edoardo sanguineti

“Si conosce per persuadere, al minimo per persuadersi”. Un ritratto di Edoardo Sanguineti

Sono trascorsi dieci anni dalla morte di Edoardo Sanguineti. Molto è cambiato da allora ma la voce dell’intellettuale risuona oggi con forza per la sua capacità di parlarci del nostro presente. Non sorprende dunque che la sua opera di poeta, critico letterario, politico e ideologo sia ora più che mai indagata attraverso attente riletture e nuove ricerche.

Ciò che è seguito alla sua scomparsa non è stato semplicemente il tentativo di sistematizzare un’opera, di storicizzare un autore, ma si è trattato di una paziente attività critica motivata, nel caso di Sanguineti, da un vero e proprio desiderio di fare tesoro del suo prezioso lavoro intellettuale e delle riflessioni di una vita. Un compito che dopo dieci anni è lungi dall’essere concluso e che per il futuro pone sfide di notevole interesse; nell’auspicio che la critica si riveli una pratica sociale e non solo individuale per riuscire così a cogliere la voce di Sanguineti in tutta la sua stringente attualità.

Sarà utile dunque chiedersi da quale punto convenga partire per una riscoperta di un’opera multiforme, condotta sui fronti più diversi ma al contempo sempre con affilatissimi strumenti critici e capace di un rigore e una coerenza rara, tanto da farne «l’ultimo intellettuale del Novecento» per il suo carattere «universale» secondo Romano Luperini[1].
Di fronte alla situazione del mondo attuale, per cui si prospetta una crisi globale senza precedenti, emerge in tutta la sua drammatica concretezza l’inconsistenza di tante belle favole sulla fine della storia e delle ideologie che ci hanno assopiti negli ultimi trent’anni. Eppure, la voce di Sanguineti non ha mai cessato di tuonare di fronte alle sirene di quella che lui chiamava «l’ideologia della fine delle ideologie»[2]
Varrà dunque la pena ripartire dall’incessante lavoro di Sanguineti nella decostruzione e nella messa in discussione delle ideologie (e segnatamente dell’ideologia borghese) e dal suo impegno attivo nel modificare la realtà. Un malizioso auto-inganno, quello della fine delle ideologie, che Sanguineti non aveva mai cessato di svelare anche attraverso la riflessione sull’arte e sulla letteratura.

Le parole di Sanguineti risuonano anche attraverso la scoperta di nuovi documenti d’archivio, come le lettere inviate all’amico Enrico Filippini[3] Colpisce dalla lettura del carteggio la volontà dialettica dei due interlocutori di verificare, analizzare e comprendere la società, la cultura, l’arte e l’ideologia italiana, e l’auto-riflessione sul loro ruolo d’intellettuali: Filippini era in quegli anni implicato nell’industria culturale (presso Feltrinelli, il Saggiatore e Bompiani), Sanguineti era impegnato nell’insegnamento universitario oltre che nell’attività letteraria, giornalistica e da li a poco politica. Già negli anni Settanta, in un documento ritrovato nell’Archivio di Enrico Filippini, oltre che a prendere atto della fine della dialettica, Sanguineti denunciava una «smemoratezza di ideologia, un’ideologia dell’assenza di ideologia, un vuoto di ideologia»[4]: in sostanza la perdita della coscienza di classe da parte del proletariato che decretò la fine del comunismo e di ogni pensiero critico sul capitalismo.

  1. Ideologia e linguaggio

A partire dal passaggio da una posizione anarchica a quella del materialismo storico, avvenuta sul principio degli anni Sessanta, a guidare l’intera attività di Sanguineti è stata la convinzione di un nesso inscindibile tra ideologia e linguaggio: la certezza che non esista ideologia che non passi attraverso le parole e che, parimenti, non esista scrittura che non sia in rapporto con l’ideologia, per il motivo che la lingua è un fatto storico. Da qui la necessità di passare al vaglio il linguaggio, e, in primo luogo, la funzione sociale dell’arte e il suo funzionamento al tempo del fenomeno della massificazione (inteso come produzione a livello industriale dell’ideologia piccolo-borghese e del suo gusto), ma anche il ruolo e l’ideologia degli intellettuali.
L’obiettivo da colpire è la capacità dell’ideologia borghese di assorbire e neutralizzare i contrasti; per cui la sua egemonia appare ai nostri occhi come “naturale” e non storicamente determinata. Ciò vale per l’enorme movimento culturale, politico, sociale ed economico che ci circonda e che proprio attraverso il linguaggio veicola l’ideologia della classe dominante.

Sanguineti ci rende attenti all’immensa portata del lavoro della tradizione culturale, e al falso effetto, «per cui le cose sembrano tutte lì per natura, anche le realtà storiche»[5], consapevolezza che il giovane Sanguineti aveva acquisito con la lettura dei saggi di Mythologies (1957) nei quali Roland Barthes, partendo dall’assunto che fosse il mito a trasformare la storia in natura, aveva riconosciuto nell’ideologia borghese la tendenza a trasformare la realtà del mondo in immagine del mondo, la Storia in Natura.
Nelle lettere a Enrico Filippini possiamo cogliere il passaggio dalla posizione anarchica, che caratterizzava l’opera di esordio di Sanguineti Laborintus (Magenta, Varese 1956), a quella del materialismo storico della terza silloge Purgatorio de l’Inferno (Triperuno, Feltrinelli, Milano 1964); nella quale Sanguineti si serve dello strumento dell’“enumerazione caotica”, concetto caro a Leo Spitzer, per contestare l’ideologia borghese. Dietro l’apparente ordine “naturale” del linguaggio non c’è altro che l’ideologia borghese che tende a fare sembrare naturale tutto ciò che invece è convenzione storicamente determinata. Enumerando il caos nelle sue poesie Sanguineti ricorda che l’ordo naturalis è la maschera consolatoria dietro cui l’avanzata società neocapitalistica nasconde – nel e attraverso il linguaggio – la sua ideologia e la sua vera condizione: essa non è né la società umana “naturale” e nemmeno quella “storica” bensì – a conti fatti – essa è, marxianamente, la «preistoria» della società umana.

Edoardo Sanguineti, Enrico Filippini, Cosa capita nel mondo
(a cura di Marino Fuchs, Mimesis Edizioni, 2018)

A quel tempo, l’idea di Sanguineti era che la rivoluzione nel campo del linguaggio artistico potesse essere, in qualche misura, allegoria della rivoluzione in quello politico e sociale. Un’idea che aveva guidato buona parte della Neoavanguardia nella prima parte degli anni Sessanta. Sanguineti pensava al comunismo come alla realizzazione storicamente concreta degli ideali anarchici: sia Marx che gli anarchici miravano alla «libera affermazione ed espansione della personalità umana»[6]. La differenza era che Marx pensava che questo «sarebbe stato un risultato storico» mentre gli anarchici «erano degli utopisti […] erano quelli del “vogliamo tutto e subito”»[7]
Per la stessa ragione Sanguineti guarderà con sospetto nel Sessantotto quei gruppi che concepivano la rivoluzione nei termini della rivolta. Essi dimostravano, secondo Sanguineti, l’impazienza di «cambiare la vita» senza «cambiare le strutture», tipico del radicalismo borghese. Sanguineti era persuaso che comprendere la necessità di cambiare le strutture fosse il passo fondamentale per diventare marxista.

  1. Il dire artistico come prassi, come modifica della realtà

Alla luce di questo dato si può leggere l’intero percorso sanguinetiano, l’impegno di modificare l’arte, di innovare il linguaggio attraverso la ricerca e lo sperimentalismo, di passare al setaccio critico la letteratura, con la certezza che «modificando l’arte, si modifica la mente, e si può così avviare una vera e progressiva rivoluzione dei comportamenti sociali, onde pervenire a mutare il mondo, a cambiare la vita»[8]. Il dire artistico è un fare per Sanguineti, il quale aderisce a una filosofia della prassi «per cui il senso della verità e il senso delle cose lo si fa, non c’è»[9], e non crede che esista un’autonomia del discorso estetico.

Da qui l’attenzione di Sanguineti alla funzione sociale dell’arte, all’attività sociale, collettiva, attraverso la quale la classe dominante costruisce una propria tradizione, una propria egemonia culturale; e, parimenti, l’interesse per «le avanguardie, la ricerca, la sperimentazione, il delirio, il patologico del mondo moderno»[10] e il tentativo di sabotare, scardinare quello che Sanguineti definisce “il poetese”:

il “poetese” è una categoria non dico metastorica – perché di quelle non ne esistono – ma è una categoria che si riproduce, che si modifica nel tempo. Ogni momento storico viene egemonizzato da un gruppo sociale che ha una certa sua idea del poetico, che seleziona oggetti, temi, forme, linguaggi e si costruisce dei meccanismi di produzione poetica a colpo sicuro.[11]


Per Sanguineti e per molti intellettuali del Gruppo 63 implicati nell’industria culturale negli anni Sessanta, come Enrico Filippini, non si trattava di rifiutare il potere, ma di prenderlo per fare un altro potere, alternativo, proporre un “antipoetese” che potesse istituzionalizzarsi e prendere il posto dell’espressione dell’ideologia dominante; ciò nel preciso momento storico in cui con l’espansione dell’editoria si avvertiva il pericolo del moltiplicarsi di prodotti che assecondavano trivialmente il gusto del pubblico, perpetrando un’ideologia negativa, una falsa coscienza forse tranquillizzante, ma incapace di offrire schemi interpretativi per le sfide del presente.

La battaglia nei confronti dell’industria culturale fu certamente persa, come già Sanguineti e Filippini rilevavano all’inizio degli anni Ottanta, ma diverso è il risultato sul piano delle conseguenze culturali e intellettuali lasciate dall’epoca neoavanguardista. Gli strumenti critici messi in campo in quella stagione ci permettono oggi di interpretare quanto accaduto dopo.

  1. L’arte e la persuasione occulta

Sanguineti nella discussione intorno alla funzione dell’arte rivendicava l’importanza dell’eredità di Gramsci. Era convinto che i messaggi estetici a qualunque livello fossero dei messaggi di organizzazione di consenso, di persuasione sociale e che l’arte non fosse interpretabile al di fuori del suo funzionamento reale nel meccanismo sociale.
Perciò egli riteneva il trattato sulla pubblicità di Vance Packard Persuasori Occulti (The Hidden Persuaders, 1957) come «il più bel trattato di estetica» del Novecento, in quanto leggendo come agisce in pubblicità la persuasione occulta «capisco molto di più cosa succede intorno ai meccanismi della poesia che leggendo l’Estetica di Benedetto Croce»[12].
Per Sanguineti, nella fase moderna ci si era resi conto che l’arte era sempre stata una forma di persuasione più o meno occulta. A ridosso della modernità, con il mito dell’arte per l’arte, l’artista si era rifiutato di persuadere, ma in realtà aveva così operato un passaggio dalla persuasione esplicita a quella occulta. Non si tratta per Sanguineti di negare una funzione conoscitiva dell’arte o di opporla a quella conativa, ma di accettare l’idea che non esiste una funzione conoscitiva senza una funzione ideologica.
La grande potenza del discorso letterario è di passare dei contenuti ideologici che non avrebbero la stessa efficacia se fossero brutalmente ostentati: il “trucco” poetico è quel malizioso discorso, come spiega a suo modo Packard, per cui in superficie sta una certa cosa, di sotto ne passa un’altra, di persuasione occulta. L’arte è un “ditelo con i fiori”, potrebbe essere il motto del poeta; per cui elaboro una cosa vagamente incantatoria, seduttiva, e intanto io vi trascino a pensare come penso io, e ad agire di conseguenza.[13]
Tale consapevolezza spingeva il poeta Sanguineti a misurare l’ideologia di un autore (e la propria) nelle zone della produzione dalla tematica apparentemente neutra, per valutare come la persuasione occulta agisse tramite il linguaggio (pittorico, linguistico, ecc.); egli dichiarava l’importanza del «continuo mettere alla prova la propria ideologia, non solo in senso privato – proviamo a parlare di rose per vedere che cosa penso veramente del mondo – ma anche in senso pubblico»[14].
Il poeta deve controllare le possibilità della propria ideologia anche in funzione dell’ideologia che promuove pubblicamente, per vedere «quale modo diverso di rappresentazione simbolica» è possibile per sottrarre agli avversari «quei territori sui quali si sono cristallizzati, depositati delle immagini-cliché che rappresentano delle ideologie precostituite»[15].
Così la «persuasione occulta» diventa «disvelatrice di quella che è la funzione sociale dell’arte»[16]: le opere d’arte sono a suo avviso «test su cui si confrontano le visioni del mondo, il modo di interpretare non solo quel testo ma come test di organizzare il proprio sistema di pensiero»[17]; esse sono, citando un’immagine cara a Sanguineti, tanti test di Rorschach con cui si esplica il funzionamento sociale dell’arte, ovvero sono il «luogo socialmente deputato ai conflitti interpretativi» dove si vede come reagiscono i vari soggetti[18]. Il poeta ripensando all’inizio del suo percorso creativo giudicava di avere avvertito un’insufficienza rispetto ai test prodotti che lo aveva spinto a creare a sua volta dei testi per misurare «una serie di nodi, di problemi, di questioni che ingombravano la [sua] esistenza», il suo «essere sociale»[19].

  1. La critica come rifunzionalizzazione

Nella sua attività critica Sanguineti era convinto che di fronte alle opere d’arte funzionali all’ideologia borghese non restasse altro che «rifunzionalizzare», ovvero «convogliare il messaggio orientato in una certa direzione in un’altra»[20]. Il compito della critica è quindi per Sanguineti quello di perseguire l’unica verità che valga la pena cercare: «la maggiore maturità di coscienza storica possibile»[21].
Sanguineti, parafrasando Benjamin, ha più volte messo l’accento sul carattere violento delle interpretazioni successive di un testo: il patrimonio culturale viene sempre trascinato come preda dal carro dei vincitori. Il suo obiettivo critico era quello di strappare alcune opere all’antologia della scuola borghese, per mettere in risalto il loro significato oltre l’ideologia che veicolavano.
Proprio la riflessione sanguinetiana intorno alla rifunzionalizzazione del testo letterario ci suggerisce l’importanza di una critica militante capace di leggere le opere al di là delle intime motivazioni degli scrittori (della loro buona o cattiva fede) e di cogliere la verità storica dei testi, il loro legame con il mondo e la realtà in cui viviamo.

[1]R. Luperini, “Sanguineti, l’ultimo intellettuale” in Id., Dal modernismo a oggi. storicizzare la contemporaneità, Carocci, Roma 2018, p. 96.
[2] E. Sanguineti, Atlante del Novecento italiano: la cultura letteraria, a cura di E. Risso, Manni, San Cesario di Lecce 2004, p. 43.
[3] E. Sanguineti, E. Filippini, Cosa capita nel mondo. Carteggio (1963-1977), Mimesis, Milano-Udine 2018.
[4] Biblioteca cantonale di Locarno, Archivio Filippini, 5.3.36, Inediti, L’ideologia italiana, trascrizione del colloquio Filippini-Sanguineti [1976], p. 81.
[5] E. Sanguineti, “I libri che ho letto”, in Moderni e Antichi. Quaderni del Centro di Studi sul Classicismo, n. I, 2003, p. 46.
[6] Ivi, p. 49.
[7] Ibid.
[8] “Praticare l’impossibile”, in Ideologia e linguaggio, Feltrinelli, Milano 1964, p. 186.
[9] E. Sanguineti, I libri che ho letto, cit., p. 49.
[10] Ivi, p. 48.
[11] Ibid.
[12] Ivi, p. 57.
[13] Ivi, p. 58.
[14] Biblioteca cantonale di Locarno, Archivio Filippini, 5.3.36, Inediti, L’ideologia italiana, trascrizione del colloquio Filippini-Sanguineti [1976], p. 142.
[15] Ibid.
[16] Ivi, p. 143.
[17] Ivi, p. 144.
[18] Ibid.
[19] Ivi, p. 145.
[20] Ivi, p. 81.
[21] Ivi, p. 86.




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