La potenza dell’equilibrio: Billy Cobham in concerto al Bravo Caffè di Bologna

 

 

 

 

A Enzo Augello,

per aver “disciplinato” a suo tempo il mio “inquieto” senso del ritmo.

 

 

Il 12-13 febbraio presso il centralissimo Bravo Caffè, uno dei locali bolognesi più attivi sul piano dell’offerta di musica live per generi diversi come il jazz, il pop, il rock e il soul, si è avuto un duplice, imperdibile appuntamento: due serate in compagnia di Billy Cobham con la sua formazione “Spectrum 40”. Per i pochi che non lo conoscessero, vale la pena di ricordare che quello di Billy Cobham appartiene ai nomi che, volendo compilare un elenco ideale dei 10 o 15 batteristi (jazz, ma non solo) più influenti di tutto il Novecento, andrebbero obbligatoriamente menzionati e inseriti. Nato a Panama nel 1944 ma trasferitosi a New York con la famiglia fin da piccolo e da allora rimasto stabilmente negli Stati Uniti, Cobham appartiene quindi, in virtù della sua data di nascita e delle sue prime collaborazioni musicali di un certo livello, a una generazione importante di batteristi. Una generazione di musicisti che furono giovani e molto promettenti verso la metà/fine degli anni Sessanta, che si distinsero a quel tempo per le loro doti non comuni, e che oggi vengono unanimemente considerati come dei grandi, se non straordinari maestri. Una generazione, per intenderci, che – volendo limitarsi solo ad alcuni fra i numerosi musicisti imprescindibili per comprendere l’evoluzione tecnica, stilistica e di gusto che il drumming ha conosciuto negli ultimi decenni – include anche nomi come Tony Williams (1945-1997), Jack DeJohnette (n. 1942), Al Foster (n. 1943), Lenny White (n. 1949), Steve Gadd (n. 1945) e ovviamente ancora molti altri.

Come nel caso dei primi nomi citati in questa sintetica lista, anche Cobham ha militato, seppur brevemente, nella band di Miles Davis, cioè in quella che è stata probabilmente la formazione decisiva per la nascita stessa e quindi il consolidamento, grosso modo tra il 1968 e il 1972, del linguaggio e dello stile di un nuovo genere all’interno della gloriosa storia del jazz: il cosiddetto “jazz-rock” o, come si sarebbe detto alcuni anni dopo, la “fusion”. Pur non comparendo ufficialmente nel disco, Cobham suona infatti la batteria nel brano “Feio”, registrato nel contesto delle session per lo storico doppio album di Davis Bitches Brew (1969), autentica svolta nella produzione musicale del trombettista e, al contempo, nella storia della musica del Novecento in generale, e poi anche nei dischi di Davis Live/Evil (1971) e A Tribute to Jack Johnson (1971). Insieme a un altro “fuoriuscito” dalla band di Davis, ovvero il virtuoso della chitarra elettrica John McLaughlin, Cobham formò quindi nel 1971 la celebre Mahavishnu Orchestra, i cui album The Inner Mountain Flame (1971) e Birds of Fire (1973) fecero conoscere al mondo un modo radicalmente nuovo di far musica. Ovvero, un modo di concepire il jazz sconfinando apertamente in sonorità violentemente rock ma, al contempo, mantenendo ben salda e riconoscibile l’impronta originaria, il background jazzistico dei musicisti. Come ha scritto Alyn Shipton nella sua Nuova storia del jazz (Einaudi 2011, p. 870), la Mahavishnu Orchestra “era fragorosa, potente e aggressiva e sfruttava molte delle tecniche di distorsione e regolazione del volume utilizzate da Hendrix, oltre a cambiare tempi, tessiture e velocità d’esecuzione con sbalorditivo aplomb”: “elementi caratteristici” della band erano “l’intreccio tra le linee di chitarra di McLaughlin e quelle di violino di [Jerry] Goodman, la straordinaria varietà dello stile batteristico di Cobham, e l’energia della musica, che si distende e contrae in vari livelli di intensità”. Ad ogni modo, l’esperienza della Mahavishnu Orchestra durò solo un paio d’anni, sfiancata dai classici litigi interni alla band, e già nel 1973 Cobham avviò la propria carriera solista registrando quello che sarebbe rimasto, anche a distanza di decenni, il suo album più famoso e rappresentativo, Spectrum (1973). Da allora, Cobham ha registrato a proprio nome, cioè come leader, oltre 40 album, fino agli ultimi Tales From The Skeleton Coast (2014) e, soprattutto, Spectrum 40 Live (2015).

Principalmente, seppur non esclusivamente, alla celebrazione del quarantennale (e anche più) del disco d’esordio sono infatti dedicate le ultime, recenti performance live di Cobham con la sua band, come si è potuto ascoltare anche in occasione dei due concerti al Bravo Caffè di Bologna. Qui, Cobham si è presentato in compagnia dei musicisti Dean Brown (chitarra elettrica), Gerry Etkins (tastiere) e Ric Fierabracci (basso elettrico). Sebbene non si possa parlare di musicisti paragonabili, sia per capacità musicali “intrinseche” sia per notorietà, a molti fra quelli con cui Cobham ha calcato i palchi di mezzo mondo portando in tour le proprie composizioni (basti citare, oltre al già ricordato McLaughlin, Jack Bruce, i fratelli Brecker, George Duke, Mike Stern e altri ancora), va detto che la band ha evidenziato un notevole livello di affiatamento reciproco e di vero e proprio coinvolgimento nell’esecuzione dei brani. In diversi pezzi, comunque, si è potuto notare l’apporto strumentale del chitarrista Dean Brown, rinomato session man, che si è distinto col suo stile musicale molto fluido e accattivante, capace di suonare in modo aggressivo nei brani più hard e, invece, in modo misurato e persino “sognante” in quelli più soft. Su tutti, comunque, ha ovviamente spiccato il leader, cioè Cobham, che, all’età di 73 anni, pur non possedendo più al 100% (com’è ovvio) la medesima energia e forza propulsiva che, insieme a una precisione tecnica quasi ineguagliabile, ne resero celebre il drumming all’inizio degli anni Settanta, ha comunque eseguito alla perfezione tutti i brani (compresi quelli metricamente più complessi per la presenza di tempi dispari o quelli più “muscolari” e tirati), riservando al pubblico del Bravo Caffè anche un paio di assolo davvero notevoli. Il repertorio proposto, come si diceva, ha alternato in maniera sapiente e ben equilibrata momenti più aggressivi e veloci, capaci di esaltare le caratteristiche che hanno reso famoso lo stile batteristico di Cobham, a momenti più rilassati e soffusi, caratterizzati soprattutto dall’uso delle tastiere per creare la giusta atmosfera.

Unico neo della serata – volendo svolgere fino in fondo, per così dire, il mestiere di “critico” – è stato semmai l’ormai non eccessiva originalità, per così dire, di una proposta musicale come quella cobhamiana… Un carattere, quest’ultimo, che peraltro non sembra ascrivibile soltanto al repertorio proposto dal grande batterista ma, più in generale, a gran parte della musica che da alcuni decenni va sotto il nome di “jazz-rock” o altrimenti, come si diceva, anche “fusion”. Ciò, nel senso che la medesima sensazione di una certa “stanchezza” o, per l’appunto, non eccessiva originalità, è sorta in chi scrive, nel corso degli anni, anche di fronte alle reunion di altre formazioni storiche di questo genere musicale. Infatti, se una certa tendenza alla “istituzionalizzazione” e, di qui, “museificazione” ha corso e forse corre costantemente il rischio di affermarsi persino nelle frange più radicali del jazz, come ad esempio il “free” o, in generale, il jazz “d’avanguardia” (che riesce a mantenersi immune da tali rischi solo nei casi in cui sappia conservare grande apertura e ricettività a qualsiasi tipo di stimolo, grande spirito d’avventura e di sperimentazione ecc.), in maniera tanto più evidente tale tendenza ha finito per consolidarsi nel campo di una certa “funky-fusion”. Volendo prendere in prestito una formula piuttosto incisiva dal filosofo Theodor W. Adorno – che notoriamente, peraltro, detestava il jazz (!), considerandolo nulla più che una moda: “una moda senza tempo”, per citare il sottotitolo di un suo celebre saggio sull’argomento – si potrebbe parlare, in questo come in molti altri casi, di una sorta di “invecchiamento della nuova musica”. Ovvero, di un progressivo indebolimento (a causa di una flebile capacità di messa in discussione delle certezze acquisite e, di qui, di spinta al rinnovamento) di fenomeni che, in origine, si erano contraddistinti invece per la propria forza dirompente, per il proprio impatto, per la capacità di far breccia in determinati scenari musicali (qui, quello del jazz di fine anni Sessanta/inizio anni Settanta) grazie alla propria carica sovversiva rispetto agli schemi tradizionali e consolidati. Parafrasando e insieme capovolgendo un’idea di Marx (già ripresa a suo tempo da Marshall Berman nel titolo di un suo famoso libro), se lo spirito della modernità era racchiudibile nell’idea che “tutto ciò che è solido si dissolve nell’aria”, parecchie esperienze artistiche e, più in generale, culturali della cosiddetta postmodernità (assumendo qui il concetto in maniera molto ampia e generica, cioè più che altro per indicare un determinato periodo storico, dagli anni Settanta a oggi) sembrano invece suggerire che ciò che aveva contribuito in un certo momento a “dissolvere” tutto ciò che era “solido” corre il rischio, col passare del tempo, di “solidificarsi” a sua volta…

Ad ogni modo, queste ultime sono solo considerazioni un po’ generali che riguardano un certo segmento della storia della musica jazz, rock, funky ecc. più o meno recente, e che, dunque, non concernono specificamente il concerto di Billy Cobham al Bravo Caffè. Un concerto che, come si diceva, è apparso convincente sotto molti punti di vista. D’altra parte, bisogna anche aggiungere, a proposito della succitata questione della spiccata originalità o meno di certe proposte musicali, che pretendere il “rinnovamento”, in una qualsivoglia accezione del termine, da un musicista di 73 anni che a suo tempo è stato indubbiamente un pioniere del “nuovo”, potrebbe anche apparire un po’ eccessivo… A maestri come Cobham e altri della sua generazione, infatti, si deve già essere grati per la loro sapienza, per la loro conseguita e pienamente meritata “classicità”, per la dedizione allo spirito d’improvvisazione del jazz e la voglia di trasmetterlo alle giovani generazioni, nonché, sul piano specifico del drumming, per quella che definirei qui la potenza che si manifesta nel loro equilibrio. Una potenza nell’equilibro, dunque, che si esprime sia sul palco, sia più in generale nel loro atteggiamento verso la musica e verso il pubblico. Mi riferisco, con ciò, a un passaggio del concerto che mi ha sinceramente colpito, ovvero al momento in cui Cobham, nel presentare i musicisti della band e nel ricordare al pubblico la possibilità di acquistare i cd al termine dello show, si è rivolto agli spettatori con le seguenti parole: “Thanks for supporting us. Without you we would not exist”. Di fronte a tanti (pseudo)musicisti giovani e a volte giovanissimi, nel campo del jazz ma forse ancor più nel rock, ancora incapaci di padroneggiare appieno il proprio strumento e/o di produrre qualcosa di degno di esser classificato col nome importante e finanche ingombrante di “composizione”, ma già pieni di sé, egocentrici sul palco e fuori dal palco, atteggiati a geni assoluti o talenti indiscussi di cui il mondo, a sentir loro, non potrebbe fare a meno: di fronte a fenomeni del genere, che ciascuno di noi purtroppo può osservare frequentemente in TV, su Internet o per l’appunto ai concerti, quello di Cobham, con quella frase così semplice ma al contempo così incisiva e genuina, ha rappresentato un tipico esempio del grande understatement che è dato riscontrare solo nei veri maestri.



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