Nelle ultime settimane una querelle ha circondato la figura letteraria di H. P. Lovecraft, scrittore di racconti, poesie, saggi e opere di critica letteraria, iniziatore del genere weird e di quello che sarebbe poi diventato noto come lo Cthulhu mythos.
La polemica ha avuto inizio con la decisione del World Fantasy Award (un premio letterario statunitense di letteratura fantastica) di non utilizzare più l’effige e il nome dell’autore di Providence, e di cercare un nuovo simbolo in grado di rappresentare la letteratura fantasy e horror senza utilizzare il volto di un singolo artista. In realtà la scelta è stata motivata soprattutto dal ripudio delle posizioni notoriamente razziste di Lovecraft ed è maturata anche in seguito a una petizione online. Nel 2011, la scrittrice americana di origini nigeriane Nnedi Okorafor aveva espresso imbarazzo nel ricevere come trofeo il busto di Lovecraft, capace di concepire lavori incentrati su un ovvio e dichiarato razzismo come la poesia “On the Creation of Niggers” (1912). Una precedente vincitrice del premio, Sofia Samatar, era già entrata nel merito della questione, sostenendo che pur amando l’opera di Lovecraft – e insegnandola – riteneva ormai criticabile l’utilizzo della sua immagine per un premio letterario internazionale. Lo scrittore Daniel José Older sarebbe andato oltre, iniziando una petizione contro l’utilizzo dell’effigie di Lovecraft in quanto autore “bigotto” e suggerendo in alternativa quella della scrittrice afroamericana Octavia Butler. Per Older, anche se Lovecraft lascia “un segno duraturo nella speculative fiction”, l’autore era anche “un razzista professato e dalle opinioni esecrabili” (fonte: Allison Flood su The Guardian. Le motivazioni di Older e di Okorafor sono chiare: dichiarare che l’uomo è figlio del suo tempo e contesto storico non basta e non è perdonabile. Non si può operare una distinzione radicale tra l’uomo e il suo testo.
La decisione del World Fantasy Award, ispirata in parte dalle critiche di Older e Okorafor, è stata criticata duramente da S. T. Joshi, biografo e massimo esperto delle opere di H. P. Lovecraft. Joshi ha restituito i Fantasy Awards ricevuti in passato dalla commissione, definendo in un post la decisione di rimuovere lo scrittore di Providence “un cedere da vigliacchi alla peggior forma di politicamente corretto”. Il critico ha poi incalzato gli organizzatori giudicando la mossa come volta a placare “i piagnistei fastidiosi di una manciata di paladini della giustizia sociale”. Per Joshi, innanzitutto, il razzismo di Lovecraft non va negato, ma non connota tutta la sua opera, la sua vita e il suo pensiero. Suggerire che si tratti di un difetto così macroscopico da sminuire i suoi meriti letterari sarebbe insensato. La discussione sul razzismo di Lovecraft rivelerebbe una caricatura tendenziosa di uno scrittore le cui vedute sarebbero molto più complesse e dotate di sfumature di quanto non si possa concludere isolando alcuni passaggi specifici. Sarebbe poi un grave errore storico, continua Joshi, negare appropriato giudizio alle figure del passato, giudicandole da prospettive etiche, politiche e morali diverse da quelle dell’epoca e del contesto a cui appartenevano.Questo non toglie che il razzismo di Lovecraft abbia assunto forme assai esplicite; ciononostante sarebbe più interessante, anche se impegnativo, arrivare a una comprensione spassionata sulle origini e il ruolo del razzismo nel contesto storico e biografico di Lovecraft––caratterizzato da una profonda destabilizzazione esistenziale e familiare, in una Rhode Island in cui cambiamenti demografici e fenomeni migratori nutrivano diffusi sentimenti xenofobi nelle classi white anglo-saxon protestant.
In una prospettiva più ampia, la polemica su H.P.L. si inserisce in un processo di critica postcoloniale. Opere e autori più o meno consolidati come classici sono stati elevati in quanto tali da tradizioni di studio che non avevano guardato ai contenuti ideologici di determinate opere con la medesima, legittima attenzione riservata a questi problemi dalle nuove prospettive critiche. Per scrittrici come Okorafor, liberarsi del fantasma razziale invocando il contesto storico non basta. Poesie di Lovecraft come “The Creation” rivelano un razzismo non metaforico o astratto, ma specifico e calibrato. Il fatto che ci si trovasse nel 1900 non vuol dire che non esistessero allora delle persone non razziste e che Lovecraft non fosse affatto una di quelle. La motivazione di Okorafor è condivisibile se prendiamo atto che siamo lungi dal vivere in società post-razziali, dove la distruzione dello stesso costrutto ideologico della “razza” nella sfera pubblica avrebbe finalmente avuto luogo. D’altro canto, se è forse solo esponendo ancora il concetto di razza per indicarne la fallacia che possiamo superare il suo abominio, una delle strategie migliori per attuare questo progetto potrebbe non essere l’idea di svilire l’intera opera di uno scrittore. Nella sua accorata difesa di Lovecraft, Joshi si domanda cosa succederebbe estendendo questo trattamento ai premi Bram Stoker e J. W. Campbell, se pensiamo alla demonizzazione dei migranti nel Dracula del primo e all’astioso razzismo del secondo. Problemi si manifesterebbero anche con Edgar Allan Poe, appassionato sostenitore della schiavitù, non estraneo a caratterizzazioni razziste dei suoi personaggi (vedasi “The Gold-Bug”) e pedofilo (aveva sposato la cugina di 14 anni). Joshi ricorda che anche solo utilizzare una banconota da un dollaro presenta il problema di onorare l’effige di un mercante di schiavi: George Washington.
La vicenda di H. P. Lovecraft va dunque inquadrata in un fenomeno complesso: lo statuto affermato di autori, opere e canoni del passato si trova a confronto con mutate sensibilità, che si esprimono in importanti correnti critiche come gli studi culturali, di genere e postcoloniali – e come tale, probabilmente, non può essere completamente isolata da un contesto più ampio. Restando nel merito di questo articolo, è altrettanto evidente che la querelle su Lovecraft va inquadrata in questo caso nelle motivazioni interne ai circoli letterari di generi come fantasy e horror, nelle loro nicchie critiche e nei loro pubblici. In questo senso, il problema culturale della cattiva eco razziale nell’opera letteraria viene affiancato da evidenti investimenti emotivi dei suoi diversi pubblici e degli addetti ai lavori, che vanno a intrecciarsi con i giudizi sul valore letterario dell’artista. Joshi, per esempio, difende Lovecraft dalla prospettiva dichiarata di un “leftist” e “only person of colour” impegnata sulla critica di Lovecraft per diversi decenni, con all’attivo dozzine di libri non scalfiti da risentimenti personali dovuti ai passaggi infelici di Lovecraft. Criticando chi si accanisce oggi contro lo scrittore di Providence, si domanda quale sia l’orientamento morale di persone che avrebbero tratto benefici materiali dalla sua reputazione, assemblando “opportunisticamente” dei volumi ispirati alla sua fiction. Difende poi il modo in cui la critica si trasforma in giudizio negativo sullo stile di Lovecraft, definendolo un “terrible wordsmith”––brandendo la contro-accusa che Poe, Dunsany e Machen sarebbero altrettanto colpevoli di non coincidere più con lo stile “gergale e pseudo-hipster” di alcuni rappresentanti del “new weird” post-Lovecraftiano. Domandandosi quale sia il senso di attaccare selettivamente Lovecraft, invece di inseguire gli altri bersagli paralleli e correi, Joshi suggerisce che i “crociati” non sono interessati a combattere il razzismo, ma a una vendetta personale contro Lovecraft – fondamentalmente determinata da invidia e voglia di distaccarsi dalla sua ombra letteraria – facendo notare l’ambiguità delle comunicazioni ufficiali del premio Fantasy, che sarebbero prova della sua vulnerabilità al tiro di pochi lobbisti.
Sulla scorta dei commenti di Joshi, si può concludere per ora proponendo che H. P. Lovecraft, come entità letteraria, non è qualcosa che esiste in termini oggettivi e univoci, ma una costruzione culturale, una serie di diverse storie autoriali e (para)letterarie prodotte dai suoi fruitori. In un contributo su un recente reader accademico su Lovecraft, David Simmons si interroga sullo statuto di Lovecraft come autore canonizzato, al crocevia tra lo status guadagnato tramite l’inclusione nella Library of America e l’enorme ma affatto univoca rilevanza dell’autore in vari ambiti e strati della cultura pop (2013, New Critical Essays on H. P. Lovecraft, NY: Palgrave MacMillan). Adottando l’interrogativo e l’approccio decostruttivo di Simmons, è difficile dire dove Lovecraft è diretto, senza specificare la prospettiva da cui lo si osserva. Il Lovecraft di chi legge le edizioni Mondadori per distinguersi da altre non è lo stesso del Lovecraft di chi gioca a Call of Cthulhu o di chi riconosce che il film Cloverfield è l’ennesimo esempio di “Lovecraftian horror”. Da questo punto di vista, la canonizzazione del Solitario di Providence è affare complesso e ogni lettura “crea” un Lovecraft diverso. Pur restando un autore il cui statuto nella storia letteraria americana e mondiale è ormai al riparo da revisionismi, Lovecraft non è comunque un autore univoco – la complessità della sua produzione lo pone al crocevia di diverse interpretazioni e giudizi di valore, che cambiano anche a seconda delle diverse tradizioni accademiche, nazionali, critiche che lo affrontano. In ambito anglofono (lasciamo qui completamente da parte il posto di HPL in Italia), dove si sviluppa la polemica sul suo razzismo, si tratta comunque di un autore inviso all’establishment letterario dominante. Per esempio, nonostante l’inclusione nel canone della Library of America, Lovecraft non è affatto parte del canone della scholarship di Cambridge sul Gothic. Allo stesso tempo, Lovecraft sconta l’invasione di campo della critica postcoloniale nelle humanities e nei corsi di lingua e letteratura tradizionalmente intesi: nonostante sia un modern classic della Penguin, questo non vuol dire che sia diventato un autore mainstream interamente “rispettabile”, moderno e post-razziale––o che il suo mostruoso come somatizzazione dell’indifferentismo cosmico possa o debba essere digerito dal largo pubblico “politicamente corretto” (a meno che non venga edulcorato) piuttosto che finire appiattito sull’horror o incanalarsi nell’approccio del new weird.
Il problema di fondo resta nell’approccio al problema stesso del nichilismo di Lovecraft e dei rapporti che intrattiene con il razzismo: è il secondo il semplice sottoprodotto del primo, o lo precede come causa storica? La scholarship recente (senza pretesa qui di condensare la ricca letteratura esistente) ha affrontato il discorso in modi diversi: da un orizzonte di studi culturali, che pone l’enfasi sulle condizioni socioculturali delle opere, e da una prospettiva filosofica come quella di Michel Houellebecq (già interessato a Lovecraft prima di affascinare i radical chic – si veda il suo Contre le monde, contre la vie del 1991), per il quale il razzismo è inseparabile dal nichilismo filosofico. Le due prospettive offrono un’arena per affrontare il discorso. Purtroppo le concezioni razziali di Lovecraft hanno una fondazione nella storia, una genealogia, attraverso cui l’indifferenza del cosmo e la mostruosità finiscono per assumere specifiche forme razzializzate. La demonizzazione del diverso sarebbe troppo facile da ripudiare in termini puramente metafisici, ma non è detto che Lovecraft non fosse, e non resti, la prima vittima di convinzioni adottate nonostante il suo celebrato, altrimenti onnipresente acume.