenuta della posizione materialista appare saldissima. Citando Bodei, secondo il poeta «ogni conoscenza parte dai sensi ed è integrata dall’immaginazione della ragione sulla base dell’elaborazione incessante dei materiali che vengono loro trasmessi, quel che effettivamente ci risulta è la datità indeducibile di tutte le cose» (p. 32). Il piano su cui si ragiona risulta quindi quello della pura immanenza. La postura anti-metafisica e anti-dialettica, che l’autore attribuisce a Leopardi, viene ricondotta, in diversi punti del testo, proprio a questa petizione di principio. Bodei fa emergere l’atteggiamento diffidente con cui Leopardi si relaziona tanto ai filosofi metafisici, tesi a postulare verità astratte arbitrariamente fatte discendere da principi universali, quanto ai dialettici, a cui il poeta rinfaccia di proporre un rimedio posteriore – in quanto sintesi del processo – a mali di cui gli esseri umani sono affetti in questo “qui e ora”.
Quest’ultimo affondo appare decisivo, perché aiuta a comprendere a quali esiti conduca il materialismo in Leopardi. Ponendo in contrasto il dolore, del tutto immanente, causato dalla condizione umana, con il carattere di posteriorità proprio della sintesi dialettica, il poeta fa emergere la componente trascendente di quest’ultima e, quindi, la sua inutilità. Tale critica spietata e lucidissima, tuttavia, non conduce la riflessione di Leopardi verso derive relativistiche. La ragione distruttrice, che opera «sempre togliendo, niente sostituendo» (Zib. 2710, 21 maggio 1823), deruba gli esseri umani delle illusioni ponendoli davanti ad una nullità che, tuttavia, non è puro vuoto ma – citando la famosa espressione contenuta nello Zibaldone – è un nulla solido, dotato di un suo statuto ontologico. La ragione, quindi, disvela una precisa verità che nella sua crudeltà rimane insindacabile. Bodei, lungi dal ritrarre Leopardi come un pensatore irrazionalista, fa emergere a più riprese come – soprattutto a partire dall’ultima fase del suo percorso intellettuale – il recanatese giunga a una rivalutazione della ragione, a cui attribuisce il grande merito di far pervenire alla coscienza degli esseri umani la dolorosa condizione in cui versano in quanto esseri gettati – prendendo qui in prestito un termineheideggeriano – davanti all’abnormità e all’indifferenza dell’elemento naturale.
All’interno di diversi saggi presentati in Leopardi e la filosofia troviamo, inoltre, la messa in discussione di un altro dei pregiudizi classici generalmente associati al poeta recanatese, ovvero quello che tende ad assimilarlo a una prospettiva anti-illuminista. Secondo Bodei, Leopardi non è in realtà mosso dalla volontà di operare una critica radicale che destituisca l’illuminismo delle sue proprie basi, ma è spinto piuttosto dalla forte esigenza di completare il processo che l’illuminismo ha messo in moto, al fine di oltrepassarlo. Il mezzo proposto, a tal scopo, è quello del ricongiungimento della ratio con il proprio “altro da sé”, ovvero con la poesia e l’immaginazione. In primo luogo, ciò risponde a una necessità di natura teorica: solo il filosofo che abbia avuto esperienza del bello e delle illusioni è in grado di comprendere l’esperienza umana nella sua totalità. Una ragione epurata dall’estetico risulta perciò, più che inutile, nociva. Ma, con ancora più urgenza, tale riconciliazione si impone sul terreno della ragion pratica. Se il filosofo è in grado di mostrare all’essere umano la gravosità della sua condizione, solo il filosofo che sia al contempo anche poeta sarà in grado di creare nuove illusioni che permettano l’alleanza solidale del genere umano contro la natura.
Fin qui la trattazione ha messo in luce la continuità sussistente tra l’esegesi sviluppata da Bodei all’interno di questi saggi e la visione di un Leopardi materialista (Timpanaro) e progressista (Luporini). Risulta a questo punto opportuno sottolineare che all’interno del testo sono riscontrabili anche delle decise prese di distanza rispetto a tale concezione. Ciò che infatti, secondo Bodei, il recanatese non perdona all’illuminismo è di aver condotto i suoi contemporanei alla superbia. La miope pretesa che Leopardi ravvisa come l’illusione del suo tempo è quella che porta l’essere umano a credere di poter giocare ad armi pari contro la natura. Questa presunzione, propria del secol superbo e sciocco, è figlia di una forma di razionalità miope, che tende ottimisticamente a sopravvalutare l’efficacia dei suoi mezzi tecnici ed a confonderli con i propri fini. Leopardi, pensatore cosmico, assume un punto di vista macroscopico per ricondurre la ragione entro la giusta prospettiva, imponendole un confronto con gli infiniti spazi e i sovrumani silenzi che la circondano e che finiranno per annientarla, e da cui non può uscire che profondamente ridimensionata. Bodei appare estremamente affascinato dal punto di vista cosmico assunto dal poeta e a questo tema dedica alcune delle pagine più belle e teoreticamente più dense del libro (nello specifico, a questo tema sono dedicati i due saggi Pensieri Immensi. Leopardi e l’“ultrafilosofia”, originariamente apparso su “Micromega. Almanacco di filosofia”, 5, 2002, e Infinito e sublime in Leopardi [cfr. pp. 57-61, 64-75]). Riportiamo di seguito alcune frasi tratte proprio dal saggio Infinito e sublime in Leopardi:
Leopardi è un vertiginoso poeta cosmico, che, fin della Storia dell’astronomia composta all’età di quindici anni, vede l’uomo inserito, sperduto e insignificante nell’universo infinito. Appartiene ad una tradizione che include Lucrezio e, per certi versi, Pascal. In questa genealogia si potrebbero inserire sia i filosofi pitagorici, platonici, aristotelici, sia, sul piano letterario, lo stesso Dante della Commedia, se non fosse però che in essi il cosmo è sinonimo di bellezza e di ordine divino, mentre Leopardi rappresenta, al contrario una natura smisurata e distruttiva, dove dominano la nascita e la morte (p. 64).
Bodei fa notare come tale concezione altro non sia se non il frutto della presa di coscienza di Leopardi dei risultati a cui l’astronomia e la fisica del suo tempo erano pervenute, materie che lui padroneggiava perfettamente e a cui si interessava fin dalla sua giovane età. In questo senso, come l’autore fa giustamente emergere, il recanatese è figlio della rivoluzione copernicana, di cui prende atto integrando l’abnorme e il caotico nella sua riflessione. Tale confronto aperto con il nulla, inteso come vastità e non come assenza di sostanza, è l’appiglio teorico che presta il fianco alle interpretazioni che collocano Leopardi entro la schiera dei pensatori nichilisti, Severino in primis. Bodei sembra non propendere per questa visione: all’interno dei suoi scritti, infatti, il carattere cosmico della riflessione leopardiana viene controbilanciato dal richiamo alla componente morale e civile.
A questo proposito, Bodei fa notare, ad esempio, che la ragione, per Leopardi, non dovrebbe limitarsi a constatare il solido nulla. A essa, al contrario, viene richiesto lo sforzo di farsi contaminare dal poetico per dar vita a un’ultrafilosofia che sia in grado di produrre un’alleanza solidale tra gli esseri umani. Con il richiamo alla nozione di ultrafilosofia, termine utilizzato solo una volta da Leopardi nello Zibaldone e fatto emergere con forza all’interno dell’analisi critica di Luporini, l’autore suggerisce la possibilità di trovare all’interno della visione leopardiana un antidoto al nichilismo. Una volta che l’indifferenza della natura è stata resa nota dalla ragione, spetterà alle nuove e benigne illusioni prodotte dalla poesia il compito di riunire gli esseri umani, portandoli ad assumere una postura dignitosa di fronte alla natura, che comunque è destinata a vincere e a sopraffarci, in un moto di solidarietà e non di orgoglio. Citando Bodei: «Leopardi non è perciò un “irrazionalista”, così come non è, per contro, un progressista” nel senso per noi tradizionale. E non è neppure, strettamente parlando, un “nichilista” (nel significato nietzschiano e post-nietzschiano del termine, secondo un accostamento costante, da Adriano Tilgher e Emanuele Severino)» (p. 12). Non resta allora che interrogarsi, in conclusione, su chi sia Leopardi per Bodei. A questo fine, ci richiamiamo ai versi conclusivi de La ginestra, a cui l’autore si richiama in quasi ogni saggio della raccolta:
[…] E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle,
né sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell’uom, quanto le frali
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Il ritratto di Leopardi che sembra restituirci Bodei appare, nel complesso, quello di un materialista cosmico, la cui prospettiva sull’esistenza risulta sempre tesa tra la prospettiva universale e dilatata, che il poeta assume come propria, e il dolore particolare e determinato, che ci accomuna tutti. Leopardi è descritto in queste pagine come un pensatore coraggioso, che non arretra di un passo, né contemplando l’inquietante vastità dell’universo, né al cospetto della crudeltà della condizione umana. Davanti alla constatazione della sterminatezza che ci avvolge, i mali che affliggono i mortali non divengono insignificanti ma, al contrario, emergono con forza ancor maggiore. La fragile ginestra che cresce sulle pendici del Vesuvio, d’afflitte fortune ognor compagna, diventa così emblema non solo dell’intera umanità, ma dello stesso poeta che, rifiutando sia l’arroganza della ragione che il disfattismo del nichilismo, si allea con i suoi simili.
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[1] Questi sono: Infinito e sublime in Leopardi; la lezione Oltre la siepe tratta dall’intervento tenuto da Bodei nel 2008 in occasione del Festival di Filosofia; Leopardi per Celli. Passione del presente, deficit di futuro, testo del 2015, e infine la relazione su La scoperta novecentesca del Leopardi filosofo elaborata come apertura al XIV Convegno internazionale di studi leopardiani nel settembre 2017.
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]]>Alla svolta del nuovo secolo la bibliografia secondaria sull’opera di Vincenzo Consolo si è particolarmente infittita. Volumi monografici, atti di convegno, fascicoli monografici di riviste, singoli articoli hanno contribuito all’analisi critica e alle esplorazioni filologiche, sempre più frequenti, dei testi consoliani. In mezzo a questa svariata produzione, di qualità mediamente molto alta, sta – come una boa di fondamentale importanza – il “Meridiano” L’opera completa (2015), curato da Gianni Turchetta con passione non inferiore alla competenza: un libro che ha reso disponibile, nei suoi apparati, una quantità mai prima raggiunta di informazioni biografiche, bibliografiche e filologiche, oltre a una lettura particolarmente persuasiva delle caratteristiche fondamentali dell’opera di Consolo e della sua centralità nella letteratura italiana del secondo Dopoguerra, affidata all’introduzione critica al volume. Questo panorama, decisamente incoraggiante, è arricchito dalla quantità e qualità di testimonianze amicali, tra le quali vanno ricordate almeno quelle di Sebastiano Burgaretta e di Corrado Stajano, e di adattamenti e riletture, in varie forme artistiche, delle sue opere – impossibile dimenticare, per la straordinaria suggestione poetica, la Lunaria (2014) in musica di Etta Scollo.
Detto questo, e avendo l’autore di questo libro già prodotto su Consolo una monografia risalente a una ventina d’anni fa e altri interventi successivi, sarebbe opportuno chiedersi se un libro come questo sia davvero utile, se aggiunga qualcosa al panorama appena tratteggiato. La risposta, al di là dell’inevitabile narcisismo autoriale, potrebbe essere “sì” soltanto nella misura in cui il taglio che ho voluto dare a questo nuovo libro riesca a essere coerente con un assunto: che le opere di Consolo comprese tra gli anni Novanta e la morte (2012) siano dotate di una peculiare capacità di parlare al lettore di oggi con intatta veridicità e particolare efficacia per il presente.
Ciò non vuol dire che le sue prime opere abbiano perduto valore: tutt’altro! La ferita dell’aprile (1963),romanzo d’esordio, rimane, a mio (e non solo mio) avviso,un’opera ancora da riscoprire e da sottrarre al coté tardo-neorealista nel quale è stata impropriamente arruolata; Il sorriso dell’ignoto marinaio (1976) è un capolavoro indiscusso che seppe rimettere in discussione e positivamente decostruire la tradizione del romanzo storico italiano; Lunaria (1985) è un’opera che, al di là delle apparenze rococò, rivela una notevole forza espressiva, da rileggere nell’àmbito di un’altra peculiare mitografia, per l’appunto di argomento lunare, alla quale ha apportato un contributo non sottovalutabile; Retablo (1987) è un altro capolavoro (forse non troppo amato dal suo autore e forse per questo un po’ trascurato da taluni studiosi) che andrebbe letto, oltre che per il suo specifico valore di testo perfettamente in bilico tra espressività linguistica e iconografica, inserendolo ai piani alti della breve stagione postmoderna della letteratura italiana (ipotesi storiografica per alcuni studiosi risibile ma per me molto seria, eppure da verificare con rigorosi supplementi d’indagine); Le pietre di Pantalica (1988) è una tappa importantissima, che rivela ormai la sua natura ancipite di raccolta di racconti ma anche di rielaborazione di un romanzo mancato, e che, forse proprio per questo, traghetta l’autore verso una stagione nuova che si apre, se la mia ipotesi è corretta, con gli anni Novanta.
Rimandando alle pagine successive per la parte analitica del mio ragionamento, si può qui alla svelta ricordare che, dagli anni Novanta in poi, testi come L’olivo e l’olivastro,del 1994(ma con anticipazioni significative presenti in Retablo e Le pietre di Pantalica), Nottetempo, casa per casa (1992), Lo Spasimo di Palermo (1998) e la costellazione di raccontini, articoli, brevi saggi e testi memoriali che sono stati, in parte, raccolti in Di qua dal faro (1999), La mia isola è Las Vegas (2012) e Cosa loro (2018), hanno consentito a Consolo di porsi in posizione di tempestiva e “militante” presenza, quando non di acutissima anticipazione, rispetto a fenomeni sociali di indiscutibile centralità, non soltanto nella vita pubblica italiana ma anche in quella internazionale (Consolo ha dimostrato un’attenzione agli scenari politici e culturali internazionali che, dopo la morte di Sciascia e Calvino, trova soltanto in Claudio Magris un possibile termine di paragone nella letteratura italiana di fine secolo): l’opzione netta per uno “sviluppo senza progresso” e le conseguenze visibili soprattutto in campo economico e ambientale, non disgiunte, talvolta, dal ritorno, o rigurgito, di facili soluzioni politiche affidate all’“uomo forte” di turno; l’oblio sistematico della memoria storica e della sensibilità linguistica che l’appiattimento sul presente della comunicazione telematica e la diffusione di basici e asettici linguaggi transnazionali hanno irrimediabilmente innescato; il picco di violenza raggiunto dal potere di Cosa Nostra e poi la sua non meno pericolosa sommersione, che implica il non mollare mai la presa rispetto ai gangli del potere politico ed economico; l’aumento esponenziale delle migrazioni in àmbito mediterraneo e la tragica diversità delle risposte che i governi hanno dato al dilagare del fenomeno.
Se la trattazione di tali temi fosse stata affrontata da Consolo con piglio meramente testimoniale, staremmo parlando di risultati non troppo diversi da quelli raggiunti da scrittori-giornalisti importanti come Alessandro Leogrande e Roberto Saviano; ma importa non dimenticare che mai, o quasi mai, il Consolo di questo ventennio estremo ha dismesso la sua inconfondibile vocazione a una scrittura che non soltanto si distaccasse sistematicamente dalla lingua d’uso ma che, per la sua natura “palinsestica”, si collocasse anche in una posizione critica e autocritica di continua rimessa in discussione dei fondamenti (stili, generi letterari, collocazione dell’intellettuale) che la tradizione letteraria italiana ha codificato.
In questo atteggiamento sta la fedeltà di Consolo a sé stesso, alle sue opere degli anni Sessanta-Ottanta e alla sua caparbia collocazione intellettuale “di opposizione”; ma è anche vero che, rispetto a quelle prime opere, in alcuni testi del suo ventennio estremo Consolo è riuscito, con difficoltà e con sofferenza, a dischiudere, sempre in letteratissima forma, talune significative feritoie su uno strato “rimosso” della sua storia personale e familiare. Se ne hanno cospicue testimonianze, che vanno interpretate con misura e sensibilità, soprattutto nei due romanzi Nottetempo, casa per casa e Lo Spasimo di Palermo. Ho provato a parlarne, sia pure non per primo ma – spero – con qualche non superflua aggiunta, e, così facendo, ho volutamente quasi trascurato, soprattutto nel saggio su Lo Spasimo di Palermo, altre importanti implicazioni (politiche, letterarie e di poetica) già molto esplorate dalla critica e che qui do, dunque, per acquisite.
Trattando, invece, delle componenti riconducibili al “rimosso” ho cercato di metterle in relazione con le peculiarità che si nascondono dietro stratificazioni mitografiche che hanno avuto principalmente a che fare con una problematica rielaborazione del mito ulissiaco: e va detto che anche nella riscoperta del poema omerico (ma anche della tradizione tragica greca) Consolo si è collocato in significativa sintonia con altri importanti esponenti della letteratura mondiale a cavallo dei due secoli.
Infine, poiché in tale ventennio di scritture consoliane il tema mediterraneo (di cui tratto nel primo e nel quinto saggio del libro) riveste una centralità assoluta, non è sembrato superfluo aggiungere, in appendice, un testo dedicato al tema del Mediterraneo nell’opera di Leonardo Sciascia, lo scrittore che Consolo ha riconosciuto, insieme a Lucio Piccolo, come il più importante tra i suoi “maestri”: un tema che in Sciascia non ha rivestito importanza centrale ma che, tuttavia, una sollecitazione dell’amico Luigi Cepparrone mi ha indotto a studiare (per parlarne in un convegno di cui non sono ancora stati pubblicati gli atti), raggiungendo qualche conclusione forse non priva di interesse e meritevole, mi sembra, di rientrare in questo volumetto, fosse pure per contrasto – ma anche con significative analogie.
[…]
Un’ultima considerazione: sebbene il terzo saggio del libro sia dedicato specificamente a Lo Spasimo di Palermo, temi e motivi di questo romanzo ricorrono anche negli altri saggi. Ciò dipende, certamente, dalle tante ragioni di carattere letterario che fanno di questo libro una tappa fondamentale (e quasi definitiva) nell’itinerario di Consolo e anche della letteratura italiana di fine secolo. Ma tale frequenza di riferimenti dipende anche da ragioni di carattere personale, valide per me e per non pochi siciliani della mia generazione, cresciuti nutrendosi, via via che apparivano, dei libri, degli articoli e delle interviste di Leonardo Sciascia, Gesualdo Bufalino e Vincenzo Consolo: ciascuno a suo modo, e in modi e tempi diversi (dovuti alle rispettive parabole esistenziali e alle umanissime scelte e contraddizioni proprie dell’essere umano), questi tre scrittori hanno accompagnato le disillusioni e le illusioni (in alterna vicenda) di una generazione di siciliani onesti (e perciò facili alle illusioni) che aveva fra i trenta e i quarant’anni alla fine del secolo e che si era nutrita, anche a distanza, dei riverberi di una stagione culturale e politica forse contraddittoria ma piena di fondate speranze nella possibilità di combattere con successo la mafia e i suoi inestricabili rapporti col potere politico ed economico. Soprattutto tra Palermo e Catania (ma con non trascurabili ricadute anche in qualche altra provincia siciliana), e quasi per un decennio, sembrò che la magistratura, le forze politiche (o alcune di esse), le forze dell’ordine, la chiesa cattolica, quella che si chiamava la “società civile”, i giornali e certe associazioni culturali di più o meno ampio respiro avessero finalmente stretto alleanze virtuose, mai prima concretamente sperimentate, conducendo una battaglia innanzitutto in campo culturale e sociale, ma anche politico, foriera di concreti successi.
Lo Spasimo di Palermo, con il suo timbro inequivocabilmente apocalittico, siglò nel 1998 il definitivo cadere di queste illusioni e, per questa generazione, anche la fine della giovinezza. Due ottimi motivi per essere mestamente affezionati a questo magnifico romanzo.
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]]>Il termine “alieno”, così caro alla fantascienza, significava in origine estraneo o straniero. Di derivazione latina (alienus), indica infatti una persona che non è residente o che è priva di cittadinanza. Di qui a parlare di alien races il passo è breve. In America, l’alieno è l’immigrato: si distingue tra legal alien (un non-cittadino con permesso di soggiorno), resident alien (un non-cittadino con residenza temporanea), non-resident alien (un non-cittadino in visita nel Paese per affari o cure mediche o altro), e illegal alien (un non-cittadino che è entrato nel Paese senza autorizzazione). A queste categorie si aggiunge quella degli enemy aliens, riconosciuti come nemici della nazione. La voce alien è riportata fin dai tempi del Devil’s Dictionary dello scrittore satirico americano Ambrose Bierce (1842-1914): “An American sovereign in his probationary state” [1]. Bierce, che non menziona direttamente i Marziani, inserisce nel suo libro un dialogo tra un Terrestrial e un Lunarian, ispirato a quanto afferma a un vecchio libro di cui dà titolo (The Lunarian Astonished), e riferimenti fittizi alla Boston del 1803 [2].
Come arriviamo, allora, all’uso del termine a indicare entità extraterrestri? Fin da tempi remoti l’immaginazione umana ha ipotizzato l’esistenza di creature provenienti da altri mondi o dimensioni parallele. L’idea di una somiglianza interplanetaria ha dato origine a varie teorie tra cui quella secondo la quale Marziani e Umani discenderebbero da un ceppo comune [3]. Il dibattito sui mondi abitati è stato vivace per secoli, implicando problematiche di tipo etico e costituendo per lungo tempo un nodo inestricabile a livello teologico. La teoria dell’esistenza di un’infinità di mondi è molto antica; nella civiltà occidentale risale agli atomisti greci, seguiti poi da Epicuro (341-270 a.C.); in epoca romana, Lucrezio (98/5 – 55/1 a.C.) aggiunge l’ipotesi della presenza della vita in essi. Mentre Aristotele (384-322 a.C.) si pronunciava contro la possibilità di altri mondi, Plutarco (46/8-125/7 d.C.) ne sarà un acceso sostenitore e in De facie in orbe Lunae si pone domande circa l’abitabilità del nostro satellite. Da Agostino (354-430) in poi si apre la discussione sul fatto che la teoria di mondi infiniti e abitati possa contraddire l’esistenza di un solo Dio onnipotente, minando così il dogma della Creazione; Tommaso d’Aquino (1225-1274) si esprime a favore della non contraddizione, ma sarà solo nella seconda metà del XIII secolo, grazie al vescovo di Parigi Etienne Tempier, che l’ipotesi limitativa secondo cui “the First Cause cannot make many worlds” inizierà a essere gradualmente abbandonata [4].
Sarà, in seguito, William of Ockham (1287-1347) ad ammettere la possibilità che Dio abbia creato altri mondi con elementi diversi da quelli conosciuti da Aristotele; Nicole Oresme (1323-1382) concederà che Dio nella sua onnipotenza abbia potuto fare altri mondi uguali o diversi dal nostro; e Cusano (1401-1464) abbraccerà decisamente l’idea che esistano altri mondi abitati, tutti originati da Dio e i cui abitanti hanno addirittura una natura più spirituale rispetto a quella dei terrestri [5]. Ci stiamo già avvicinando a una tipologia di Marziani che incontreremo in queste utopie: se Galileo Galilei (1564-1642) s’inserisce nella disputa sostenendo che non ci possono essere abitanti sui pianeti, se per abitanti intendiamo animali e uomini, è invece Giordano Bruno (1548-1600) a sostenere che “l’universo è infinito ed eterno e anche abitato” [6]. Keplero (1571-1630), che pure non condivide la visione infinitista di Bruno, parla di abitanti della Luna in Astronomiae Pars Optica (1604) e in Somnium (1608) e conserverà per tutta la vita l’idea che stelle e pianeti siano abitati da creature simili a noi, probabilmente di dimensioni gigantesche ma dotate di una breve vita, che avrebbero costruito città, fortificazioni e giardini.
Il dibattito sopra accennato è interessante non tanto per i suoi risvolti fisici o biologici quanto per le sue implicazioni teologiche e filosofiche, visto che rischia di mettere in discussione il posto privilegiato dell’uomo nell’universo, oltre che per il fatto che si svolge nell’arena internazionale e coinvolge diverse discipline umanistiche e scientifiche. I romanzi qui presentati, pur rivolgendosi a un ampio pubblico come tutte le storie di fantasia e le utopie, dimostrano una conoscenza non superficiale sia delle scoperte scientifiche sia del background filosofico e culturale. Si collocano dunque a pieno titolo tra le opere significative del loro tempo, un trentennio molto importante negli Stati Uniti a livello sociale e politico, visto che tra i temi dibattuti vi sono le politiche di accoglienza degli emigrati dall’Europa e dall’Asia, il suffragio universale, una nuova agenda economica per il Paese. L’incontro con l’Altro si esplica dunque in una cornice particolarmente “calda”, e trascina sul campo stereotipi e pregiudizi accanto alle rivendicazioni civili e sociali. Faremo in modo di osservare tutte le caratteristiche di questi incontri, ma va fatta una premessa: i sentimenti spesso legati all’alterità – paura, ribrezzo, angoscia, insomma le reazioni riguardanti l’alterità vissuta come problematica – sono dei tutto assenti da queste narrazioni. È importante sottolinearlo, perché si tratta una stagione che non si ripeterà, e che lascerà invece spazio all’orrore e al mostruoso. La paura dell’Altro in quanto diverso da noi (Jacques Lacan), così come l’angoscia dell’estraneo (René Spitz), sono quasi assenti in questi volumi, che al massimo potranno trasmetterci un senso di spaesamento heideggeriano [7].
Per Kristina Maria Doyle Lane, che nel 2006 individua nelle rappresentazioni marziane della narrativa americana di fine Ottocento-primi Novecento un’importante specificità rispetto non solo a quelle britanniche e generalmente europee, ma anche rispetto al darwinismo sociale e all’Orientalismo:
Le rappresentazioni dominanti della cultura marziana sono state influenzate dalla filosofia del darwinismo sociale e dalla tradizione orientalista della scrittura geografica sull’Altro non- occidentale. Allo stesso tempo, però, la costruzione di un Marziano superiore, nei testi come nelle immagini sia scientifiche sia popolari, indica che il discorso su Marte si discostava in modo significativo dalla scrittura convenzionale relativa al mondo terrestre. I Marziani erano tipicamente rappresentati come più intelligenti, più organizzati, più pacifici e tecnologicamente più avanzati degli umani. Tuttavia, pubblici diversi risposero a questo nuovo fenomeno in modi diversi, il che suggerisce che il contesto nazionale ha avuto un impatto significativo sulla produzione, il consumo e la circolazione delle geografie marziane. Mentre il pubblico britannico fu estremamente cauto nelle sue reazioni alla teoria di Marte abitato, ad esempio, il pubblico americano accolse con entusiasmo il ritratto extraterrestre delineato da Lowell e dai suoi sostenitori. […] la disponibilità americana a considerare il Marziano superiore, alla stregua di un mentore non pericoloso, riflette una più ampia riformulazione dell’incontro americano con l’Altro. Il discorso marziano, infatti, riflette un orientalismo americano che si differenzia dalla costruzione europea per la mancanza di paura, la prevalenza dell’ottimismo e l’attenzione alla scienza e alla tecnologia come mediatrici culturali. [8]
L’incontro americano con l’Altro risulta legato anche alla Progressive Era:
L’incontro americano con l’Altro fu quindi più ottimista e meno timoroso quello europeo, il che spiega forse perché la mania di Marte ebbe una risonanza molto più forte presso il pubblico americano. Fondendo una tranquilla curiosità scientifica con la sua visione politica progressista, Lowell creò un Altro marziano che implicava un enorme squilibrio di potere, ma che non ispirava alcun panico reale. […] L’elemento più importante delle rappresentazioni culturali di Marte risiedeva nella loro capacità di riformulare l’incontro dell’Occidente con il suo Altro culturale. La proiezione di esseri intelligenti su Marte si rifaceva in qualche modo alla tradizione orientalista di rappresentare il Medio Oriente come l’opposto polare dell’Europa. Tuttavia, nello stabilire una potente geografia immaginaria per Marte, molti scrittori hanno riformulato con entusiasmo il paragone, presentando la civiltà marziana come superiore alle culture occidentali della Terra. [9]
2. Creature diverse – anzi, no, uguali
In Journey to Mars di Gustavus W. Pope (1894) i Marziani sono suddivisi in tre razze (Rossi, Gialli e Blu) e la loro società è di tipo feudale, con duelli che anticipano quelli dei romanzi di Burroughs, ma hanno una tecnologia avanzata che comprende ethervolt cars e anti-gravity aircraft, nonché strumenti di comunicazione che sono gli antesignani della televisione e del videotelefono. Troviamo anche un mago marziano, che è telepatico, invoca gli spiriti e legge il futuro dell’eroe. Più interessante e articolato è il caso in cui incontriamo indirettamente non una, bensì due creature molto diverse da noi: si tratta del romanzo di James B. Alexander The Lunarian Professor (1909), dove prima facciamo la conoscenza del professore del titolo, “a more remarkable creature I never read about or dreamed about” [10], poi lo ascoltiamo descrivere un Marziano. Iniziamo col Lunariano. Non solo è provvisto di varie paia di ali, ma,
In aggiunta a queste ali, c’erano altri sei arti, due dei quali erano gambe e due braccia, […] Gli ultimi due arti erano attaccati al torace a un’altezza intermedia fra le braccia e le gambe, e stavano incrociate sul torace. Giunsi alla conclusione che questi ultimi potevano essere usati come gambe o come piedi a seconda di quanto richiedesse l’occasione […] La testa era immensa, tale da possedere probabilmente una capacità doppia rispetto alla testa umana più grande. La parte superiore era a forma di globo, e la parte inferiore, che si sarebbe potuta chiamare il viso, era allungata e a forma di cuneo, affusolandosi verso la mascella. […]. Non aveva il mento. Gli occhi stavano subito sopra la bocca. [11]
La comunicazione inizia in inglese per passare poi a una forma di telepatia:
Quando mi rivolsi a lui, parlai in inglese articolando bene le parole e lui parve capirmi come chiunque altro. Ma i suoi pensieri arrivarono a me come onde o pulsazioni come se mi fossero state iniettate fisicamente nel cervello senza che io me ne accorgessi o provassi alcuna sensazione. In breve, giunsi a percepire che si trattava di una trasmissione telepatica di idee. [12]
Solo in un secondo momento il narratore apprende la provenienza del professore alieno: “‘La mia patria è la Luna”, disse lui senza scomporsi
Dopo questa presentazione e alcuni capitoli di spiegazioni e informazioni di vario tipo, arriva il momento di descrivere i Marziani, con cui i Lunariani hanno rapporti da più di 10.000 anni, cioè da quando erano un popolo guerriero (ora non più):
Devono assomigliare alla nostra razza, allora,” osservai.
“Sì,” replicò, “per quanto riguarda i loro istinti bellici, ma non per l’aspetto fisico. Non sono né umani né vertebrati, ma sono costruiti a pianta radiata. In breve, sono quasi esattamente come le vostre stelle marine, ma enormemente più grandi. […] C’è un disco di carne all’estremità di ogni arto, attorno al quale, come i petali di un fiore, ci sono le dita dei piedi, come tanti pollici. […] Quando si muovono sulla terraferma è sempre in posizione eretta, e rotolano in senso longitudinale come una ruota priva della parte esterna che rotola sulle estremità dei raggi. Il pezzo centrale o mozzo costituisce il corpo, che comprende lo stomaco, il cuore, i polmoni, ecc. La forma del corpo è quella di un cilindro corto e robusto che si assottiglia a una punta arrotondata a ogni estremità, con un diametro che va da un metro e mezzo a due metri, e le gambe che si irradiano dai lati. Al centro di un’estremità del corpo si trova la bocca, e il cervello è collocato tutto intorno a essa in quelle che noi chiamiamo guance. Non c’è collo. Immediatamente intorno alla bocca ci sono sei occhi, in corrispondenza con le sei gambe, e appena fuori dagli occhi ci sono sei buchi che fungono da orecchie: hanno una specie di palpebre, ma sono prive di padiglioni esterni. Fuori ci sono sei fori per la respirazione che portano ai polmoni. La bocca è rotonda e le labbra si increspano quando si chiudono. L’uomo marziano non ha un alto o un basso, sta in piedi ugualmente bene su qualsiasi paio di gambe e usa ugualmente bene qualsiasi mano, e questo è uno dei suoi maggiori svantaggi. […] quando il Marziano ha voglia di farlo, può camminare benissimo di lato su due gambe, cioè con la testa o la bocca in avanti. [14]
Il professore insiste sugli insegnamenti che i Marziani avrebbero ricevuto nel corso dei secoli dai più civili Lunariani: “They have plenty of iron on Mars and our folks taught them how to smelt and work it” [15]. Quanto ai dubbi che il narratore esprime circa la possibile intelligenza di queste creature, gli vengono fugati in questo modo:
“L’intelligenza”, spiegò il professore, “non dipende dalla forma. Qualsiasi forma su cui le energie dell’ambiente, come la luce, il calore, il contatto, ecc. possano esercitare un’impressione, è già intelligente; la capacità di essere impressionata è intelligenza. Se un organismo può essere impressionato, se gli si dà abbastanza tempo, può essere impressionato all’infinito, perché ogni impressione lo differenzia e aumenta la sua sensibilità, cioè la sua capacità di essere ulteriormente impressionato. Il motivo per cui le razze inferiori rimangono generalmente inferiori è la gelosia e l’ostilità dei superiori. La razza dominante è sempre ostile a qualsiasi altra razza che mostri un minimo di intelligenza e procede a ucciderla subito, per paura che diventi una rivale. È così che la razza dell’uomo non ha rivali che si confrontino con lui in termini di intelligenza, nessun ‘anello di congiunzione’ tra lui e le scimmie. Era geloso di loro e le ha sterminate.” [16]
Questo accenno alle “razze inferiori” e in particolare alle scimmie ribadisce il posto dell’uomo in una evidente gerarchia di tipo creazionista. L’importanza dell’ambiente, invece, anticipa le teorie dell’umwelt e dell’ecologia cognitiva, che pongono in primo piano le relazioni antropiche e mettono l’intelligenza del singolo in correlazione con l’ambiente specifico di appartenenza. In questo contesto, il professore lunariano funziona da anello di congiunzione fra i terrestri e i Marziani e quasi da mediatore culturale. Nel capitolo successivo impariamo che anche i famosi canali sono stati costruiti con l’aiuto dei Lunariani, i quali hanno investito molto denaro ed energia per opere d’ingegneria marziana. Il testo rivela numerosi spunti interessanti, quali la descrizione del regime (che è monarchico), della religione, del modo di baciarsi, e così via, anche se in queste parti risulta piuttosto in linea con i modelli della narrativa utopica convenzionale e non sempre innovativo. Torneremo su questo nell’ultimo capitolo.
Anche in To Mars via the Moon di Mark Wicks (1911) forma e intelligenza sono affrontate insieme, questa volta nella prefazione dell’autore:
Sebbene nessuno possa affermare con certezza che gli abitanti intelligenti di Marte non possiedano corpi simili al nostro, è molto probabile che siano completamente diversi da noi e che possano avere forme che a noi appaiono strane e bizzarre. Tuttavia, ho preferito dotare i marziani di corpi simili ai nostri, ma glorificati nella forma e nelle caratteristiche. I poteri attribuiti ai marziani sono in realtà mere estensioni di poteri che alcuni di noi sostengono di possedere, e restano comunque al di sotto di quelli che più di uno scrittore scientifico moderno ha previsto come possibili in un futuro non molto lontano
Forma e intelligenza, dunque, non bastano a garantire la giusta percezione dell’identità, sia la nostra, sia quella altrui: serve un’estensione delle facoltà mentali, di quelle stesse energie psichiche che molti scienziati o paseudoscienziati sostengono di avere (o di cui non negano l’esistenza). Soprattutto la frase finale della citazione è importante nell’ambito del tema di questo capitolo, in quanto ci fa apparire l’Altro come superiore a noi, ma ci promette allo stesso tempo che anche noi – con forme diverse dalle sue, ma non troppo – potremo raggiungere il suo stesso livello di intelligenza. Il Marziano diventa dunque lo specchio in cui noi non vediamo più l’Altro, ma noi stessi proiettati nel futuro grazie alla scienza.
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[1] A. Bierce, The Devil’s Dictionary (1881-1906), in https://www.gutenberg. org/files/972/972-h/972-h.htm (07/09/2023): Un illustre americano nel suo periodo di prova. (AC)
[2] A. Calanchi, Marziani a stelle e strisce, cit.
[3] H. Brennan, Martian Genesis: The Extraterrestrial Origins of the Human Race, Dell, New York 2000.
[4] M.J. Crowe, The Extraterrestrial Life Debate 1750-1900, Cambridge UP, Cambridge (UK) 1986, p. 6: La Causa Prima non può creare molti mondi. (AC)
[5] Ivi, pp. 7-8.
[6] A. Fantoli, Extraterrestri. Storia di un’idea dalla Grecia a oggi, Carocci, Roma 2008, p. 48.
[7] Concetti citati e rielaborati in M. G. Eusebio, Introduzione e capitoli 4.7 e 6.3 in Il problema dell’altro. Psicologia dei media tra identità e alterità, pp. 9-21, 123-125, 158-160. È interessante notare come gran parte delle considerazioni dell’autore si possano applicare anche all’ambito dell’utopia (che dopo tutto è un medium letterario di grande valenza simbolica).
[8] K.M. Doyle Lane, op. cit., pp. 14-15
[9] Ivi, pp. 201-202
[10] J.B. Alexander, The Lunarian Professor and His Remarkable Revelations Concerning the Earth, the Moon and Mars, Minneapolis, Minnesota 1909. https://www.gutenberg.org/files/60059/60059-h/60059-h.htm#Page_225 (07/09/2023).
[11] Ivi, Chapter II
[12] Ivi, Chapter II
[13] Ivi, Chapter II
[14] Ivi, Chapter II
[15] Ivi, Chapter XIII:
[16] Ivi, Chapter XIII
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Lo stesso Karl Popper, nel suo ultimo libro prima della sua scomparsa pubblicato nel 1994, proponendo la sua riflessione sulla storia e sulla politica, non ha remore – lungi dal cinismo e dal materialismo storico, come pure dalla lettura di Fukuyama – ad affermare ottimisticamente che nel mondo in cui vi viviamo «ci va meglio non solo economicamente, ma siamo migliori anche moralmente» (Popper, K. R., Tutta la vita è risolvere problemi, in Id., Tutta la vita è risolvere problemi. Scritti sulla conoscenza, la storia e la politica, CDE, Milano, 1998, p. 234) e che «in Occidente, attualmente viviamo nel migliore mondo sociale che sia mai esistito» (Id., Contro il cinismo nell’interpretazione della storia, in Id., cit., 250). E anche lo storico marxista Eric Hobsbawm, in un volumetto uscito proprio alla fine degli anni Novanta, ammette che l’ultimo decennio del Novecento, in cui si è giunti a un generale miglioramento di molte condizioni socio-culturali, prefigurava l’aspettativa di una situazione del XXI secolo in cui il grado di felicità degli essere umani poteva crescere grazie alla progressiva emancipazione dell’umanità dal dominio dell’indigenza (si veda Hobsbawm, E. J., L’homo globalizatus, in Id., Intervista sul nuovo secolo, a cura di Polito, A., Laterza, Roma-Bari, 1999, specialmente p. 107).
Non è più davvero il tempo delle ideologie e va sistematizzandosi sempre più la posizione dell’informatica con le prime sommarie forme di diffusione di internet, mentre le dinamiche di privatizzazione e deregolamentazione prendono sempre più piede. L’unico modello di vita divenuto plausibile è quello occidentale, o meglio americano (si veda l’utile lettura critica di Calvo-Platero, M. Calamandrei, M., Il modello americano, Egemonia e consenso nell’era della globalizzazione, Garzanti, Milano, 1996).
L’ultimo scorcio del secolo, orientato a una ristrutturazione spazio-temporale che segna la tendenziale depoliticizzazione delle relazioni sociali a favore di un approccio tecnocratico, aprendo un orizzonte “tecno-nichilista” (per una lettura critica in tal senso si rimanda a Magatti, M., Libertà immaginaria. Le illusioni del capitalismo tecno-nichilista, Feltrinelli, Milano, 2009), è dunque già sostanzialmente globalizzato e imperniato sulla prospettiva del liberalismo, tuttavia, e questo è il punto interessante da notare, questa condizione, probabilmente perché proprio in uno stadio ancora tutto sommato iniziale, in cui gli echi delle evoluzioni e delle tradizioni novecentesche erano vividi, si configurava in una modalità per così dire più misurata, meno ossessiva, rispetto a quanto poi si determinerà nei primi due decenni del XXI secolo e ancor più nell’ultimo quindicennio. Sia chiaro, gli anni Novanta comportano già una società dello spettacolo, dei consumi, dell’apparenza, dell’individualismo, e determinano già una società de-ideologizzata in cui i limiti nazionali sono già diventati porosi, ma i vari contesti culturali, politici, comunicativi, sociali riescono ancora a conservare alcuni elementi tipici dello Zeitgeist del secolo breve.
Dal punto di vista politico l’Occidente e gli USA restano dominanti e inattaccabili, solo dall’11 settembre 2001 (con l’attentato culminato nel crollo delle Twin Towers di New York) la situazione cambierà e il terrorismo internazionale più volte in seguito mostrerà marcatamente i suoi effetti devastanti; inoltre, la generale disaffezione per la politica presente nell’Occidente dell’ultimo scorcio del Novecento non ha ancora portato le derive massicciamente populiste cui oggi siamo abituati. Molto banalmente, anche diversi processi culturali e comunicativi, pur sempre più influenzati dalle logiche di profitto e mediatiche, conservano alcuni standard tradizionali: basti pensare a sport come il calcio e la Formula 1, tradizionalmente seguiti dalle masse, che non hanno ancora conosciuto tutti gli stravolgimenti del XXI secolo, nella loro impostazione e nella loro fruizione, che li avrebbero condotti del tutto nell’alveo del business dello spettacolo e dello sfruttamento pubblicitario; oppure si può pensare alla situazione delle serie televisive: in questo periodo ci sono già titoli che appassionano i fan (tanti ricorderanno i casi di Friends o X-files, per fare esempi divenuti iconici) in modo molto più coinvolto di quanto succedeva con i telefilm di dieci o vent’anni prima, ma di certo non si è ancora nella condizione di maree di titoli proposti continuamente come avviene oggi attraverso Amazon o Netflix. Lo stesso individualismo generalizzato, che caratterizzava le società avanzate di quell’epoca, non era sollecitato dalle dinamiche di internet e dei social media (invasi dalle figure degli influencer) che avrebbero preso piede dopo i primi anni del XXI secolo.
Stanti queste condizioni generali, qui solo marginalmente toccate, si comprende forse meglio l’illusione delle visione politica degli anni Novanta: certamente la fine delle dittature dell’est Europa, la libera circolazione che ne derivò, l’idea dell’accesso illimitato a beni, servizi e persone, intrecciato alla dimensione informatica che le tecnologie permettevano, il volto quasi salvifico che molti scorgevano nella globalizzazione, portavano a una valutazione del canone del liberalismo divenuto trionfatore di cui non si coglievano ambiguità e possibili coni d’ombra. Del resto le dialettiche liberalismo-socialismo, mercato-pianificazione, parevano chiaramente risolte, perché la storia stessa aveva dato molti responsi pratici in merito, in modo peraltro assai macroscopico e la filosofia politica più accademica sviluppava in quel momento le sue categorie attraverso il ricorso alle teorie di John Rawls (si vedano soprattutto Rawls, J., Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano, 2008 e Id., Liberalismo Politico, Comunità, Milano, 1993) o Friedrich Hayek (si veda soprattutto Hayek, F., Legge, legislazione libertà, Il saggiatore, Milano, 2000), o al limite di uno Jürgen Habermas (si veda Habermas, J., Fatti e norme. Contributi a una teoria discorsiva del diritto e della democrazia, Guerini e associati, Milano, 1996), che dopo la svolta linguistica giunge a un approccio normativo, che molti critici vedono distante dalle istanze della Scuola di Francoforte in cui egli si era formato.
E allora quale sguardo volgere agli anni Novanta? Quale deve essere la valutazione più corretta del loro immaginario politico-sociale, agli occhi degli abitanti della società del XXI secolo che oggi viviamo? Nell’approcciare simili questioni senza cadere in retoriche o polemiche infruttuose, è importante comprendere che si deve certamente tenere presente l’abbaglio della fine della storia e non scivolare nelle ingenue nostalgie del passato, ma si deve anche avere l’accortezza di notare, che forse, per loro particolare congiuntura storica, gli anni Novanta sperimentarono la forma meno corrosiva del liberalismo globalizzato, un liberalismo che, in quell’epoca, sebbene progressivamente influente e senza più avversari, non era ancora debordato come nella fase attuale (appunto ormai definita proprio “neoliberale”), perché agli uomini appariva come una teoria vincente, molto più che come il dogma che sotto molti aspetti oggi invade, a volte anche sfacciatamente, ogni forma di esistenza e sancisce, per dirla con uno dei maggiori intellettuali critici attuali, Slavoj Žižek, una condizione, culturalmente e politicamente, “post umana”(si veda in merito Žižek, S., Come un ladro in pieno giorno. Il potere all’epoca della postumanità, Ponte alle Grazie, Milano, 2019).
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]]>Possiamo rivolgere il nostro sguardo verso la storia delle idee in avanti o all’indietro: possiamo rintracciare gli stadi primitivi, gli indizi, le anticipazioni di ciò che pensiamo adesso; o possiamo concentrarci sull’evoluzione, gli effetti e le influenze di ciò che pensavamo un tempo. In ambedue i casi, possiamo immaginare che la storia ci venga rivelata come un continuum, un progresso, uno sbocciare simile a quello dell’albero della vita. Ciò che spesso si incontra, tuttavia, è molto distante da un maestoso dispiegamento e da ogni senso di continuità. Si tratta di una conclusione che tenterò di illustrare mediante alcune storie (che sarebbero potute diventare centinaia) le quali narrano di quanto strano, complesso, contraddittorio e irrazionale sia il processo della scoperta scientifica. Eppure, al di là delle tortuosità e degli anacronismi nella storia della scienza, al di là delle vicissitudini e degli accidenti, esiste forse un disegno generale che è possibile discernere. Ho cominciato a rendermi conto di quanto elusiva possa essere la storia della scienza in occasione dell’incontro col mio primo amore, la chimica.
Ho un ricordo vivace di quando, da ragazzo, leggendo una storia della chimica di F.P. Armitage, che in precedenza aveva insegnato nella mia scuola, imparai che l’ossigeno era già stato praticamente scoperto intorno al 1670 da John Mayow, insieme a una teoria della combustione e della respirazione. Ma l’opera di Mayow fu poi dimenticata e resa invisibile da un secolo di oscurantismo (e dall’illogica teoria del flogisto), e l’ossigeno fu riscoperto solo cent’anni dopo, da Lavoisier. Mayow morì a trentaquattro anni: “Se fosse vissuto solo qualche anno in più,” aggiunge Armitage “difficilmente si può dubitare che avrebbe anticipato l’opera rivoluzionaria di Lavoisier, e soffocato sul nascere la teoria del flogisto”. Si trattava di un’idealizzata esaltazione di John Mayow, di un’interpretazione romanticamente errata dell’impresa scientifica, o davvero la storia della chimica sarebbe potuta essere radicalmente diversa, come Armitage suggerisce?
Mi ricordai di questa storia a metà degli anni Sessanta, quando ero un giovane neurologo sul punto di cominciare a lavorare in una clinica che si occupava del mal di testa. Il mio lavoro consisteva nel fare una diagnosi (emicrania, cefalea tensiva, o altro) e nel prescrivere una cura. Ma io non riuscivo mai a limitarmi a questo, né ci riuscivano molti dei pazienti che incontravo. Spesso mi raccontavano altri fenomeni, oppure io stesso li osservavo: fatti che erano motivo a volte di angustia, a volte di curiosità, ma che non facevano strettamente parte del quadro medico, o perlomeno non erano necessari per esprimere una diagnosi.
Spesso nell’emicrania classica appare al paziente una cosiddetta aura, in cui i soggetti possono vedere zig zag scintillanti che attraversano lentamente il campo visivo. Essi sono stati ben descritti e compresi. Ma talvolta, più raramente, i pazienti mi raccontavano di schemi geometrici più complessi che apparivano in sostituzione o in aggiunta agli zig zag: reticoli, spirali, vortici e ragnatele, tutti in costante movimento, rotazione e modulazione. Consultando la letteratura scientifica corrente non riuscii a trovare alcuna menzione di tali fenomeni. Stupito, decisi di indietreggiare e di cercare nei resoconti del diciannovesimo secolo, che tendono a essere molto più pieni, più vivaci e descrittivamente più ricchi di quelli moderni.
La mia prima scoperta ebbe luogo nella sezione della biblioteca del nostro college dedicata ai libri rari (tutto ciò che era stato scritto prima del 1900 veniva considerato “raro”): uno straordinario testo sull’emicrania scritto da un medico vittoriano, Edward Liveing, intorno al 1860. Aveva un lungo, meraviglioso titolo: On Megrim, Sick-Headache, and Some Allied Disorders: A Contribution to the Pathology of Nerve Storms (Sull’emicrania, i dolori di testa e alcuni disturbi collaterali: un contributo alla patologia degli attacchi nervosi), ed era un libro dal carattere grandioso e tortuoso, chiaramente scritto in un’epoca molto più discrezionale e meno rigidamente vincolata della nostra. Si occupava brevemente dei complessi disegni geometrici che mi erano stati descritti, e mi rimandava a una relazione di alcuni anni prima, On Sensorial Vision di John Frederick Herschel, figlio di Frederick Herschel (tanto il padre quanto il figlio, oltre a essere eminenti astronomi, soffrivano di emicranie “visive” e ne scrissero). Sentivo di aver finalmente colto nel segno. Herschel figlio forniva meticolose, accurate descrizioni di quegli stessi fenomeni che i miei pazienti avevano vissuto; li aveva sperimentati lui stesso e si era avventurato in alcune profonde speculazioni riguardo alla loro possibile natura e origine. Pensava che potessero rappresentare “una specie di potere caleidoscopico” del sensorio, un potere generativo primitivo, pre-personale della mente, gli stadi più antichi della percezione, forse addirittura i suoi precursori.
Non riuscii a trovare alcuna descrizione adeguata di tali “spettri geometrici”, come li chiamava Herschel, nell’intero periodo di cento anni trascorso tra le sue osservazioni e le mie, eppure per me era evidente che almeno una persona affetta da emicrania su venti li sperimentava occasionalmente. Come avevano potuto questi fenomeni, questi disegni sorprendenti, estremamente caratteristici e senza dubbio allucinatori, sfuggire così a lungo all’individuazione? Per prima cosa, era necessario che qualcuno li osservasse e li riportasse. Nello stesso anno in cui Herschel riferiva dei suoi spettri, G.B.A. Duchenne, in Francia, descriveva un caso di distrofia muscolare. Ma qui le due storie divergono. Non appena le osservazioni di Duchenne furono pubblicate, i medici cominciarono a “vedere” la distrofia ovunque, e nel giro di pochi anni centinaia di altri casi furono riferiti e descritti. Il disturbo era sempre esistito, ubiquo e inequivocabile. Perché abbiamo avuto bisogno di Duchenne per aprire gli occhi? Le sue osservazioni entrarono all’improvviso nella percezione clinica corrente come una sindrome, un disturbo di grande importanza.
La relazione di Herschel, al contrario, affondò senza lasciare traccia. Egli non era un dottore che compiva osservazioni mediche, ma un osservatore indipendente di grande curiosità. Si considerava un astronomo anche per quanto riguardava le proprie allucinazioni, e in effetti si definiva “un astronomo interiore”. Herschel sospettava che le proprie osservazioni avessero importanza scientifica, e che tali fenomeni potessero condurre verso importanti deduzioni sul cervello, ma non prese in considerazione il fatto che potessero avere anche un’importanza medica. Poiché l’emicrania viene solitamente definita come una condizione “medica”, le osservazioni di Herschel erano prive di status professionale; furono considerate irrilevanti, e dopo una breve menzione nel libro di Liveing furono dimenticate, ignorate dagli addetti. Se dovevano indicare la via verso nuove idee scientifiche sulla mente e sul cervello, non c’era modo di operare le necessarie connessioni nel 1850; i concetti indispensabili emersero unicamente centoventi anni dopo.
Tali concetti indispensabili emersero congiuntamente ai recenti sviluppi della teoria del caos, la quale dimostra che, pur essendo impossibile predire in dettaglio la disposizione individuale di ciascun elemento disturbo era sempre esistito, ubiquo e inequivocabile. Perché abbiamo avuto bisogno di Duchenne per aprire gli occhi? Le sue osservazioni entrarono all’improvviso nella percezione clinica corrente come una sindrome, un disturbo di grande importanza. La relazione di Herschel, al contrario, affondò senza lasciare traccia. Egli non era un dottore che compiva osservazioni mediche, ma un osservatore indipendente di grande curiosità. Si considerava un astronomo anche per quanto riguardava le proprie allucinazioni, e in effetti si definiva “un astronomo interiore”. Herschel sospettava che le proprie osservazioni avessero importanza scientifica, e che tali fenomeni potessero condurre verso importanti deduzioni sul cervello, ma non prese in considerazione il fatto che potessero avere anche un’importanza medica. Poiché l’emicrania viene solitamente definita come una condizione “medica”, le osservazioni di Herschel erano prive di status professionale; furono considerate irrilevanti, e dopo una breve menzione nel libro di Liveing furono dimenticate, ignorate dagli addetti. Se dovevano indicare la via verso nuove idee scientifiche sulla mente e sul cervello, non c’era modo di operare le necessarie connessioni nel 1850; i concetti indispensabili emersero unicamente centoventi anni dopo.
Tali concetti indispensabili emersero congiuntamente ai recenti sviluppi della teoria del caos, la quale dimostra che, pur essendo impossibile predire in dettaglio la disposizione individuale di ciascun elemento in un sistema, quando milioni di elementi interagiscono tra loro (come, per esempio, nel caso dei milioni di cellule nervose nella corteccia visiva primaria) è possibile discernere schemi a un livello superiore, utilizzando recenti metodi di analisi matematica e calcolo numerico. Esistono “comportamenti universali” che emergono in interazioni di questo tipo, comportamenti che rappresentano le modalità in cui simili sistemi dinamici e non lineari organizzano sé stessi. Essi tendono ad assumere la forma di schemi complessi e iterativi nel tempo e nello spazio, cioè proprio quel tipo di reticoli, spirali, vortici e ragnatele che si vedono nelle allucinazioni geometriche dell’emicrania.
Tali comportamenti caotici sono stati ormai riconosciuti in un ampio spettro di sistemi naturali, dai moti eccentrici di Plutone ai singolari disegni che appaiono nel corso di determinate reazioni chimiche, alla moltiplicazione delle muffe e ai capricci del tempo. Di conseguenza, un fenomeno finora insignificante o trascurato come i disegni geometrici dell’aura dell’emicrania assume improvvisamente una nuova importanza. Ci mostra, nella forma di una visione allucinatoria, non solo l’attività elementare all’interno della corteccia cerebrale, ma un intero sistema organizzato, un comportamento universale all’opera.
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]]>Marco Anzoletti nasce a Trento il 4 giugno 1867 in una famiglia dedita alla musica e alla cultura. Suo padre, Luigi, suonava il violoncello per diletto, e Marco ricorderà sempre con grande nostalgia, nelle sue lettere, il piacere del far musica in casa. I primi Anzoletti musicisti affermati furono i suoi zii, Giuseppe (violinista, direttore e compositore) e Francesco (pianista, organista e compositore). Marco è il secondogenito dopo Luisa, nata il 9 aprile 1863, destinata a divenire poetessa, conferenziera e pubblicista impegnata in molteplici campi, da quello nazionalista e irredentista a quello di emancipazione della donna in un’ottica fortemente cristiana (uno dei titoli dei suoi saggi dice tutto sulla devozione più grande sentita e praticata dalla famiglia Anzoletti: La fede nel soprannaturale e la sua efficacia sul progresso della società umana). Luisa studierà anche pianoforte e diverrà una pianista capace di accompagnare il fratello in tournée, ma colui che tra i due farà della musica una professione, sia come concertista e compositore sia come didatta, sarà il fratello: dopo il diploma al Regio Conservatorio di Milano, dove, oltre al violino, studia composizione con Gaetano Coronaro, Cesare Dominicetti e il più noto Amilcare Ponchielli, e dopo essersi perfezionato nello strumento a Vienna, Marco ottiene, giovanissimo, la cattedra di Violino nel conservatorio dove si era formato, subentrando al suo Maestro, Gerolamo De Angelis. Al “Verdi”, il Professor Anzoletti insegnerà fino al 1928. Studieranno alla sua scuola, confluita anche in opere didattiche per violino e viola tuttora utilizzate nei conservatori, una nutrita schiera di valentissimi strumentisti, sia uomini sia donne. L’affetto, direi quasi la venerazione per il Maestro traspare in commoventi lettere a lui indirizzate dai suoi studenti perfino dal fronte della Grande Guerra.
È tra Milano e Trento, più precisamente la collina a est della città, Mesiano, nella casa di famiglia denominata Villa Rosa (dal nome della mamma, Rosa Lutterotti), che Marco passa la sua vita e svolge la sua attività. Lo seguiranno presto nella grande città sia i genitori sia la sorella, con la quale vive quasi in simbiosi. Morirà a Mesiano nel 1929, quattro anni dopo Luisa, che era nata quattro anni prima di lui. Insisto non a caso sul rapporto di Marco con la sorella. Molte delle liriche sulle quali basa le sue arie vocali da camera sono infatti poesie di Luisa Anzoletti. Desidero citare per prima Preghiera di maggio, scritta il “15 marzo 1915” ossia durante il tumultuoso primo anno della Grande Guerra (tumultuoso soprattutto in Trentino, allora sotto il dominio austriaco) come preghiera per la pace, una pace di cui c’è quanto mai bisogno anche oggi. Ma ho potuto attribuire a Luisa anche un’altra lirica che, allo stato attuale, non era meglio precisata nelle schede bibliografiche, una Barcarola che si trova nella silloge della poetessa intitolata Vita. Nuove liriche (Bologna, Zanichelli, 1904). Pervasiva, tuttavia, era l’influenza di Luisa per le scelte e l’interpretazione dei testi poetici e letterari da parte di Marco. D’altronde, Luisa Anzoletti era letterata riconosciuta, e sue liriche vennero prescelte anche da vari altri compositori, come Raffaele Bazzigotti, Vincenzo Billi, Mario Ferrari, Giovanni Battista Meiners, Michele Saladino e Alfredo Sangiorgi, oltre che da una compositrice, Elisabetta Oddone. Parlando di sensibilità poetica femminile, una sensibilità ancora oggi tutta da scoprire, si rivelano particolarmente profonde due arie di Marco incluse in questo disco – L’Ora e Bacio morto –basate su versi (da Tempeste, 1895) di un’altra poetessa italiana che scende, tra le prime, negli abissi della psiche, Ada Negri. Benché non risuoni in questo disco, voglio citare qui il verso icastico con cui si spalanca un’altra sua poesia della stessa silloge, Ego sum: “Perduta? no… – Sorgendo come Iddia /”…
Tornando al nostro Anzoletti, egli divenne un artista noto non solo in Italia bensì in tutta l’area mitteleuropea e oltre. Clamoroso chi lo tenne a battesimo come compositore: inviò infatti ambiziosamente una sua composizione, le Variazioni per violino e pianoforte su un tema di Johannes Brahms, allo stesso Brahms, che apprezzò quel lavoro al punto da caldeggiarne la pubblicazione (per i tipi di Simrock nel 1894). Spicca tra i brani di questo album una composizione su versi di Arrigo Boito che alludono all’allora nuova arte della fotografia, descritta nel primo endecasillabo come “arte nata da un raggio e da un veleno” – viene spontaneo pensare anche alla copertina di questo disco, qui riprodotta: presenta una fotografia, da me individuata nel fondo Luisa Anzoletti della Comunale di Trento, che magicamente ritrae Marco e Luisa in un’istantanea di vita, anno Domini 1890. Ebbene, la composizione che ne ricava Marco ha la forma musicale, rarissima nel repertorio vocale da camera italiano (e non solo italiano), del tema (la partitura parla di “corale profano”) e variazioni: ad essere così intessute sono Tre Variazioni sopra il tema d’un madrigale per una sola voce che non potrebbero essere più diverse, dall’ardita concezione e pregevolissima fattura. Sempre su versi di Boito (la poesia datata “3 Luglio, 1867” che chiude il suo Libro dei versi, uno dei testi più importanti della scapigliatura milanese), Anzoletti compone anche un Lento dalla modernità armonica sorprendente.
Ma ancora più sorprendente è il fatto che tutta la musica inclusa nel disco in questione sia ancora inedita. D’altra parte, della sterminata produzione di Anzoletti – 895 composizioni – solo un’esigua parte fu pubblicata. Di edito per voce e pianoforte, di Marco Anzoletti, figura ad oggi solo un canto irredentista su lirica della sorella, Canto delle terre redente (Milano, Monzino, senza data di pubblicazione), e un foglio d’album apparso in Strenna dell’Alto Adige nel 1902, Ti ricordi. Ma niente altro si ricorda. Tutte le composizioni incise nel disco presto disponibile esistono in forma di singoli manoscritti, alcuni leggibili, messi in bella copia, altri ancora nello stato di prima stesura, spesso di assai difficile decifrazione. Dobbiamo essere grati alla Biblioteca Comunale di Trento, che custodisce il fondo Anzoletti da quando le venne consegnato dalla Società Filarmonica di Trento, prima depositaria di questo materiale alla morte del compositore (al quale venne anche intitolato il Liceo Musicale di Trento, giusto per un po’…). Non fosse stato per la diligenza di queste due istituzioni, non avremmo la musica di Marco Anzoletti oggi.
È di imminente uscita, dunque, una prima incisione mondiale di inediti assoluti, di cui tempestiva dovrebbe essere ora – questa è l’idea che stiamo delineando con il direttore della Da Vinci Publishing, Edmondo Filippini – la pubblicazione in edizione musicale. Sono composizioni che dischiudono un mondo. Vi si trova una musica estremamente varia, a tratti molto complessa, a tratti di una semplicità disarmante, sempre raffinata nella scrittura, dalla temperatura prevalente di tormentata passione al calor bianco, che cova sotto una castigata cenere tridentina. Ad esser messe in musica sono liriche di primissima grandezza (verrà reso disponibile dall’editore, per poter consultare le liriche integrali nella mia trascrizione, il seguente link: https://davinci-edition.com/product/c00832/). Anzoletti mette in musica, in Tutti quei morsi, persino Dante, andando a scovare nella Divina Commedia e segnatamente nella Cantica del Paradiso, un passo da veri cultori dell’opera (tale era Luisa), ossia le terzine (XXVI, 55-63) in cui il poeta giunge all’approdo del percorso dall’amor torto, quello dei beni materiali, degli idoli, a quello diritto, la carità, l’amor di Dio. Il tutto è reso da Anzoletti con una musica di sofferta ricerca che, in maniera stupefacente, raccorda l’espressività tardo ottocentesca a una matrice barocca, bachiana. Non è una coincidenza che Marco Anzoletti fu uno dei primi, in Italia, a dare un concerto tutto bachiano. Mete altissime si prefiggeva Marco, cominciamo a capirlo, e particolarmente rarefatta, tornando alle sue composizioni, è l’aria che scrive su versi di Francesco Petrarca, una Quando Amor… dalle tinte mahleriane. Non manca una figura centrale dell’epoca, Carducci: sue sono le liriche di Vere Novo, La lavandaia di San Giovanni e O piccola Maria, oltre ai versi, tradotti da Klopstock, che compaiono in Romanza in fa minore.
Anzoletti sceglie anche liriche di poeti meno noti, tra i quali voglio citare per primo Giovanni Bertacchi: carducciano, pascoliano, soprattutto mazziniano, docente prima nei ginnasi e poi come italianista all’Università di Padova, fu uno dei pochissimi a lasciare la cattedra universitaria per sua volontà prendendo posizione contro il fascismo – è il caso di ricordarlo, in questi nostri tempi di conformismi vari. Con l’affascinante concetto de Il “nulla d’oro” , Bertacchi ha contribuito innanzitutto all’omonima aria di Anzoletti (qui si può ascoltare nel video che lancia l’uscita dell’album), e secondariamente, si parva licet, mi ha ispirato il titolo dell’album, “Golden Nothingness”. La musica è sempre un nulla, qualcosa di impalpabile, e la buona musica in particolare è incalcolabilmente preziosa!
Sempre parlando di poeti oggi meno noti, L’esule slava, di cui nelle schede bibliografiche esistenti non era specificato l’autore dei versi, corrisponde a L’esule della Polonia, uno dei Canti popolari (datato “Napoli, marzo 1848”) del poeta e patriota Francesco Dall’Ongaro, egli stesso esule ramingo per l’Europa durante il Risorgimento – ma anche ai nostri tempi, il tema di chi debba lasciare il suolo natio, non è affatto alieno. Figurano in questo album inoltre dei versi di Luigi Orsini (L’Allodola è poesia che compare, come stornello, in un omonimo romanzo dello scrittore e librettista imolese, che insegnava Letteratura poetica e drammatica al Conservatorio di Milano e perciò, di Marco, era collega). Prominente infine il ruolo del poeta trentino Giovanni Prati (sul quale Luisa diede una conferenza l’11 novembre del 1900), autore delle liriche (raccolte in Canti per il popolo,1843) che Anzoletti trasforma nei suoi Canti d’Amore (3 Lieder): La Rosa e gli Amanti, Sogno dell’Alba e Tutto ritorna (gli unici brani, insieme a Preghiera di maggio, di cui si abbia indicazione della data di composizione, recando qui il manoscritto “Villa Rosa, 26 ott. 1894”). L’ultimo brano vede anche la sorpresa di un duetto tra soprano e baritono, dove la bella voce è del giovane Matteo Mencarelli (già incoronato da Leo Nucci nella finale del Concorso “Giulio Neri”, da lui vinto, come grande promessa del panorama lirico), qui al suo debutto discografico.
Ciò che viene presentato in questo disco ambisce a completezza per quanto riguarda la produzione di Anzoletti per pianoforte e soprano (idonee anche al registro di tenore sono Il “nulla d’oro”, le Tre Variazioni e Tutti quei morsi, quest’ultima anche per baritono). Sono stati esclusi da questa selezione brani inequivocabilmente pensati per voce maschile, come una bella Serenata Indiana pure presente nel catalogo anzolettiano. Un altro brano, Canzonetta, questo senza dubbio per voce femminile, è stato invece da me espunto per un’altra ragione: è in dialetto veneziano, anziché in lingua italiana come tutti gli altri, ma soprattutto l’ho riconosciuto come brano popolare e l’ho rintracciato infatti, in versione musicalmente assai simile, sotto il titolo di Amor ti xe un putelo nella Raccolta di canzonette popolari veneziane: con accompagnamento di pianoforte (Ricordi, 1840); è quindi a mio avviso meglio configurabile, piuttosto che come composizione originale di Anzoletti, come trascrizione dello stesso. Vi sono infine nel fondo anzolettiano alcune composizioni, segnatamente delle Ballate, il cui carattere esonda da quello di arie vocali da camera e che, a mio parere, richiedono un lavoro ad hoc.
D’altra parte, la carne al fuoco era già tanta. Di tesoro in tesoro, si configura in quest’album la musica di un artista che va riscoperto anche come liederista. La sua scrittura rimarrà forse primariamente quella di un violinista, essendo le parti a tratti piuttosto “scomode” sia per il pianoforte sia per il canto (vi sono ad esempio, a livello vocale, dei brani che insistono sul passaggio di registro, come forse un autentico conoscitore della tecnica del canto lirico avrebbe evitato). La vocazione di Anzoletti di scrivere musica da camera in ottica mitteleuropea tuttavia c’è ed è nettissima anche in campo vocale: a questo proposito, non tanto e non solo melodramma si doveva contemplare, benché anche in questo il nostro si cimentasse, ma anche e soprattutto musica vocale da camera, di altissima fattura, che mirasse poeticamente e musicalmente al sublime. In una lettera a Luisa, Marco, l’autore di variazioni, il cultore di Bach e Mozart, si lamenta di come gli editori della sua epoca, Sonzogno, Ricordi, sostenessero solo la musica dei loro Giordano e Puccini… Questa, evidentemente, è una delle ragioni per la disattenzione ai lavori cameristici di Anzoletti.
Ma Tutto ritorna, come fa sperare il titolo dell’ultimo brano racchiuso nell’album: a distanza di poco meno di cento anni dalla sua scomparsa, Marco Anzoletti può forse alfine colpire nel segno, risuonando nei destinatari ricettivi che doveva aver avuto in mente quando componeva. Noi che abbiamo preso parte a questo progetto di riscoperta – voglio menzionare per il suo strenuo e appassionato impegno anche l’ingegnere del suono, Giordano Corsetti (PFL, Monte San Giusto) – siamo stati profondamente colpiti da questa intensità. Speriamo anche di essere stati all’altezza del compito, il compito di riportare alla luce una musica ingiustamente dimenticata. Io, in verità, non dimentico neanche l’antidilettante monsieur Croche, alter ego letterario di Debussy che ammoniva: “certi defunti, in verità, sono troppo discreti e aspettano troppo lungamente la melanconica riparazione della gloria postuma. Per sollevare il velo della morte, mani scrupolose sono necessarie; purtroppo le esumazioni sono fatte in generale da mani maldestre, le quali, guidate da un basso e segreto cinismo, lasciano ricadere nell’oblio quei poveri funebri fiori”. Della nostra cura saranno ora gli ascoltatori a giudicare.
Anzoletti stesso ci lascia detto qualcosa sull’ambito misterioso che è la musica ancora da svelare. Sotto la supervisione della sorella si cimentò infatti anche nella poesia (io ipotizzo che siano usciti dalla sua penna i versi per una volta scherzosi – in mezzo a tanto struggimento – di Com’è arzillo stamattina…, unica lirica dell’album il cui autore non è identificato), e in uno dei suoi Sonetti musicali (Milano, Cogliati, 1902)), dopo aver passato in rassegna vari musicisti noti e arcinoti, dedica l’ultimo sonetto a La musica ancora ignota. Queste le terzine con le quali conclude:
Coro immenso di spirti che procede
Da un remoto poter che tutto innova,
Come fulmin che a fulmine succede
Prorompon le armonie dell’arte nuova.
Squillo supremo; suon che i suoni eccede;
Par l’Infinito verso il tempo muova!
Davvero: l’infinito che si fa ora, tramite un suono passato che torna presente, portando con sé la vita da cui era originato. Ma lasciamo l’ultima parola a Luisa, la vera poetessa della famiglia. Nella sua poesia Parla così la musica, ci dà ulteriore riprova di come la concezione della musica in casa Anzoletti fosse la più alta che si possa immaginare:
[…]
Parla così la musica
[…]
È la sua voce or della morte il gemito,
Or della vita il grido.
[…]
Perché solo le lacrime
Non sieno il fonte delle idee più belle,
E possa ’l cor intendere
La gloria che di Dio narran le stelle.
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]]>“Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato. Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la miseria degli uomini e delle cose, e d’inorridire freddamente, speculando quest’arcano infelice e terribile della vita dell’universo” [1]. È questo un programma filosofico? Taluno ha insistito a dismisura su questo e analoghi passi leopardiani. Una volta, Leopardi e Schopenhauer, era lo stereotipo che si usava per liquidare la portata sovversiva della critica leopardiana [2]. Ora la moda è cambiata: Leopardi e Kafka per qualche altro menagramo… [3] Leopardi, ovvero il grande vinto, il pessimismo cosmico, ecc. Nulla di meno vero.
Questo andare di citazione in citazione, scegliendo le più disperate e tirandone conclusioni definitorie, è solo un malvezzo: d’altra parte Schopenhauer e Kafka hanno la loro propria grandezza e non si comprende davvero come possano essere chiusi nella fattispecie leopardiana. Niente in Leopardi c’è della schopenhaueriana fenomenologica progressiva teologia del nulla e tanto meno il gusto, affatto dialettico, della negazione e della devoluzione della realtà nelle figure dell’evanescenza l’uomo “vede, ovunque guardi, la sofferente umanità e la sofferente animalità e un mondo evanescente”, non gli basta più quindi “amare gli altri come se stesso e fare per essi quanto fa per sé; ma sorge in lui un orrore per l’essere di cui è espressione il suo proprio fenomeno, per la sua volontà di vivere, per il nocciolo e l’essenza di quel mondo riconosciuto pieno di dolore”[4]: in Leopardi il reale è sempre fuori discussione e lo sfondo del suo materialismo è irriducibile. Né di Kafka vi sono in Leopardi l’allucinazione, una gnoseologia machiana: “nel mondo di Babele c’è come un’asfissia della parola” – poi quella kafkiana, appunto, fenomenistica analitica della psiche: “una fine apparente causa un dolore reale” [5]; in Leopardi la psiche è continuamente riportata al meccanismo del senso – e si fonda e si ricostruisce materialmente.
“L’arcano infelice e terribile della vita dell’universo”, e il suo studio, non costituiscono dunque un programma filosofico: sono semplicemente lo sfondo di un lavoro filosofico, della ricerca lunga e appassionata di un significato della vita. A partire dalle condizioni materiali della costituzione del mondo. È vero che questo lavoro filosofico leopardiano sfiora sovente baratri di pessimismo assoluto – ed è perciò anche vero che il sensismo e il materialismo leopardiani in definitiva non conoscono la tranquilla, serena forza di progressione delle scuole rinascimentali e seicentesche (anche se ne amano e, nostalgicamente e stilisticamente, ne accarezzano la tradizione). Ma in ciò probabilmente stanno l’alta originalità e la grande modernità di Leopardi, il contributo vivo e innovativo portato alla metafisica del materialismo. Mi spiego più ampiamente. Si dà, in questo Leopardi e proprio in questa fase centrale della sua vita e del suo lavoro, una sorta di rivoluzione copernicana nel materialismo.
Se in Kant la rivoluzione critica consiste nello stabilire un orizzonte trascendentale sul quale l’uomo contribuisce alla costruzione del vero o almeno alla progettazione di un vero umano sicché è proprio questo senso della relatività che può fondare un vero criticamente accertato bene, un’analoga operazione è condotta da Leopardi, fuori da ogni orizzonte trascendentale, dentro invece la trama di una dialettica della natura e della storia, del tutto finita, del tutto materiale, cui l’uomo, come parte finita di quest’universo, si confronta. E solo la sua presenza dà o toglie, trova o no, il significato del mondo. L’uomo è gettato in questo mondo e, praticamente, attraverso il senso e il trasfigurarsi e il procedere del senso fino alla facoltà dell’immaginazione, costruisce il significato del mondo. Qui va ora aggiunto un altro elemento alla nostra considerazione della rivoluzione copernicana nella filosofia del materialismo. Quest’inerenza dell’uomo all’orizzonte materiale definisce la preminenza dell’etica. Un materialismo moderno o è etico ed umanistico o non è. La filosofia trascendentale classica, e soprattutto quella kantiana, pone l’assolutezza dell’etico ad illuminare la relatività della conoscenza.
In Leopardi, al contrario, l’etico fa parte della relatività del mondo, subisce le dimensioni della finitezza, ma proprio per questo costruisce l’orizzonte conoscitivo. L’etico è l’impulso e non la garanzia della conoscenza. L’etico si confronta all’arcano del mondo, e lo penetra – e non può non farlo perché dolore e desiderio lo sospingono, l’immaginazione lo organizza. Che cos’è dunque l’ontologia di Leopardi? È questo lavoro dell’etico, che si pone sul margine estremo dell’immaginazione, su quella trama che si stende fra soggetto e mondo come continua interrogazione vitale e continua costruzione di vita. Di questa rivoluzione copernicana del materialismo, che vuole il soggetto come elemento centrale dell’orizzonte del mondo, Leopardi è uno degli autori. Da questo punto di vista il suo pensiero non è lontano, vivendo una problematica analoga, da quanto viene sviluppandosi nella critica marxiana della filosofia trascendentale e nella costruzione del materialismo rivoluzionario contemporaneo. La storia della metafisica del materialismo è innovata su questo passaggio. Dentro questa rivoluzione, l’idea della materia si stinge della determinazione di inafferrabilità metafisica per rendersi ambito della vita dell’uomo, per confrontarsi alla storia. Su queste dimensioni, il senso e l’immaginazione, sostenuti dall’apprezzamento etico del reale, conducono quella durissima lotta che è la forma stessa dell’esistenza. L’ontologia si qualifica così sempre più come metafisica dell’etico, come metafisica dei costumi. Si badi bene, questa leopardiana scoperta non è certo disancorata da un processo culturale che, sia pur dentro grandi incertezze, viene compiendosi in maniera generale. Proprio il rapporto del Leopardi, in questo periodo, con il Vieusseux e con le idee costitutive del programma dell’Antologia sta a dimostrarci la maturazione di queste idee etiche e metafisiche [6].
Ma in Leopardi, v’è, rispetto alla dinamica e alle tendenze dell’ambiente, al lento maturare della nuova filosofia, un radicalismo critico e metafisico senza uguali. Se l’ontologia deve farsi metafisica dei costumi – e così Leopardi tocca le tendenze del secolo – ciò avviene perché l’etica e il costume sono ontologia, sono materialità dispiegata, sono elementi della grande e tragica macchina dell’universo con ciò Leopardi si pone ben oltre le linee definitorie della timida filosofia del suo tempo e tocca quegli spazi che son propri della grandissima metafisica. Metafisica dei costumi, dunque [7]. Lo Zibaldone del ’23 ne rappresenta una prima importante stesura[8]. L’analisi è tutta impiantata dentro quell’universo materialistico ormai rivoluzionato che abbiamo visto sorgere dalla coniugazione della “seconda natura” e dell’immaginazione, sicché l’una è interna all’altra e in questa Umwelt si sviluppa ogni movimento, così dell’esistenza come dell’innovazione della vita.
Ora, niente meglio della lingua, come orizzonte naturale e storico, ci presenta inizialmente queste dimensioni del mondo. Moltissime sono le pagine di lavoro linguistico e filologico in questo periodo [9]. L’importanza di quest’assunzione della lingua non può essere ridotta al pur immenso lavoro che Leopardi in proposito sviluppa: v’è di più. È ben vero che spesso quest’enorme brogliaccio filologico si rivela come una modernissima analitica del linguaggio e che (quella che oseremmo chiamare) una theory of pictures viene talora intuita: ma v’è di più. V’è, nell’identificazione di questo primo elementare tessuto dell’analisi che riassume, per così dire, le indagini filosofiche del precedente periodo una nuova definizione della “seconda natura” come potenza di comunicazione e di costituzione collettiva. L’immaginazione s’è interamente innestata all’universo.
La lingua è la risultante dell’interna produttività di una potenza strutturale [10]. Ogni lingua nazionale contiene elementi strutturali di autoproduttività, che si esprimono secondo norme immanenti. Ma ciò non basta. Oltre agli elementi strutturali, ogni lingua si costruisce sul ritmo costruttivo della civiltà di una nazione [11]. Il sistema storico delle lingue è dunque duplicemente aperto alla dinamica della creatività: sul lato strutturale e sul lato storico. Termini modernissimi di una dialettica filologica di storia e struttura, di creatività e di stile, vengono qui impiegati da Leopardi per ricondurre continuamente le affermazioni generali alle analisi particolari [12]. Ma ciò che più importa è che in questa analisi, che per taluni versi è anche un elogio delle lingue e delle nazionalità (lingua francese: ossia la lingua dello stile e della forza stilistica, della prosa e della prosa poetica; lingua tedesca: ossia la lingua della scienza, sua conformabilità, adattabilità, sua capacità di mimesi del reale; lingue classiche, il greco e il latino e l’italiano: ossia le lingue della creatività per eccellenza, e della poesia…)[13] – in quest’analisi, dunque, la seconda natura linguistica si presenta sempre come potenza.
Una potenza che si conforma alla storia ma che anche innova nella storia, e di questa determina caratteri così come ne subisce l’involuzione e il degrado – ad ogni modo è una potenza viva. Ripetiamo: l’immaginazione si è innestata fin nel profondo della seconda natura ed è – di conseguenza – divenuta collettiva. Su questo tema, dell’immaginazione collettiva, dell’immaginazione come potenza storica, non si parla abbastanza negli studi su Leopardi [14]. Ed è evidente perché. È questa, in effetti, un’ipotesi di lavoro che modifica in maniera radicale ogni interpretazione del pensiero leopardiano – sull’arco intero dei suoi molteplici scorci: dal formalismo all’interpretazione religiosa, dalla lettura biografica e sentimentale a quella politica progressiva. Il presupposto indiscusso di tutte queste interpretazioni è l’individualismo, quasi il solipsismo dell’esperienza poetica di Leopardi; ora, invece, quanto noi veniamo scoprendo, vale il contrario e cioè: in questo momento di accessione alla maturità teorica e poetica, la nuova base, il nuovo tono del discorso leopardiano sono quelli del collettivo.
L’universalità umana è considerata nell’articolazione che le grandi soggettività nazionali, e poi tutti i gruppi fino ai soggetti individuali, producono, secondo lo schema della creatività linguistica. Lo schematismo trascendentale della ragione è così demistificato e condotto a questa materialità storica, determinata, organica. Il grande soggetto astratto dell’idealismo, vera leva di traduzione mistificante del reale, è distrutto e riportato alle articolazioni delle soggettività autonome e soggettivamente configurantisi. Con ciò non è posta solo la base di una modernissima concezione della lingua – con ciò è anche sviluppata un’idea della comunicazione linguistica che è parametro di costituzione collettiva del mondo. S’intende con facilità, a questo punto, perché il lavoro filologico-linguistico di Leopardi ci sembra talmente importante nel costituirsi della sua metafisica dei costumi. Lo strumento linguistico è strumento creativo nel rapporto fra quest’universo nel quale siamo immersi e la nostra attività – attività etica di soggetti.
Come scintille da un ramo che brucia, piovono uno dopo l’altro attorno a noi, innumerevoli, gli elementi della costruzione metafisica. Scintille, “larve” potrebbe dire Leopardi, di un sapere che ricostruiamo per infinite vie di un vero che, per quanto doloroso, è costitutivo. Leopardi si dilunga in questa sua meravigliosa riscoperta della lingua, nello svelamento di quest’arcano nel quale natura e storia, struttura e creatività tanto bene giocano assieme. Si dilunga, si perde in un labirinto di problemi, ricuce ipotesi diverse, inventa. Una delle cose più curiose, e nondimeno interessanti di queste pagine [15] – che qui vale ricordare per insistere sulla ricchezza del vagabondare di Leopardi in materia linguistica è l’interesse alla genesi dell’alfabeto. Stupore per questa costruzione collettiva, per quest’opera enorme dei primordi dell’umana civiltà – e insieme sperimentazione di un metodo analitico-genetico, fortemente strutturato, nell’analisi del linguaggio come potenza naturale.
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[1] Lettera 331, a Pietro Giordani, Recanati, 6 maggio 1825 [EPIST, I, 690, 884-885].
[2] Riassumendo quanto abbiamo già più volte ricordato a proposito di Schopenhauer, e riprendendo la bibliografia (De Sanctis, Nietzsche, Croce – ma anche in buona parte R. Bacchelli, Leopardi e Manzoni. Commenti letterari, Mondadori, Milano 1960 e K. Vossler, Nel centenario di Giacomo Leopardi, Cedam, Padova 1937) – dunque, riassumendo, possiamo qui stabilire: a. esiste un rapporto concettuale preciso fra lo sviluppo di pensiero di Leopardi e quello di Schopenhauer – questo rapporto consiste nell’assumere il problema critico come problema centrale della filosofia, nell’assumere l’uomo in quanto soggetto come rivelazione della “cosa in sé”, nel considerare il problema della natura come tema della “seconda natura”; b. la distinzione fra le filosofie dei due autori consiste nel fatto che Schopenhauer cede all’irrazionalismo, Leopardi vive la dimensione razionale della filosofia occidentale con estrema coerenza (sull’irrazionalismo schopenhaueriano vale pur sempre G. Lukács, Die Zerstörung der Vernunft, Aufbau Verlag, Berlin 1949). Mi sembra che su una posizione analoga abbia ben insistito in genere S. Timpanaro, di cui tuttavia mi risulta sospetta l’estrema attenzione concessa al pessimismo leopardiano, rispetto alle tesi di Luporini e Binni. Voglio dire che in Timpanaro il fascino di un’interpretazione schopenhaueriana di Leopardi, pur dominato filologicamente, implicitamente riappare quando l’inversione etica del pensiero leopardiano è esclusivamente considerata, quasi schiacciata sull’ultimissimo periodo della sua esperienza lirica e vitale: ed è chiaro che questo rapporto è diventato un passaggio obbligato dell’interpretazione leopardiana ed è chiaro anche come esso sia stato caricato di tanta passionalità, data la centralità del problema. Per quanto mi riguarda mi sembra fondamentale riprendere lo studio di questo rapporto, insistendo sul fatto che, comunque, Schopenhauer rappresenta nella filosofia dell’Ottocento una delle linee antitetiche alla dialettica hegeliana. Un’affermazione come quella che qui sotto riportiamo, così radicale, così filosoficamente pregnante, Leopardi stesso avrebbe potuto sottoscriverla: “Lavorando adunque con questa disposizione, e vedendo frattanto ognora il falso e il cattivo in pregio universale, anzi la gonfia vacuità e la ciarlataneria in altissima stima, ho da lunga pezza rinunziato al plauso dei miei contemporanei. È impossibile che una generazione, la quale per vent’anni ha tanto forte strombazzato un Hegel, questo Calibano intellettuale, come il più grande dei filosofi, da risuonarne l’Europa intera, possa far venir gola del proprio plauso a chi ha visto un tale spettacolo. Essa non ha più corone da largire: il suo plauso è prostituito, e il suo biasimo non ha alcun valore. Che io dica questo sul serio, risulta dal fatto che, se mai avessi aspirato al plauso dei miei contemporanei, avrei dovuto cancellare venti luoghi, i quali contrastano appieno con tutte le loro opinioni, anzi, in parte, devono apparir loro scandalosi. Ma io mi ascriverei a delitto il sacrificare anche una sola sillaba a quel plauso. Mia stella polare è stato in tutta sincerità il vero: col seguir questo io potevo aspirare soltanto al mio proprio plauso, avendo distolto affatto lo sguardo da un’età profondamente decaduta rispetto a tutte le aspirazioni superiori dello spirito, e da una letteratura nazionale, in cui l’arte di accordare alte parole con basso sentimento ha toccato il suo vertice. Ai difetti e alle debolezze, inerenti per necessità alla mia natura come a ciascun’altra, non posso io di certo sottrarmi in nessun modo: ma non li accrescerò con accomodamenti indegni” (Il mondo come volontà e rappresentazione, Laterza, Bari 1982, vol. I, p. 15).
[3] Cfr. supra, nota 60 del cap. I. Anche qui riassumendo: a. per quanto riguarda il rapporto concettuale fra il pensiero di Leopardi e quello di Kafka è fuori dubbio che alcune delle determinazioni del loro discorso (come l’idea di crisi, di molteplicità degli scenari di questa; della multiversalità della razionalità moderna, la determinazione del dolore ecc.) coincidono; b. esiste una differenza fondamentale e questa differenza consiste nel fatto che Kafka condivide interamente le dimensioni fenomenistiche della filosofia e della sensibilità neokantiana. Non è da dimenticare la tesi di Kafka sul pensiero di Mach; c. è chiaro che il giudizio che si può dare sul rapporto è, in questo caso, puramente sentimentale.
[4] A. Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione, cit., vol. II, paragrafo 68.
[5] Cfr. M. Cacciari, Icone della Legge, Adelphi, Milano 1985.
[6] A Gian Pietro Vieusseux, Recanati, 5 gennaio e 2 febbraio 1824 [EPIST, I, 606, 775-776 e 612, 784-787]. Si riconsiderino qui, per quanto riguarda il clima generale politico del tempo ed in particolare l’evoluzione dell’Antologia, i testi di Candeloro, Badaloni, Carpi (Antologia), Ferraris, Timpanaro, citati alla nota 14 del cap. I. Ma vedi anche B. Biral, op. cit., passim. U. Carpi, Il poeta e la politica, cit., pp. 126 sgg., chiarisce bene la situazione generale nella quale si sta attestando il pensiero politico dell’Antologia: eclettismo liberale, progressista, riformista. Bene, poco interessano qui le successive definizioni che il Carpi appiccica al pensiero politico di Leopardi, per staccarlo (con segno negativo) da quello degli altri autori dell’Antologia: Leopardi sarebbe un nobile emarginato, poi un letterato senza collocazione, emarginato dunque di nuovo… Facile immaginare una risposta a questi giudizi: che altro è, e può essere, un intellettuale non integrato, non organico nel mondo capitalistico? Non ha mostrato l’intera storia di questi secoli di civiltà capitalistica che l’unica posizione possibile per l’intellettuale è quella dell’emarginazione, della libertà critica? Quello che sfugge al Carpi è che questa collocazione leopardiana non elimina la capacità del poeta di criticare dall’interno lo sviluppo capitalistico. Leopardi non è legato alle posizioni del riformismo aristocratico, non è “prima” del capitalismo vi è “dentro”. Ma va sottolineato qui un ulteriore elemento di distacco di Leopardi da Vieusseux e dai suoi amici. Esso consiste nel fatto che il circolo fiorentino dell’Antologia costituisce uno dei crogiuoli del trasferimento della tematica critica e dialettica dall’Europa all’Italia (cfr. in proposito G. Gentile, Storia della filosofia italiana da Genovesi al Galluppi, Milano 1932; M.F. Sciacca, Il pensiero italiano nell’età del Risorgimento, Marzorati, Milano 1963). Ora, il circolo fiorentino non è semplicemente un luogo di passaggio ma è anche un circolo potenzialmente predisposto all’accettazione del discorso dialettico. Di nuovo qui troviamo la ragione del contraddittorio rapporto di Leopardi con questo circolo: consiste nel fatto che egli accetta la posizione del problema critico ma ne rifiuta la soluzione dialettica.
[7] La Grundlegung zur Metaphysik der Sitten di Kant apparve in prima edizione nel 1785 a Riga. I due volumi successivi: Metaphysische Anfangsgründe der Rechtslehre e Metaphysische Anfangsgründe der Tugendlehre apparvero a Königsberg separatamente nel gennaio e nell’agosto 1797. Sulle influenze critiche su Leopardi, cfr. supra, nota 66 del cap. I. È ben noto il paradosso contenuto nella kantiana “metafisica dei costumi” – e cioè il continuo passaggio dall’argomentazione a priori a quella a posteriori, le difficoltà della deduzione del concreto che si risolvono in una valutazione accurata e in un recupero accanito del particolare – sicché si è potuto notare che, ferme restando le premesse generali, qui Kant trascorre dal giudizio “sintetico a priori” ad un’ipotesi “analitica a posteriori”. Quali che siano le definizioni, è certo che su questo limite critico si verifica una tensione inesausta – che, mentre percorre il dualismo originario del pensiero kantiano, per così dire lo consuma nel tentativo di afferrare le grandi figure dell’ordine sociale e storico. Che su questo terreno le differenze del pensiero kantiano da quello di Leopardi possano essere grandissime è fuori dubbio: ma è anche vero che, nella metafisica dei costumi di Kant, la ricerca di un punto ideale di incrocio dell’idealità etica e della concretezza istituzionale è fortissima. È attorno a questo punto di incrocio che, come nota Antimo Negri, art. cit., pp. 485 sgg., le differenze fra il pensiero di Kant e quello di Leopardi si appannano: “le favole”, i “poemi”, “i romanzi” critici diventano leggibili a Leopardi… Comunque per quanto riguarda altri aspetti del rapporto Kant-Leopardi cfr. infra, nota 80 di questo capitolo.
[8] Lo Zibaldone del ’23 prende inizio dal ritorno di Leopardi a Recanati da Roma, quindi nel maggio. Fra maggio e dicembre Leopardi stende da p. 2686 a p. 4006 del suo grande e geniale brogliaccio (TO, vol. II, pp. 683- 1027). È un periodo importantissimo, questo: i vari filoni della ricerca raggiungono un culmine di concentrazione, unificandosi nel lavoro filosofico. Dal ’24, al declinare del lavoro allo Zibaldone corrisponderanno la redazione delle Operette morali e poi, via via, altre preoccupazioni. Sull’importanza dello Zibaldone del ’23, cfr. soprattutto Binni e Biral.
[9] Per quanto riguarda un bilancio delle pagine linguistiche di questo periodo (nello Zibaldone), cfr. S. Gensini, op. cit., passim. Naturalmente il lavoro di questo periodo va collegato a quello del ’21 (cfr. supra il paragrafo 4 del cap. II) È fra il ’21 e il ’23 che la linguistica leopardiana si forma.
[10] Zib 2722-2725, 25-27 maggio 1823. S. Gensini, op cit., pp. 103 sgg.
[11] Zib 2694-2700, 17 maggio 1823. S. Gensini, op cit., pp. 125 sgg.
[12] Cfr. K.O. Apel, op. cit.; G. Devoto, Profilo di storia linguistica italiana, La Nuova Italia, Firenze 1976; L. Rosiello, Linguistica illuministica, il Mulino, Bologna 1967. Per quanto riguarda la modernità della linguistica leopardiana mi sia qui permesso riferirmi a due posizioni, tanto distanti l’una dall’altra quanto apparentate da elementi di una medesima sensibilità: parlo di Leo Spitzer e di N. Bachtin. Per entrambi il problema fondamentale, in quanto linguisti, è quello di saper identificare il processo di integrazione della creazione linguistica e di quella letteraria e di osservare le forme dei rapporti che vengono determinandosi fra orizzonte linguistico generale e produzioni individuali. Così l’idealista Spitzer e il materialista Bachtin (lavorando entrambi, e certamente senza contatti, su Rabelais) pervengono a risultati analoghi: perché è infatti questa centralità produttiva della lingua che caratterizza la moderna e scientifica comprensione di essa. Come in Leopardi.
[13] In generale, su questi temi, cfr. gli Indici dello Zibaldone. Per quanto mi riguarda, su questi argomenti, ho soprattutto studiato le pp. 2845-2861 e 2906-2917 (TO, vol. II. pp. 718-722 e 733-736). S. Gensini, op. cit., pp. 179 sgg.
[14] S. Gensini ha ben sottolineato la necessità di affrontare il problema dell’immaginazione in Leopardi. Dubito tuttavia che la prospettiva storicistica, “gramsciana”, che egli assume possa essere sufficiente a risolvere un problema siffatto. Come mi sembra di aver sottolineato più sopra, è ad una diversa impostazione, decisamente materialistica, decisamente fenomenologica, che possiamo chiedere un approfondimento del tema. Cfr. supra, nota 38 del cap. I e nota 82 del cap. II.
[15] Zib 2948-2960, 12-14 luglio 1823.
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]]>La politica sessuale che ha informato la caccia alle streghe appare evidente nel rapporto tra la strega e il diavolo, una delle novità introdotte dai processi del XVI e XVII secolo. La grande caccia alle streghe segnò un cambiamento nell’immagine del diavolo, rispetto a quella che si trova nelle vite dei santi del Medioevo o nei libri dei maghi del Rinascimento. Nelle prime, il diavolo veniva raffigurato come una creatura maligna, ma con poco potere – un po’ di acqua santa e qualche parola sacra bastavano a sconfiggerne le trame. La sua figura era quella di un malfattore senza successo che, lungi dall’ispirare orrore, poteva avere qualche virtù. Il diavolo del Medioevo era un essere logico, competente in materia legale, descritto a volte nell’atto di difendere la sua causa davanti a una corte di giustizia (Seligmann 2010, pp. 190-199) [1]. Era anche un abile operaio, che poteva essere impiegato per scavare gallerie o costruire le mura delle città, sebbene fosse sempre gabbato al momento della ricompensa. Anche la visione rinascimentale del rapporto tra il diavolo e il mago raffigura sempre il diavolo come un subordinato cui vengono assegnati dei compiti che deve adempiere che lo voglia o meno, come un servo, obbligato a comportarsi secondo la volontà del padrone.
Con la caccia alle streghe il rapporto di potere tra il diavolo e la strega si capovolge. Adesso è la donna a farsi serva, schiava, “succube” nel corpo e nell’anima, mentre il diavolo agisce da signore e padrone, allo stesso tempo magnaccia e marito. Era il diavolo, ad esempio, che “si avvicinava alla strega designata. Raramente era lei a invocarlo” (Larner 1981, p. 148). Dopo che le si era manifestato le chiedeva di diventare sua serva, promettendole in cambio benefici economici, e ciò che ne seguiva era un classico esempio del rapporto tra schiavo e padrone e tra marito e moglie. La marchiava con il suo segno, aveva con lei rapporti sessuali e in alcuni casi le cambiava perfino il nome (ibid.). Inoltre, prefigurando il nuovo destino matrimoniale delle donne, la caccia alle streghe proponeva un solo diavolo al posto della miriade di demoni che popolavano il mondo medioevale e rinascimentale, e inoltre un diavolo maschio al posto delle figure femminili (Diana, Era, la “Signora del zogo”) i cui culti erano diffusi tra le donne nel Medioevo sia nelle regioni mediterranee che in quelle teutoniche.
Fino a che punto i cacciatori di streghe si preoccupassero di affermare la supremazia maschile lo si deduce dal fatto che, persino quando in rivolta contro la legge umana e divina, le donne dovevano essere raffigurate come subordinate all’uomo, e l’apice della loro ribellione – il famigerato patto col diavolo – doveva essere rappresentato come un perverso contratto matrimoniale. L’analogia matrimoniale era perseguita al punto che le streghe confessavano che “non osavano disobbedire al diavolo” o, più stranamente, che non provavano alcun piacere a copulare con lui, una contraddizione rispetto all’ideologia della caccia alle streghe che faceva derivare la stregoneria dall’insaziabile lussuria delle donne.
La caccia alle streghe non solo santificò la supremazia maschile, ma istigò gli uomini a temere le donne, e perfino a considerarle la rovina del sesso maschile. Le donne, predicavano gli autori del Malleus maleficarum, sono belle a vedersi ma se le tocchi ti contaminano; attraggono gli uomini solo per renderli deboli; fanno qualsiasi cosa per compiacerli, ma il piacere che danno è più amaro della morte, perché i loro vizi costano agli uomini la perdita dell’anima – e forse anche quella dei loro organi genitali (Kors e Peters 1972, pp. 114-115). La strega in teoria poteva castrare gli uomini o renderli impotenti, sia congelandone la potenza generativa, sia comandando al loro pene di uscire o ritrarsi secondo il proprio desiderio [2]. Alcune rubavano gli organi genitali maschili per nasconderli in nidi d’uccello o in scatole fino a quando, con la forza, erano costrette a restituirli ai proprietari [3].
Ma chi erano queste malefiche che castravano gli uomini o li rendevano impotenti? Potenzialmente tutte le donne. In un villaggio o in una piccola città di qualche migliaio di persone, dove, all’apice della caccia alle streghe, dozzine di donne furono bruciate nel giro di pochi anni o poche settimane, nessun uomo poteva sentirsi al sicuro ed essere certo di non vivere con una strega. Molti si devono essere impauriti sentendo che di notte certe donne lasciavano il letto matrimoniale per andare al sabba, ingannando i mariti addormentati mettendo un bastone al loro fianco; o che le donne avevano il potere di far scomparire i loro peni, proprio come la strega menzionata nel Malleus, che ne aveva nascosti a dozzine in un albero.
Che questa propaganda sia riuscita a dividere le donne dagli uomini lo dimostra il fatto che, a parte singoli tentativi da parte di figli, mariti o padri di salvare le proprie parenti dal rogo, non c’è traccia di organizzazioni maschili che si siano opposte a questa persecuzione. L’unica eccezione è quella dei pescatori del villaggio basco di St. Jean-de-Luz, dove nel 1609 il magistrato francese Pierre Lancre condusse processi di massa che portarono al rogo quasi seicento donne. Mark Kurlansky scrive che, quando Lancre dette inizio agli arresti, i pescatori erano via, impegnati nell’annuale pesca del merluzzo. Ma,
[quando agli uomini] della flotta del merluzzo di St. Jean-de-Luz, una delle più grandi [della regione basca], giunse voce che le loro mogli, madri e figlie [erano state] denudate, seviziate e molte già giustiziate, la pesca del merluzzo del 1609 terminò con due mesi di anticipo. I pescatori ritornarono e, bastoni alla mano, liberarono un convoglio di streghe diretto al luogo del supplizio. Questa resistenza popolare fu sufficiente a fermare i processi … (Kurlansky 2001, p. 102)
L’intervento dei pescatori baschi contro la persecuzione delle loro parenti fu un evento unico. Nessun altro gruppo o organizzazione si sollevò in difesa delle streghe. Sappiamo invece che alcuni uomini fecero un commercio della denuncia, proclamandosi “scovatori di streghe”, andando di villaggio in villaggio, minacciando le donne di fare il loro nome se non li avessero pagati. Altri approfittarono del clima di sospetto che circondava le donne per liberarsi di mogli e amanti non desiderate, o per evitare la vendetta di donne che avevano violentato o sedotto. È plausibile che l’assenza di una protesta maschile contro le atrocità a cui furono sottoposte le donne fosse spesso motivata dal timore di essere coinvolti nelle accuse, considerato che la maggior parte dei processati per stregoneria erano parenti di streghe sospettate o condannate. Ma è indubbio che anni di propaganda e di terrore abbiano prodotto negli uomini un profondo distacco psicologico dalle donne, che ha distrutto la solidarietà di classe e minato il loro stesso potere collettivo. Giustamente Marvin Harris afferma che:
La caccia alle streghe … ha disperso e frammentato tutte le energie latenti della protesta. Ha fatto sentire tutti impotenti e perciò dipendenti dai gruppi sociali dominanti, e ha fornito inoltre uno sfogo a portata di mano alla loro frustrazione. Ha impedito ai poveri, più che a ogni altro gruppo sociale, di affrontare le autorità ecclesiastiche e l’ordine costituito per far valere le loro ragioni riguardo alla ridistribuzione della ricchezza e al livellamento delle posizioni sociali (Harris 1974, pp. 239-240).
Allora come oggi, è reprimendo le donne che le classi dominanti hanno represso con maggior efficacia l’intero proletariato. Hanno istigato uomini espropriati, impoveriti e criminalizzati a sfogare le loro sventure personali sulle streghe castratrici e a considerare il potere che le donne avevano guadagnato contro le autorità, come un potere che avrebbero usato contro di loro. Tutte le paure più profonde nutrite dagli uomini nei confronti delle donne (dovute in gran parte alla propaganda misogina della chiesa) sono state mobilitate a questo scopo. Non solo le donne furono accusate di rendere gli uomini impotenti; anche la loro sessualità dovette essere tramutata in una cosa temibile, una forza pericolosa e demoniaca, dato che agli uomini si insegnava che la strega poteva renderli schiavi e ridurli alla sua mercé (Kors e Peters 1972, pp. 130-132).
Un’accusa ricorrente del processo per stregoneria è che le streghe esercitavano pratiche sessuali snaturate, centrate sulla copulazione con il demonio e sulla partecipazione alle orge che si diceva avessero luogo al sabba. Ma le streghe furono anche accusate di suscitare negli uomini una passione incontrollata: era quindi facile per gli uomini colti in relazioni illecite dichiarare che erano stati stregati, o per una famiglia che volesse porre fine alla relazione del figlio con una donna non gradita, accusarla di essere una strega. Scriveva il Malleus:
[ci sono] … sette metodi per colpire con stregonerie di vario tipo l’atto venereo e il feto concepito nell’utero: il primo si compie spingendo l’animo degli uomini a un amore disordinato, il secondo, bloccando la loro forza generativa, il terzo portando via il membro che serve a tale atto, il quarto trasformando gli uomini in forme bestiali con l’arte dei prodigi, il quinto compromettendo la forza generativa delle donne, il sesto procurando l’aborto, il settimo offrendo i bambini ai diavoli … (Kramer e Sprenger 2006, pp. 95-96).
Che le streghe fossero accusate sia di rendere gli uomini impotenti, sia di accendere in loro un eccessivo desiderio sessuale è solo in apparenza una contraddizione. Nel nuovo ordine patriarcale che si stava diffondendo in concomitanza alla caccia alle streghe, l’impotenza fisica era la controparte dell’impotenza morale, era cioè la manifestazione fisica dell’erosione dell’autorità maschile sulle donne, perché da un punto di vista “funzionale” non c’era differenza tra un uomo castrato e uno perdutamente innamorato. I demonologi guardavano con sospetto a entrambe le condizioni, chiaramente convinti che sarebbe stato impossibile realizzare quel tipo di famiglia che l’accortezza borghese reclamava – modellata sullo stato, con il marito sovrano e la moglie suddita del suo potere, votata anima e corpo alla gestione della casa (Schochet 1975) – se le donne con il loro “fascino” e i loro filtri d’amore fossero state in grado di esercitare sugli uomini un tale potere da renderli “succubi” dei propri desideri.
La passione sessuale minava non solo l’autorità maschile sulle donne – come ammoniva Montaigne, l’uomo può mantenere un decoro in ogni cosa, eccetto che nell’atto sessuale (Easlea 1980, p. 243) – ma anche la possibilità dell’uomo di autogovernarsi, facendogli perdere quella preziosa testa in cui la filosofia di Descartes collocava la fonte della ragione. Una donna sessualmente attiva era quindi un pericolo pubblico, una minaccia all’ordine sociale in quanto sovvertiva il senso di responsabilità dell’uomo e ne minava la capacità di lavorare e di controllarsi. Se si doveva impedire alle donne di rovinare gli uomini moralmente – e cosa ancor più importante, finanziariamente – allora la sessualità femminile doveva essere esorcizzata. E fu fatto con la tortura, con i roghi, oltre che con i meticolosi interrogatori a cui le accusate venivano sottoposte, che erano un misto di esorcismo sessuale e stupro psicologico [4].
Per le donne, il XVI e il XVII secolo hanno inaugurato un’era di repressione sessuale. Censure e divieti hanno ridefinito il rapporto con la sessualità. Alla luce della critica di Foucault all’“ipotesi della repressione” (Foucault 1997, pp. 19-48) ciò deve essere ribadito. Dobbiamo anche ribadire che non sono la pastorale cattolica e la confessione che più ci dimostrano come, all’inizio dell’era moderna, il “potere” impose alle gente l’obbligo di parlare di sesso (ivi, pp. 25-26). L’“esplosione del discorso” sul sesso, che Foucault rileva in questo periodo, in nessun luogo fu realizzata con più veemenza che nelle camere di tortura della caccia alle streghe. Ma fu tutta un’altra cosa dalla reciproca eccitazione che Foucault immagina fluire tra la donna e il suo confessore. Superando di gran lunga la curiosità di qualsiasi confessore, gli inquisitori costringevano le streghe a rivelare le loro avventure sessuali nei minimi dettagli, non frenati nemmeno dal fatto che spesso si trattava di vecchie i cui presunti exploit sessuali risalivano a parecchi decenni prima. In maniera quasi rituale obbligavano le accusate di stregoneria a spiegare come, quando ancora giovani, erano state prese per la prima volta dal diavolo, che cosa avevano provato durante la penetrazione, a quali pensieri impuri si erano lasciate andare.
Ma il palcoscenico su cui si svolgeva questo insolito discorso sessuale era la camera di tortura, e le domande venivano poste tra un’applicazione e l’altra dello strappado (la tortura della corda) a donne che impazzivano dal dolore, per cui ci è impossibile pensare che l’orgia di parole che le donne così martoriate erano costrette a pronunciare potesse accrescere il loro piacere o riorientare, tramite la sublimazione verbale, il loro desiderio. Nel caso della caccia alle streghe – su cui Foucault stranamente sorvola nella sua Storia della sessualità (vol. I, 1976) – l’“incessante discorso sul sesso” non costituì un’alternativa alla repressione, al controllo, al divieto, ma ne fu direttamente al servizio. Si può senz’altro affermare che il lessico della caccia alle streghe “produsse” la Donna come una specie diversa, un essere sui generis, più carnale, e perversa per natura. Possiamo anche dire che la produzione della “femmina perversa” fu un passo verso la trasformazione della vis erotica femminile in vis lavorativa – cioè il primo passo verso la trasformazione della sessualità femminile in lavoro. Ma bisogna riconoscere l’aspetto distruttivo di questo processo, che ci consente anche di dimostrare i limiti di una “storia della sessualità” quale quella proposta da Foucault, che tratta la sessualità dal punto di vista di un soggetto indifferenziato, senza connotazioni di genere, e come un’attività che ha per uomini e donne le stesse conseguenze.
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[1] “Tu non pensavi ch’io loico fossi!” (Non ti aspettavi che fossi intelligente!), ridacchiava il diavolo dell’Inferno dantesco, afferrando l’anima di Bonifacio VIII, che aveva furbescamente pensato di evitare il fuoco eterno pentendosi nell’atto stesso di compiere i suoi crimini (Divina Commedia, Inferno, canto XXVII, verso 123).
[2] Il sabotaggio dell’atto coniugale era un tema di rilievo anche nei procedimenti giudiziari del tempo che si occupavano di divorzio e separazione, soprattutto in Francia. Come osserva Robert Mandrou, gli uomini avevano una tale paura di essere ridotti all’impotenza dalle donne, che i preti dei villaggi spesso impedivano alle donne sospettate di essere abili “legatrici di nodi” (il presunto metodo per causare l’impotenza maschile) di presenziare ai matrimoni (Mandrou 1971, pp. 86-87, 433ss; Le Roy Ladurie 1984, pp. 262-263; Lecky 1886, p. 100).
[3] Questo stesso racconto compare in molte demonologie. Termina sempre con un uomo che scopre l’offesa che gli è stata arrecata e obbliga la strega a restituirgli il pene. Lei lo accompagna sulla cima di un albero, dove ce ne sono parecchi nascosti in un nido, e quando l’uomo ne sceglie uno lei gli dice: “No, quello è del vescovo.”
[4] Carolyn Merchant sostiene che gli interrogatori e le torture alle streghe servirono da modello per la metodologia della nuova scienza, così come la definì Francesco Bacone: “Molte fra le immagini usate [da Bacone] per delineare i suoi nuovi obiettivi e metodi scientifici derivano dall’aula di tribunale, e poiché egli tratta la natura come una femmina che deve essere torturata per mezzo di invenzioni meccaniche, ci vengono irresistibilmente alla mente le domande che si facevano ai processi alle streghe e gli strumenti meccanici usati per torturarle. In un brano di grande interesse, Bacone affermò che i metodi con cui si potevano scoprire i segreti della natura erano gli stessi che si usavano nell’investigare i segreti della stregoneria …” (Merchant 1988, p. 221).
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