È possibile comunicare? L’io e l’altro nel pensiero di María Zambrano

In quale misura possiamo aprirci al mondo, conoscerci e affacciarci verso l’altro? Quali forme prende l’io in questa operazione? E quale ruolo per il corpo? Per María Zambrano il cuore, il pathos e l’eros giocano un ruolo fondamentale nella risposta a queste domande. Oggi su Scenari un estratto di María Zambrano e il pensiero occidentale di Lorenzo Marotta.

È necessario nello studio del pensiero di Zambrano rivisitare il senso delle parole da lei utilizzate. Così lo stesso termine di esilio va reinterpretato nell’orizzonte suo culturale. Un tema, quello dell’esilio, che da esterno, riferito alla condizione di perdita e lontananza dalla patria, diventa dimensione costitutiva dell’essere dell’uomo, condizione permanente del limite d’ogni individuo come pellegrino di conoscenza e di amore. Ciascuno di noi viene al mondo da solo, prigioniero dell’involucro del suo stesso essere finito. La sua corporeità è la corazza che l’io avverte come “sentimento fondamentale di sé”, di cui parlava Antonio Rosmini. Il primo incontro con la percezione di essere un io rispetto al quale si oppone l’altro da sé. Una alterità che, nel momento in cui si dà, pone di per sé la questione del darsi una relazione e con essa il problema della conoscenza come possibilità e limite di comunicabilità. Da qui la domanda: in che misura possiamo conoscerci, aprirci al mondo, agli altri, uscire fuori dall’io, quantomeno, sporgerci oltre la gabbia del nostro essere?

Una domanda che è preliminare, essendo il presupposto di ogni relazione dell’io con la realtà. Uscendo dall’Essere abbandoniamo la Patria, anche se sentiamo nostalgia di essa. Estranei nel mondo cerchiamo i varchi per incontrare le cose e gli altri, per comprenderli, per comprenderci. Un bisogno di apertura dell’io alla realtà tutta che, tuttavia deve fare i conti del suo limite strutturale, della ristrettezza del suo involucro percettivo, della parzialità e vulnerabilità delle sue risorse logiche, del senso dello stesso suo linguaggio.

Sovviene Luigi Pirandello (1867-1936), che in Uno, nessuno e centomila, 1926, scrive:

Ma il guaio è che voi, caro mio, non saprete mai come si traduca in me quello che voi mi dite. Non avete parlato turco, no. Abbiamo usato, io e voi, la stessa lingua, le stesse parole. Ma che colpa abbiamo, io e voi, se le parole, per sé, sono vuote? Vuote, caro mio. E voi le riempite del senso vostro, nel dirmele; e io, nell’accoglierle, inevitabilmente, le riempio del senso mio. Abbiamo creduto d’intenderci; non ci siamo intesi affatto. [1]

E con le parole, gli altri segni, tutte le altre possibili forme di conoscenza come comunicazione interpersonale e di noi stessi, ciascuno preso per sé. Da qui la parzialità di quello che possiamo afferrare e comprendere di noi, degli altri e delle stesse cose, mai immote e cariche di complessità. Un limite che porta l’io a tentare altre strade, altre aperture verso il mondo, diverse dal discorso logico-concettuale, da quello delle parole, per affidarsi alla forza dell’empatia, della compassione, del patire assieme, dell’arte come abbandono e superamento di ogni dualità, dell’innamoramento come fusione momentanea dei corpi nella stessa anima, della riconquista attraverso l’Eros del tutto perduto, dell’Essere originario da cui ognuno è stato strappato venendo al mondo, ma di cui porta la traccia. Si comprendono così appieno gli squarci di luce che si danno tra il fitto fogliame del bosco di cui scrive María Zambrano nel suo poetico libro Chiari del bosco.

Una metafora carica di significato e non esplorata a sufficienza. Perché non è solo il limite del razionale della filosofia come pretesa di estendere il suo dominio sul mondo, incasellando in schemi mentali la realtà anche a costo di lasciare fuori la comprensione dell’invisibile, del non rivelato, del nascosto, del molteplice, ma anche la difficoltà di uscire fuori da sé per farsi altro. Un limite ontologico che se da una parte celebra la meraviglia della vita che ogni ente porta con sé, dall’altra rivela che ogni vita è gelosa di difendere se stessa, pur sentendo fortemente il richiamo, a seconda della propria connotazione di ente, della comune origine dell’essere come energia da cui proviene.

Ed è intorno a questa condizione originaria che, fin da Il grido di Giobbe di cui si parla nella Genesi, si pone il tema della ricerca del senso del male. Un male che è considerato tale rispetto alla vita, alla sua minaccia, dandosi ora come malattia, ora come violenza esterna, ora come catastrofi naturali; un male congenito alla finitezza della natura, alla caducità del corpo, alla sua temporalità; un male come desiderio di dominio, piacere di crudeltà; un male come utopia di assolutezza che tanti orrori grandi e piccoli ha prodotto nella storia dell’umanità. Un male diverso da quello che troviamo in natura inteso come minaccia agli altri esseri esistenti, determinato dalla necessità di difendere la propria vita. Un male come istinto naturale di difesa, necessario alla vita del proprio essere, alla sua salvaguardia, così come è dato osservare nella lotta selvaggia della fauna terrestre. Una lotta che non conosce tregua e per la quale la natura ha dotato ogni creatura animale di armi di difesa e di offesa.

Diverso è il male morale legato all’espressione luciferina degli istinti dell’essere umano. Non come difesa della vita, ma come piacere sadico nei confronti dei suoi simili. La propensione a godere del male come appagamento della gelosia, della rivalità, dell’odio. Se nel regno animale la violenza è istinto di sopravvivenza, istinto di conservazione comunque della propria vita che giustifica ogni forma di violenza, di lotta, nell’uomo è desiderio di sopraffazione, ricerca di godimento, volontà di dominio. Con un errato presupposto teorico che ha condizionato fortemente il pensiero dell’Occidente, quello dell’origine del lato oscuro dell’essere finito dell’uomo che ha trovato nella mitologia religiosa la sua spiegazione, nella convinzione di una natura dannata conseguente ad un presunto peccato originale causato dalla disubbidienza di Adamo ed Eva nei confronti della Legge di Dio. Ma così non è.

Dobbiamo alla tradizione orfica, a Platone, a Sant’Agostino, l’idea del corpo come prigione dell’anima, consolidando quel dualismo tra spirito e materia, corpo e anima, che è uno degli errori originari del pensiero occidentale. L’anima separata dal corpo, liberata dalle passioni, redenta dalle incrostazioni sfiguranti delle acque del mare come è dato vedere del corpo di Glauco marino. Solo “allora si vedrà che è infinitamente bella” [2]. Molte le aberrazioni che si sono date nei confronti della corporeità, ritenuta fonte di peccato e di male e per ciò stesso da castigare, umiliare, offendere, dimenticando che il sublime del pensiero è possibile solo e attraverso i sensi della corporeità.

“In interiore homine habitat veritas”: questo il guadagno teoretico di Agostino riconosciuto da María Zambrano nello scambio delle lettere con il giovane teologo Agustin Andreu. Solo che l’interiorità non si dà al di fuori della corporeità dell’individuo, essendo ad essa intimamente legata. Lo spirito vitale si accompagna sempre al corpo, soffrendo o godendo delle sue condizioni,senza dover identificare il deterioramento fisico come conseguenza di una presunta colpa mai esistita, e non invece come espressione di quell’unità ontologica di finitezza e di divino che è costituiva dell’essere umano. Un’antropologia negativa, fallace, carica di nefaste conseguenze, che ha causato e giustificato insensate violenze e sofferenze inaudite. Piuttosto che mortificare il corpo, si tratta di riconoscerne la meraviglia, l’imprescindibile suo apporto alla conoscenza del reale e del divino in esso iscritto. L’avere negato il corpo ha comportato nel pensiero dell’Occidente la contemporanea negazione della natura, la rinunzia a vedere la bellezza nelle sue varie forme, smarrendo in tal modo la consapevolezza che la sua realtà è di ente finito, iscritto nel tempo nella duplice dimensione di anima e corpo, spirito e materia.

L. Marotta, María Zambrano e il pensiero occidentale (Mimesis Edizioni, 220 pag., 25€, 2023)

Non c’è un a priori che possa darsi fuori dell’esperienza di vita dell’individuo. In questo senso quella di Zambrano è, come riconobbe lo stesso Agustín nel suo Annotazioni epilogali a un metodo o cammino [3], una “realtà metafisica” o “una metafisica reale”. Nessun pensiero può darsi fuori dalla sperimentazione della propria esperienza di vita, risultando astratta ogni distinzione tra natura materiale, natura psichica e natura spirituale.

La filosofia di Zambrano rimane fedele all’unità della vita che è al tempo stesso unione di sentire sul proprio corpo la fecondità dell’incontro con il mondo e del farsi del concetto.

La netta distinzione tra a priori ed esperienza era un suicidio; e così è rimasto l’uomo europeo moderno, con una capacità di intelligenza neutra. L’emozione matematica è indispensabile per vedere e applicare la matematica. L’emozione geometrica è quella della danza. L’evidenza è un’esperienza; l’esperienza è una sensazione dell’essere, che sorprende intensamente tutto il soggetto. [4]

Così scrive il giovane teologo, volendo rimarcare il carattere fortemente reale che ha la corporeità nello stesso concepimento di una formula matematica o geometrica. Opportuno il richiamo a Leibniz per il quale il reale non è mai separato dal concetto.

Sempre Agustín osserva che:

Maria definisce l’uomo come conatus. La definizione è leibniziana: la sostanza è conatus e la sostanza intellettuale è conatus di una forza che è desiderio di conoscenza e conoscenza di desiderio. Ma la a priori nel conatus non solo logico; è ontologico. Nella pre-conoscenza e nel pre-desiderio c’è già un’esperienza iniziale. La vita è il fondo da cui esce l’a priori.[5]

Non a caso la filosofia di Zambrano diffidava sia della tentazione della mistica allorché essa è perdita del corpo e della sua intrinseca esperienza, sia del richiamo narcisistico del pensiero puro come costruzione parallela o, peggio, in antitesi a quella data o colta dai sensi, di un reale come combinazione di logica astratta. L’esperienza metafisica è dentro il tempo della propria corporeità. Agustín, richiamando il filosofo mistico Jacob Böhme (1575-1624), non esita a scrivere in modo incontrovertibile: “La sensazione, benedetti i sensi nei quali affiora l’essere, il suo battito, e la sua presenza! La sensazione nel cui oceano galleggiamo e remiamo”.

Il silenzio abissale di Dio al dolore di Giobbe, la sua lontananza dal grido di solitudine dell’uomo echeggiato in tutti i tempi e in tutte le voci, dice che nessuna colpa è all’origine del male, nessuna infrazione ad una Legge che non c’è mai stata, se non il caso misterioso di essere nati e quindi di esistere. Se la filosofia ha cercato di estendere un ordine nella realtà con lo strumento della logica, se la scienza si affanna a cercare i meccanismi che presiedono alla vita degli enti e dell’universo, se le religioni hanno abusato della fragilità dell’uomo e dell’enigma della vita e della morte, del bene e del male, fallendo nel loro compito, è perché non si è voluto riconoscere, da una parte, l’involucro ontologico che presiede ad ogni vita e, dall’altra, la limitatezza d’ogni comunicazione come l’avverarsi di un’autentica relazione.

Una pienezza mai realizzata, sempre mancante, fatta di frammenti, per approssimazione, per slanci momentanei, per estasi, subito dopo svaniti nella temporalità del buio. Uno scacco della filosofia, della scienza, della religione, che trova nella poesia, nel cuore, nell’arte, nel pathos la via di fuga dall’oscurità, lo spiraglio per vincere la solitudine e l’angoscia e ricongiungersi con l’Essere.

Scrive Zambrano in Filosofia e poesia:

Il filosofo cerca sentendosi incompleto e bisognoso di completamento, sentendo che la propria natura è stata alterata e volendola riconquistare. Il poeta nuota nell’abbondanza e nell’eccesso. Forse è proprio questa sovrabbondanza che gli impedisce di scegliere. Vivendo inondato di grazia non può raccogliersi in sé, cercare di essere se stesso e neanche di questo “se stesso” che è invece l’ossessione del filosofo. Perso nella ricchezza, cieco nella luce, peccatore in stato di grazia, egli vive secondo la carne e la carità.[6]

Si ritorna così all’io che tramite il cuore, il pathos, l’eros incontra il mondo e nella disposizione all’accoglienza si fa inondare e trapassare dalla luce dell’altro, dalle cose, senza porre resistenza, anzi vivendo la gioia momentanea di questa apertura nella luce dell’anima. In questo modo la carne come limite strutturale della corporeità dell’uomo, nella sua irriducibile singolarità, si riscatta e si apre alla carità. Due termini assai presenti nel pensiero di Zambrano che, nel ripercorrere il pensiero contraddittorio di Platone, affina il suo sguardo sull’uomo così com’è, senza la preoccupazione di edificare un sistema che difenda l’ordine del mondo.

_______________________________________

[1] L. Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 1926.

[2] M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit., p. 60. 

[3] M. Zambrano, Lettere da La Pièce, cit.

[4] Ivi, p. 178.

[5] Ivi, p. 178.

[6] M. Zambrano, Filosofia e poesia, cit. p. 73.


Scenari. Il settimanale di approfondimento culturale di Mimesis Edizioni Visita anche Mimesis-Group.com // ISSN 2385-1139