L’improvvisazione, gli Area, la musica contemporanea. Intervista ad Ares Tavolazzi.

A fine agosto 2023 abbiamo incontrato e posto qualche domanda al contrabbassista italiano Ares Tavolazzi: quella che segue è la trascrizione della nostra intervista. Tavolazzi entra a far parte degli Area (International POPular group) nel  1973 e vi rimane fino al 1979, anno della prematura scomparsa di Demetrio Stratos, frontman della band e pietra miliare dello sperimentalismo e della ricerca vocale. Il contrabbassista partecipa all’attività live della band, alla stesura e all’incisione dei dischi del gruppo, prendendo parte, difatti, alla scrittura di uno dei capitoli più importanti della storia della musica italiana e internazionale. A questo importante capitolo con gli Area, costituito da uno sperimentalismo musicale avanguardistico e da una attività live emblematica, a partire dagli anni ’70 fino ai primi anni 2000,  si alterna, un’altrettanto importante attività di turnista nei dischi dei più importanti cantautori e musicisti italiani, tra cui ricordiamo Guccini, Paolo Conte, Antonello Venditti, Lucio Battisti, Zucchero Fornaciari, Lucio Dalla, Gianni Morandi, Stefano Bollani. La sua strabiliante carriera, costellata di nomi importanti e dischi di interesse nazionale e internazionale, lo conduce fino ai giorni nostri che lo vedono impegnato in numerosi progetti nel mondo del jazz. 

In questa intervista abbiamo avuto l’occasione di ripercorrere diversi aspetti dell’esperienza con gli Area: dal ruolo dell’improvvisazione, passando per i rapporti con la casa discografica fino alla musica live e al pubblico. Dall’esperienza con gli Area ci siamo spostati, infine, sul mondo dei turnisti negli studi di registrazione, fino all’approdo ad alcune considerazioni generali sulla situazione attuale della musica. Una testimonianza preziosa di chi, con le proprie mani, ha avuto un ruolo attivo e fondamentale nella storia della musica italiana novecentesca e di chi, con i propri occhi e le proprie parole, ci racconta un mondo ormai lontano di fare, intendere e vivere la musica. 

Qual era il ruolo dell’improvvisazione nel processo creativo e di  composizione dei brani degli Area?

Il ruolo dell’improvvisazione nella musica degli Area era una parte integrante, forse la più importante. L’improvvisazione pensata a largo raggio: da quella di tipo classico, sulle strutture degli standard a quelle della musica Free. Queste due cose erano, diciamo, la formula improvvisativa sulla quale ci muovevamo, a seconda del bisogno e delle esigenze.

Sia nel periodo degli Area sia in tutta la sua carriera: come si sente sul palco e, alla luce di quanto detto sull’improvvisazione, come si pone in relazione alla libertà di potersi esprimere?

Io ho scoperto l’improvvisazione abbastanza tardi, cioè con gli Area: prima mi occupavo d’altro musicalmente, ovvero di musica che non teneva conto della parte improvvisativa. Con gli Area ho scoperto il Free, il jazz di Bill Evans, John Coltrane. Dopo aver sperimentato il Free con gli Area sugli ascolti di Ornette Coleman, abbiamo inserito questo tipo di dimensione in contesti diversi, riguardanti la musica etnica dell’est Europa. Posso parlare di quello che è per me l’improvvisazione quando sono su un palco. È una sensazione di totale libertà; questo cosa vuol dire? Vuol dire che il pensiero, durante l’improvvisazione, ha almeno due modalità: una è la modalità del pensiero razionale che tiene conto dell’armonia del brano che si sta eseguendo e, quindi, è collegato a ciò che io ho conosciuto e studiato. In fondo noi non inventiamo niente. Però possiamo inserire delle cose che fanno parte della nostra storia musicale conscia ed inconscia, cioè le cose che sono entrate dentro di noi attraverso lo studio e l’analisi e che ne escono in modo ritmicamente e melodicamente diverso, come frammenti di melodie ecc. Ecco, questo è un modo, cioè, suonare in modo non proprio rigoroso, ma rimanendo molto vicini alla struttura armonica con il ragionamento, se il pensiero va verso questa direzione ne escono pattern diversi e sempre collegati in modo personale. Ognuno di noi è un’isola, qualcosa di unico, quindi non faremo mai un pattern o una scala, allo stesso modo. Posso permettermi di fare pause, per esempio, posso permettermi di non pensare più alla struttura, se la conosco bene, lasciare che l’orecchio, il pensiero e l’istinto, vadano in una certa direzione melodico-ritmica, senza riferirmi razionalmente alla struttura del brano. Vai verso quella cosa che il tuo corpo e la tua mente conoscono. Io dico sempre che ho un po’ come tuffarsi, come buttarsi nell’aria e volare, perché una frazione di secondo prima non sai cosa succederà una frazione di secondo dopo. L’errore, in questo frangente, non è più importante, diventa un valore aggiunto, una nuova occasione, perché ci sono altre frazioni di secondo che dall’errore ti possono portare ad un nuovo aggancio melodico, un aggancio della prima modalità che è quella del pensiero, questo comporta qualche rischio. Ma quale rischio? Nell’improvvisazione non si vince e non si perde: è rischioso per chi ha paura di sbagliare. Questa credo che sia una forma di libertà da acquisire molto importante per l’improvvisazione, cioè l’eliminazione della paura dell’errore, che di solito ci abita, diciamo, il musicista che non ha risolto questo problema, il musicista che ha paura della pausa, del silenzio e del giudizio degli altri non può essere libero di creare. È nella pausa che possiamo trovare il tempo di rigenerare il nostro pensiero. Quando queste paure scompaiono, quello che facciamo diventa suono: bello, brutto, non è più importante. Diventa qualcosa che precipita, come dicevo prima. In questi frangenti, ho spesso la sensazione di tuffarmi nel vuoto, poi però c’è un aggancio, come se qualcuno con una corda fermasse la mia caduta, in quel momento posso decidere se continuare a ricadere o agganciarmi ad un pensiero più razionale, che tiene conto dello schema armonico del brano che sto eseguendo. È un darsi la palla, molto divertente, molto liberatorio. Io dico sempre, scherzando, che vengo pagato per avere “un’ora e mezzo di libertà”. Credo che questo sia qualcosa di bellissimo. 

Qual era il rapporto degli Area con la realtà della produzione musicale? E con la casa discografica e il manager nella fase compositiva? Cosa succedeva tra la composizione di un album e la sua produzione? Insomma, che spazio trovava la vostra voce nel prodotto finale: avevate delle regole da seguire per la sua commercializzazione?

Questa cosa di cui stai parlando riguarda maggiormente la musica pop o il jazz. Di solito chi fa improvvisazione non ha legami o vincoli decisionali da parte della casa discografica. La musica jazz non è un prodotto che vende milioni di copie ed ha ascolti numerosi, è una musica abbastanza di nicchia, per certi versi. Pertanto diciamo che non mi sono quasi mai trovato davanti a questo problema, tanto meno con la Cramps. La Cramps ci dava una totale libertà musicale: loro si occupavano soprattutto dei testi. Gianni Sassi ha avuto il coraggio di creare per primo questa etichetta veramente alternativa. In Italia non ne esistevano: le etichette di musica pop erano un appannaggio delle grandi case discografiche. Gianni Sassi creò un’etichetta che andava in una direzione sperimentale. Lui non era un musicista, si occupava di pubblicità, ed anche con successo. I soggetti delle copertine degli Area prendevano spesso spunto dal suo modo di fare pubblicità. Lui usava questa cosa, cioè, rubava ai ricchi per donare ai poveri: usava il sistema per ottenere i soldi e poter fare qualcosa che andava contro il sistema. Trovo che sia una delle cose più intelligenti che siano mai state fatte in questo paese, con una vera intenzione, quella di dire delle cose che stavano a sinistra in una società destroide. 

Una piccola parentesi su questa domanda: come funzionava la vendita dei dischi e la promozione della musica live? 

Gli Area non vendevano. Non vendevano dischi all’estero perché erano visti come sinistroidi.  Abbiamo suonato pochissimo all’estero perché non eravamo un gruppo progressive, non facevamo melodie che potessero funzionare come alcuni gruppi inglesi e che potessero vendere. In più, avevamo questa etichetta politicizzata.  Campavamo con i concerti dal vivo e quindi per la gente Area era soprattutto musica dal vivo. Venivano tutti col registratore, era pieno di cassette dei concerti degli Area. I nostri dischi hanno cominciato a vendere dopo, quando la Cramps ha chiuso i battenti e dopo vari passaggi è stata venduta alla Sony che ha iniziato a pubblicare delle raccolte, ma tutti questi sono dei modi per spremere il limone finché c’è qualcosa. 

Ha un ricordo, anche generale, di quale fosse la reazione del pubblico degli Area? L’ascoltatore medio degli Area, chi era? Come viveva il concerto? Come viveva la musica? Cosa ricercava una persona che andava al concerto degli Area? 

Diciamo che quel periodo la grande parte del pubblico veniva ai concerti degli Area e si aspettava sempre un evento anche non gratificante, qualcosa che ti metteva in difficoltà nell’ascolto, come le tante cose che succedevano: c’era l’imprevisto nella musica degli Area, non si andava a sentire il brano come esattamente era stato registrato, c’erano sempre dei cambiamenti durante i concerti dal vivo. Però è altrettanto vero che, quando si facevano brani come “il mio mitra è un contrabbasso che ti spara ecc.”, ovvero Gioia e rivoluzione, il pubblico andava in visibilio, chiaramente. Questo accadeva dopo tutta questa montagna di provocazione che gli arrivava, musicalmente parlando, a livello sonoro, dove non capivano niente, e, a dir la verità, spesso non capivamo niente neanche noi. Escluse le parti obbligate, succedeva di tutto: uno smetteva di suonare, l’altro piantava chiodi. Dopo tutto questo, dopo Lobotomia, se facevi Gioia e Rivoluzione il pubblico si rilassava un po’. C’è stato un momento in cui abbiamo sentito anche il bisogno di questo, e ne sono felice. Non è stato fatto per vendere, ma per creare un attimo di comunicazione semplice con il pubblico. Il testo però parla di cose abbastanza dure, la parte strettamente musicale è volutamente uno scopiazzamento di quella anglo-americana di un certo periodo, ma il testo invece dice delle cose molto più interessanti. Questo è stato importante. 

Il live degli Area era un’esperienza singolare. Se andiamo ad analizzare l’esperienza live standard dei giorni nostri – quella del musicista pop, della rock band o del cantante indie, per intenderci – la direzione è quella di riprodurre esattamente ciò che avviene nel disco poiché le persone che si recano al concerto si aspettano di riconoscere la musica per come è stata prodotta. In questo riconoscimento le persone fondano la propria esperienza del live: un’equivalenza tra musica prodotta in studio e concerto. Gli Area, invece, sconvolgevano totalmente questo paradigma. È qualcosa in cui ti ritrovi?

In questi casi che hai citato c’è, innanzitutto, un rapporto con la casa discografica, un rapporto con l’immagine. Sono tutte cose che devono essere lì, volutamente così: standard. Noi non avevamo questo problema, anzi, per la nostra casa discografica più casino facevamo e meglio era perché questo tipo di provocazione poteva essere condivisa attraverso il vinile. Non ce ne fregava niente, assolutamente, volevamo fare della musica, fare cose che fossero liberatorie per noi e nello stesso momento anche per chi ascoltava. Il pubblico al tempo era “sostanzioso”, nel senso di “sostanze”. Per cui veniva anche per quello, gli arrivava questa ondata ecc. Non era una fruibilità violenta come ad un rave o cose del genere, che sono arrivate dopo, nel tempo, era una cosa di dare e avere, ma senza nessuna violenza fisica. Qualche volta c’è stata violenza verbale: c’è stato un periodo in cui la gente veniva sul palco, voleva parlare, voleva suonare al posto nostro; ci sono state delle contestazioni, non volevano pagare, sfondavano. C’erano queste cose, ma non ce ne fregava più di tanto, tanto prendevamo due lire, per cui cercavamo, in questi casi, di tenere calma la gente e basta. Ma non era una cosa permanente, accadeva ogni tanto, più che altro, secondo me, per imitazione: sfondare al concerto degli Area, voglio dire, è come sparare sulla Croce Rossa, non serve a niente. Però è successo, succedeva perché in quel periodo si faceva anche questo. In fondo siamo tutti un gregge di pecore, anche se in periodi diversi, a quei tempi forse era un gregge meno veemente, però sempre di gregge si parla. Mi ci metto dentro anche io, non è un giudizio, è una cosa oggettiva che sto notando. 

Da alcune letture si apprende che il fenomeno musicale Area ha avuto un primato, almeno in Europa, nel modo di fare musica: esso riunisce nella stessa esperienza artistica musica pop, sperimentazione sonora e impegno politico. La volontà artistica era quella di rompere gli schermi: lei ritrova questa descrizione conforme all’esperienza degli Area? Quanto era forte la consapevolezza, ammesso che ci fosse, di avviare un’operazione del genere? 

Io ti dico la verità. Sono nato e cresciuto in una famiglia di sinistra e, per quanto riguarda quel periodo, io mi occupavo di musica. Quando si fa musica non si è né di destra né di sinistra, cioè, fai Musica. Non è che ci mettevamo lì, in sala prove, a dire: “allora è successo questo, parliamo di questo”. No, non è così, facevamo musica. Poi, Gianni Sassi si occupava di mandare un messaggio attraverso i testi. Lui e il suo entourage. C’erano persone che la sapevano lunga, più di noi. Io non avevo questa consapevolezza, vedevo cosa mi stava succedendo intorno e su alcune cose ero d’accordo, e su altre no, però mi sembrava che quello fosse l’ambiente in cui, in quel momento io, personalmente, e Gli Area, di conseguenza, potevamo muoverci con il massimo della libertà. La questione politica riguarda la militanza, noi non abbiamo mai militato in gruppi politici, Area non si è mai iscritto a un gruppo politico, però suonavamo e per la sinistra ed eravamo di sinistra. 

Qualche parola sul rapporto che gli Area avevano con la società e con la politica: lei come lo viveva?

Come ho detto prima noi non eravamo molto “addentro” la militanza, andavamo dove c’erano le problematiche e partecipavamo. C’era un ambiente alternativo e di sinistra entro il quale gravitavamo, ma non andavamo alle riunioni ecc. Certo, quando ci chiamavano per una buona causa, andavamo subito, anche gratuitamente. Partecipavamo in questo modo, ma non c’era una militanza: il gruppo non era nato per questo. Il gruppo è nato per la musica, ricordiamocelo questo. Il gruppo degli Area è nato nei primi anni ’70 per fare musica. Poi c’è stato il coinvolgimento della Cramps, ma tutto quello che è politica è avvenuto negli anni dal ’74 in avanti. Con il primo disco c’è stato anche il primo contatto con la Cramps, che ha iniziato a occuparsi di questa cosa, cioè del sociale e di come usare questa musica nel sociale. Io non mi mettevo a scrivere un testo contro o pro qualcuno, non era questo. Questo lo faceva la Cramps, gli Area si occupavano della musica. 

Parliamo della sua carriera musicale in generale: lei ha avuto un lungo percorso da turnista, registrando decine di album di cantautori e artisti italiani. In questo suo percorso si inserisce la “parentesi” con gli Area, oltre a tutti i vari progetti nel mondo del jazz che segue tutt’oggi. Da una parte lei, con gli Area, ha preso parte attivamente a una esperienza di sperimentalismo sonoro e libertà espressiva, dall’altra, invece, ha lavorato e suonato secondo i criteri della produzione musicale del cantautorato (e non) e i suoi precisi schemi sul piano dell’arrangiamento e della composizione. È una contrapposizione interessante che denota una grande elasticità: cosa può dirmi a riguardo?

 Io avevo bisogno di fare il turnista, perché altrimenti non campavo. Io sono entrato negli Area e avevo già due figli: la mia vita è cambiata da un giorno all’altro, entrando negli Area. Da musicista benestante mi sono ritrovato in un disastro dal punto di vista finanziario. Allora ho continuato a fare il turnista, ho avuto dei problemi all’inizio per fare questo, perché sono due mondi completamente diversi. Poi, però, è stato molto interessante come disciplina, quando fai una cosa la devi far bene, con leggerezza e con presenza. Questo mi ha motivato: erano due mondi in cui io gravitavo. Nel mondo del pop ho lavorato sempre e solo come turnista o session man, non mi sono mai occupato del business, me ne “guardavo bene” di entrare in contatto con case discografiche ed avere un rapporto che non fosse quello di dare/avere. Non ne ho mai voluto sapere: ho fatto questo finché ho avuto il bisogno economico di farlo. Quando la mia famiglia è diventata autonoma economicamente, ho smesso. È stato un evento programmato, anche inconsciamente: mi sono detto “ok, devo fare questo”. Non dimentichiamoci che io nasco in una famiglia dove la musica era una cosa importante. Non la musica classica, che ho conosciuto dopo, al conservatorio. Ma la musica napoletana e leggera che suonava mio padre con gli amici: io vengo da lì. Per me fare un turno non era una sofferenza, dovevi mettere la nota giusta nel posto giusto. Questo richiede una presenza importante, se hai la consapevolezza che quella nota deve funzionare in quel contesto. Questo per me è stato molto importante e mi ha dato anche una disciplina ed un’elasticità che poi mi sono servite nel percorso che ho intrapreso in seguito. Spesso i “compagni di sinistra” mi dicevano che ero un “venduto”, che lavoravo per il “potere”, ma non mi è mai interessato più di tanto. Sono andato avanti così. Diciamo che dopo un periodo di piccola crisi, perché mi sentivo da una parte pungolato a fare una cosa, dall’altro criticato perché ne facevo un’altra, sono arrivato a dire “la vita è una, l’importante è viverla con onestà e consapevolezza. Tutto qua, il resto è fuffa”. 

Lei ha preso parte attivamente alla storia della musica italiana; alla luce della sua esperienza, qual è il suo giudizio sulla situazione attuale della musica? a Piattaforme streaming, talent, case discografiche, l’importanza dell’immagine: quanta distanza c’è tra il presente, gli artisti con cui ha lavorato e gli Area?

I rapper fanno testi contro la società per poi vendere i CD, mi sembra una grande contraddizione. Questo non ha niente di alternativo. Penso che in questa società musicale ci sia poco di interessante, questo è il mio giudizio personale. Semplicemente osservo, ascolto e non lo trovo interessante. Al di là di questo, però, c’è tutto un mondo parallelo che internet ha portato, giovani musicisti bravissimi. Tecnicamente c’è stata una evoluzione incredibile, ma non so questo dove porterà. Sono due facce della stessa medaglia. Nel pop quello che sapeva fare poco, sa fare sempre meno. Gli artisti pop sono inesistenti a livello di cultura musicale, non c’è nulla, ma funziona, vendono, fanno ascolti sul web, così va il mondo. Dall’altra parte della medaglia c’è una interessante ricerca musicale, giovani musicisti bravissimi e tecnicamente incredibili, nella musica classica e nel jazz. Musicisti come Jacob Collier ne sono un esempio, con grande conoscenza del linguaggio musicale. È sufficiente una ricerca su Youtube: è pieno di bella musica.


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