Dmitri Nabokov: un personaggio in carne e ossa

Vladimir, Vera, Dmitri. Più di una famiglia, i Nabokov sono stati un’impresa all’interno della quale ciascun membro ha occupato un ruolo ben definito. Dietro al successo dello scrittore nato a San Pietroburgo, del quale domani cadrà l’anniversario della scomparsa (2 luglio 1977), l’importantissimo lavoro sottotraccia della moglie Vera e, successivamente, l’arrivo dell’erede Dmitri, dapprima fonte di ispirazione per alcuni romanzi, e poi traduttore delle opere del padre nonché esecutore testamentario.
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Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore (Mimesis Edizioni, 2022), Chiara Montini ha ricostruito la vicenda della famiglia.
Su Scenari proponiamo un passaggio del volume nel quale viene tracciato un profilo della figura di Dmitri, “il traduttore preferito” di Vladimir.

Nella sua autobiografia Nabokov si rivolge a una seconda persona, “you”, “вы”, Vera, la moglie e la madre dell’unico figlio su cui si conclude l’ultimo capitolo di Parla, ricordo. L’amato e tanto atteso Dmitri veniva alla luce pochi anni prima dell’imminente partenza per gli Stati Uniti, in una Berlino dove nelle vetrine “fiori primaverili adornavano i ritratti di Hindenburg e di Hitler.” La nascita del figlio ha qualcosa di miracoloso per i Nabokov. E di minaccioso. I segni della violenza del nazismo pervadono l’Europa.

Quel 10 maggio del 1934 la futura puerpera si reca in ospedale in taxi accompagnata dalla cugina, Anna Feiguin. A parte i tre familiari e il fratellastro di George Hessen con cui Nabokov avrebbe giocato a scacchi nell’attesa del lieto evento, nessuno sa che Vera è incinta. Mrs. Nabokov riesce a camuffare la sua gravidanza, a fingere anche in questo caso che tutto scorre immutato!  Dmitri nasce alle 11 di sera.  Non per il padre, però: “Stavo tornando a casa, alle cinque del mattino, dal reparto maternità dell’ospedale nei pressi della Bayerischer Platz dove ti avevo accompagnato un paio d’ore prima”, scrive in Parla, ricordo. Distrazione? Inesattezza? Quell’aggiustamento temporale gli permette di descrivere la città in un orario inconsueto:

“Non avevo mai visto prima quella strada all’alba, pur essendoci passato spesso, ancora senza prole, al tramonto.”

Nella limpidezza e nel vuoto di quell’ora meno familiare, le ombre si trovavano sul lato sbagliato della strada, con un effetto di inversione non privo di eleganza, come quando nello specchio di una barberia si vede riflessa la vetrina verso la quale il melanconico barbiere volge lo sguardo mentre affila il rasoio (come fanno tutti in simili circostanze) e, incorniciato in quel riflesso, un tratto di marciapiede che smista una processione di noncuranti pedoni nella direzione sbagliata, in un mondo astratto che di colpo smette di essere divertente e libera una fiumana di terrore.
Come le ombre all’alba, anche la sua vita si è rovesciata. Da figlio è diventato padre. Il felice evento si associa a una “fiumana di terrore” che non nasce solo dalla minaccia incombente del nazismo. Nabokov rivive il sentimento di panico che lo pervade all’idea di perdere un essere amato, come aveva perso improvvisamente e inaspettatamente il padre, vittima di un assassinio. Non è un caso che tanti dei protagonisti dei suoi romanzi siano colpiti da lutti terribili.
Quella paura, cui si viene ad aggiungere la difficoltà della situazione in cui versava la famiglia sfocia in un sentimento di protezione quasi morboso: “Durante gli anni d’infanzia del nostro bambino, nella Germania di Hitler e nella Francia di Maginot, eravamo più o meno costantemente in difficoltà economiche”, scrive Nabokov. “Amici meravigliosi”, continua, si “adoperavano in modo che [Dmitri] avesse quanto c‘era di meglio” mentre “parche amiche” tamponavano qualsiasi crepa che “potesse aprirsi tra la sua infanzia e gli incunaboli del nostro passato opulento”.
Protetto e viziato, Dmitri conferma e ricorda con piacere i privilegi di cui godeva, mentre chi frequenta la famiglia percepisce l’anomalia. 
Ne Il corsivo è mio, Nina Berberova immortala il suo primo imbarazzante incontro con quel “bambino di una bellezza eccezionale” nell’esiguo appartamento parigino dove viveva la famiglia.
Ancora convalescente dopo un’influenza debilitante, Nabokov condusse Berberova nella camera dove il figlio giocava beato circondato da una miriade di giocattoli. A un certo punto il padre gli porse un guantone da boxe:

“Dicendogli di mostrarmi le sue capacità, e il bambino, infilato il guantone, cominciò a colpire Nabokov sul viso con tutta la forza che aveva. Vedevo che gli stava facendo male, ma sorrideva e sopportava. Era un allenamento per lui e per il bambino.  Terminato il gioco uscii dalla stanza con una sensazione di sollievo.”

Un altro episodio non meno inquietante è riportato da Brian Boyd:

“Durante un ricevimento dei genitori nel loro piccolo appartamento, giocava con un aeroplanino nella stessa stanza, amplificando il rumore del giocattolo col proprio ruggito selvaggio. Il rumore era assordante, ma i Nabokov gli permettevano di continuare. Elizaveta Marinel suggerì a Dmitri: ‘La gente non sente. Non si riesce a parlare. Andiamo in camera tua’. Sedette con lui nella camera adiacente perché la festa potesse continuare. I genitori facevano capolino ogni dieci minuti, grati e a disagio per il sacrificio cui si immolava la nuova amica per il buon svolgimento della serata.”

Il piccolo Nabokov non è del tutto avulso dalla realtà e alla benefattrice della serata confessa, riferendosi alla propria famiglia: “Facciamo una vita davvero dura”.
Forse è proprio a causa delle ristrettezze economiche che i Nabokov si vedono costretti a prolungare lo sgradito soggiorno berlinese. Malgrado le origini ebree, che non celava, Vera Evseevna aveva ancora un buon lavoro, le sue eccezionali abilità linguistiche la rendevano preziosa. Fu anche una forma di indolenza a trattenere il piccolo nucleo familiare nella città che era stata uno dei principali rifugi degli esuli russi post-rivoluzione.
Solo un gravissimo evento riuscì a spezzare l’inerzia e li convinse a lasciare la Germania: il Generale Biskupski, eletto a capo del Russische Vertrauensstelle nel 1936, scelse come suo vice Sergej Taborickij, l’assassino di V. D. Nabokov.

Nabokov organizzerà allora la sua partenza per la Francia sia per cercare un lavoro stabile sia per promuovere e far fruttare la sua opera. Conosciamo il seguito. Nel maggio del 1937, dopo varie tribolazioni, si ricongiungerà con Dmitri e Vera a Praga dove il bambino incontrerà per la prima e ultima volta la nonna, Elena Nabokov. In seguito, il trio, padre, madre e figlio, finalmente riunito, si stabilirà in Francia. Dmitri bambino, ricorda di “aver visto in lontananza la donna in piedi, slanciata, agitata” in una spiaggia sovrastata da nuvole minacciose. La donna è Irina Guadanini. In quel momento tempestoso “i proiettori sono puntati sui fondamentali: sono con mia madre e mio padre che stanno discutendo in modo sommesso ma agitato.”
Segnato dall’evento e dalla crisi che ne consegue, Dmitri si fa portavoce della fine dell’unica relazione extraconiugale che sembrò intaccare la granitica forza della mitica coppia V. & V. Nabokov.  Diventata di pubblico dominio quella falla, quel corpo estraneo che si introduce alterando momentaneamente i meccanismi ben rodati della famiglia, dev’essere riparata.
In Francia rimarranno ancora per circa tre anni. All’ultimo momento utile, nel maggio del 1940, i Nabokov sono in partenza per l’America. È sulla Vecchia Europa, su Dmitri e sul piroscafo in lontananza che sono puntati i proiettori in chiusura di Parla, ricordo:

“Tutto a un tratto, arrivati in fondo al sentiero, tu e io vedemmo qualche cosa che non additammo subito al nostro bambino per goderci appieno il trasalimento di felicità, l’incanto e l’esultanza che avrebbe provato scoprendo dinanzi a sé, gigantesco al di là di ogni verosimiglianza, reale al di là del reale, il prototipo delle varie navi giocattolo con le quali si era trastullato nella vasca da bagno. Là di fronte, dove una fila spezzata di case si ergeva tra noi e il porto e lo sguardo si imbatteva in ogni sorta di trabocchetti quali indumenti intimi rosa e azzurro pallido intenti a ballare un cakewalk su un corda del bucato, o una bicicletta da donna e un gatto soriano che stranamente condividevano un rudimentale balcone di ferro battuto, era quanto mai appagante scorgere, tra gli angoli affastellati di tetti e muri, lo splendido fumaiolo di un piroscafo affacciarsi da dietro la corda del bucato come fosse l’elemento di un rebus – ‘Trovate Quel che Ha Nascosto il Marinaio’- che non si può non vedere, una volta scoperto.”

Chiara Montini, Il clan Nabokov. Quando l’erede è il traduttore (Mimesis Edizioni, 224 pag., 22 €, 2022)

L’immagine conclusiva è l’esempio di quanto la realtà si confonda nel ricordo diventando fonte di sorpresa, sospensione dell’incredulità.
Non è un caso che l’autobiografia di Nabokov si concluda qui. La chiusura rimanda a quel magico momento, rappresentato all’inizio del volume, in cui l’autore rivede il proprio “minuscolo io intento a celebrare, in quel giorno di agosto del 1903, la nascita della vita cosciente”.
Nabokov è circondato dai genitori e avverte per la prima volta che “l’essere ventisettenne avvolto di bianco e rosa vaporosi, da cui ero tenuto per mano a sinistra, era mia madre, e che l’essere trentasettenne vestito di un rigido bianco e oro, da cui ero tenuto per mano a destra, era mio padre”. 
La scena si svolge nella tenuta di Vyra e l’idillio di quell’immagine resterà immutato nel tempo. Ora, invece, è Dmitri che, mano nella mano con i suoi genitori, è catapultato nel mondo cosciente quando intraprende quel viaggio verso nuove terre.
All’abbigliamento che V. D. Nabokov indossa per gioco, “la spendente uniforme della Guardie a cavallo, con la liscia curva dorata della corazza”, viene a sostituirsi un giocattolo altrettanto maestoso: il transatlantico che li porterà in salvo. Accompagnando il movimento circolare del tempo, che la memoria preserva, Nabokov celebra qui un legame di amore infinito:

“Niente da fare; devo sapere dove mi trovo, devo sapere dove siete voi, tu e mio figlio. Quando questa esplosione d’affetto silenziosa, al rallentatore, si verifica dentro di me dispiegando le sue frange struggenti e sopraffacendomi con il senso di qualche cosa di molto più vasto, molto più duraturo e possente dell’accumulo di materia o di energia in qualsiasi cosmo immaginabile, allora la mia mente non può che darsi un pizzicotto per capire se è davvero sveglia. Devo fare un rapido inventario dell’universo, proprio come chi in sogno cerca di rimediare all’assurdità della sua situazione accertandosi che sta solo sognando. Devo fare in modo che tutto lo spazio e tutto il tempo partecipino alla mia emozione, e al mio amore mortale così da eliminare lo spigolo della sua caducità, aiutandomi a combattere l’avvilimento, il ridicolo e l’orrore estremi di aver sviluppato un’infinità di sensazioni e di pensieri all’interno di un’esistenza finita.”

“Quell’infinità di sensazioni e di pensieri all’interno di un’esistenza finita” la ritroviamo, sublimata, in tutta l’opera nabokoviana.
In questo senso, l’unico figlio adorato si ritrova, quasi ineluttabilmente, non solo a essere fonte d’ispirazione di alcuni personaggi dei romanzi del padre (nei quali talvolta sembra identificarsi) ma anche a fungere, più tardi, da tramite, traducendo, tramandando, trasmettendo, e seguendo la tradizione della famiglia. Talora anche tradendo.
La Vera vita di Sebastian Knight ha qualcosa di profetico. Dmitri Nabokov, grazie al nome che porta – e non solo – ricongiunge il presente al passato e rappresenta la continuità. Se Vera era stata la Mnemosine di Nabokov (ricordiamo che Speak, Mnemosine fu uno dei titoli proposti da Nabokov per la sua autobiografia), Dmitri ne è la “memoria” per la posterità.

“Speak on, Memory”

Per svolgere il suo ruolo di “memoria” e per parlare al contempo di sé, Dmitri Nabokov ricorre agli appunti per un’autobiografia del padre. I suoi ricordi si inscrivono nella continuità di quelli del padre come se le vite di Nabokov senior e junior si intrecciassero intorno a un’unica trama. Il primo aveva pensato a una seconda parte di Speak, memory, temporaneamente intitolata Speak, memory 2, poi Speak on, memory (“Continua a parlare, ricordo” – o “memoria”), che non porta a termine. In principio il figlio riprende gli appunti inediti del padre per scrivere la prefazione alla nuova versione di Speak, memory per la casa editrice Penguin. Cosicché, il 25 giugno del 1999 scrive all’agente Nikki Smith: 

“Ma per fare l’S,M [Speak, Memory] soprattutto se breve, devo lavorar duro e comprimere una grande quantità di materiale ottimo. La gentile Anna farebbe meglio a smettere di scalpitare. Lo voglio fare, davvero, ma mi rifiuto di ritrovarmi in una situazione che ricorda anche solo lontanamente quella con Beacon.”

Contrariamente a quanto accadde per Beacon con la traduzione di Father’s butterflies, che procrastinò per vari anni esasperando l’editore, questa volta Dmitri non finirà la prefazione a quel volume. Speak, Memory uscirà con un’introduzione di Brian Boyd e comprenderà, postumo, il divertente capitolo 16 in cui Nabokov si atteggia a critico della propria opera.
Non sarà né il primo né l’ultimo dei “non finiti” dimitriani, anche se esistono altri suoi lavori – introduzioni, postfazioni, memorie, interviste, tutti correlati all’opera del padre – dall’esito più felice.
In realtà, Dmitri aveva già redatto buona parte di quella prefazione. Ma l’aveva caricata di polemiche che riguardavano più lui (anche se nella sua qualità di erede) che il padre, mentre non era riuscito, come era sua intenzione, a integrare le bozze di Speak on, memory al proprio pezzo. Dmitri passa allora a un nuovo progetto, più ambizioso, su cui medita da anni: invece della prefazione, scriverà la propria Speak on, Memory, ispirandosi agli appunti del padre, integrandoli, e spiccando poi il volo con le proprie ali per parlare di sé.



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