Ontologia qualitativa, fenomenologia della persona. Intervista a Francesca De Vecchi

In La società in persona, Francesca De Vecchi propone un’ontologia qualitativa posta a fondamento della nostra esperienza del mondo. Su Scenari, Simone Santamato intervista l’autrice, professoressa di Filosofia Teoretica all’Università Vita-Salute San Raffaele, intorno ai temi del suo ultimo libro e alle implicazioni sociali che derivano dalla sua proposta teoretica.

Simone Santamato: Come ribadisce in più istanze, l’ontologia qualitativa è una proposta teoretica dal convinto orientamento fenomenologico. Che cosa si intende, dunque, per “ontologia qualitativa” e quali legami ha con la tradizione fenomenologica?

Francesca De Vecchi: Il nesso tra ontologia qualitativa e fenomenologia è molto stretto. La fenomenologia intende rendere conto delle nostre esperienze nel “mondo della vita” e, nella quotidianità del “mondo della vita”, facciamo esperienza delle cose in quanto caratterizzate da salienze qualitative, irriducibili alle cosiddette qualità primarie e secondarie di galileiana memoria. Infatti, le cose per noi non sono soltanto oggetti misurabili, pesabili o quantificabili in operazioni matematiche, e quindi cose caratterizzate soltanto dalle cosiddette qualità primarie, e nemmeno facciamo esperienza delle cose solo in relazione alle loro qualità sensibili, cioè colori, odori e sapori etc., le cosiddette qualità secondarie – sempre attenendoci al paradigma galileiano. Anzi, facciamo immediatamente esperienza di una dimensione qualitativa più profonda e globale, quella delle qualità di valore o qualità terziarie, che rende conto dell’essere delle cose in un senso individualizzante e relazionale. Ad esempio, nell’avere a che fare con una persona faccio esperienza del suo essere accogliente o respingente, gentile o sgarbata, etc., ed è questo livello di esperienza che conta di più nelle nostre vite, che più ci interpella e ci ingaggia come soggetti di esperienza.

Già le cosiddette qualità secondarie sono state tradizionalmente ritenute scientificamente inattendibili, mere proiezioni soggettive sulle cose; ancora peggio è andata alle qualità terziarie: espunte anche dalle teorie filosofiche perché considerate qualità meramente relativistiche. La fenomenologia invece allarga l’idea di esperienza e non solo riabilita le qualità secondarie (si veda ad esempio, Husserl, La crisi delle scienze europee), ma rende conto anche dell’esperienza delle qualità di valore delle cose come cruciali per la nostra esistenza personale.

S.S.: Ne La società in persona afferma che l’ontologia qualitativa è intrinsecamente un’ontologia sociale della buona vita delle cose. Cosa vuole dire?

F.D.V.: L’idea che sviluppo è questa: le qualità di valore sono costitutive dell’essere delle cose e ogni cosa è individuata da certe sfere di qualità di valore. Husserl, ad esempio, parlava del coraggio come qualità individuante quel “tipo di cose” che sono i guerrieri, ma, guardando più vicino nell’orizzonte della nostra esperienza, pensiamo ad esempio alla delicatezza di una carezza. È proprio la delicatezza a identificare l’essere della carezza, come la sedibilità l’essere della sedia, l’agilità il ginnasta, etc. Quindi ogni tipo di cosa non solo è costituito da una varietà di qualità di valore di cui noi facciamo esperienza, ma vi sono certe qualità di valore che individuano le cose come i tipi di cose che sono. Inoltre, ogni ginnasta, ogni sedia, ogni carezza realizza a proprio modo le qualità che individuano il suo essere, secondo gradi d’essere che tracciano un paradigma eidetico. Questo suggerisce che le cose hanno di fatto, nella nostra esperienza, una buona vita, a cui ci riferiamo con forme linguistiche usuali nel linguaggio comune: se dico “questa è una vera carezza”, “questo è un vero ginnasta”, intendo dire che ben esemplificano quei tipi di cose, cioè che realizzano paradigmaticamente l’essere di quelle cose. Questo non significa che non vi possano essere sedie con una seduta traballante e scomoda, su cui mi siedo comunque. Significa invece che ogni cosa di cui facciamo esperienza esemplifica in modo più o meno soddisfacente il suo paradigma d’essere. Vi sono gradi d’essere: ogni cosa particolare può realizzare a vari gradi il proprio paradigma ontologico.

S.S.: Qual è la buona vita delle persone rispetto al loro vivere insieme in varie forme di socialità? 

F.D.V.: In questo libro ho cercato di mettere a fuoco il rapporto tra l’essere delle persone e le condizioni di possibilità di fioritura personale, da un lato, e il contesto, l’ambiente, i vari tipi di società cui apparteniamo, dall’altro. Per analizzare questo rapporto mi sono avvalsa della teoria degli interi e delle parti di Husserl (Husserl 1901, Terza ricerca logica). Più precisamente, ho cercato di mostrare che ogni individuo personale è parte di più interi sociali che fonda e contribuisce a costituire – cioè, ogni intero è fondato sulle parti che lo compongono. Al contempo, però, ogni intero sociale retroagisce sull’essere degli individui che lo costituiscono come intero. Gli interi sociali, quindi, influiscono sulla fioritura personale di ognuno/a in modo più o meno positivo o negativo. Vi sono diversi tipi di interi sociali: dalla cosiddetta “comunità di vita”, espressione con cui Scheler (1913-1923, Essenza e forme della simpatia; 1913-1926, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori) si riferisce a tipi di interi sociali come le famiglie e le comunità in cui nasciamo e ci troviamo a vivere, fino a forme di interi sociali più vocazionali di cui entriamo a far parte ricercando modi di dispiegamento della nostra personalità.

S.S.: Se, come dice, l’intero sociale retroagisce sulla parte individuale che pure conserva un suo stile, col quale di nuovo caratterizza gli interi sociali, in che modo la personalità di ognuno/a si inserisce in interi sociali dove perlopiù c’è un’uniformazione delle parti, che spesso inibisce il proprio registro personale?

F.D.V.: “La società in persona” è l’espressione con la quale ho proprio cercato di mettere a fuoco l’essere persona in interi sociali di vario tipo e quindi, di nuovo, il modo in cui ogni persona può appartenere a più interi sociali e come questo suo esserne parte sia caratterizzato dal proprio stile personale. L’idea è che le persone sono individui in senso essenziale: ogni persona esemplifica con la sua unicità e originalità il tipo generale persona, e lo fa non in un vuoto pneumatico, isolata da tutti gli altri esseri personali, ma in virtù dell’intreccio di esperienze e di rapporti con cui ha, in vari modi, a che fare con gli altri, costituendo così forme di interi sociali differenti per l’intensità e la cogenza dei vincoli che legano le persone tra loro. Agli estremi opposti, abbiamo ad esempio da un lato la massa, in cui le persone non contribuiscono personalmente ma anonimamente alla sua costituzione, dall’altro gli interi sociali vocazionali, già menzionati prima, di cui le persone diventano parte dispiegando la propria personalità. Dunque, far parte di certi interi sociali è un’occasione preziosa, anzi una condizione necessaria, per la propria fioritura personale.

S.S.: Lei rompe con l’assunto prevalentemente analitico di una netta separazione tra fatti sociali e fatti naturali. In che modo, secondo lei, bisognerebbe farlo e, soprattutto, cosa ne guadagneremmo?

F.D.V.: La separazione proposta da John Searle tra i cosiddetti fatti naturali o bruti da un lato e fatti sociali o istituzionali dall’altro non è esaustiva perché non riesce a rendere conto della nostra vita personale e quindi qualitativa nel mondo sociale, in quanto “mondo della vita”. Si tratta di una separazione che risente ancora del classico divide humeano tra is e ought. Con gli strumenti della fenomenologia, possiamo invece pensare alla dimensione sociale dell’essere insieme anche come dimensione di vincoli qualitativi che ci legano l’un l’altro/a. Questa prospettiva rimescola le carte della separazione analitica tra il naturale, da un lato, e l’istituzionale, il sociale, il giuridico e così via, dall’altro. Nell’ontologia sociale qualitativa ogni esperienza mi lega, in vari modi e gradi, a un’altra persona: anche quello che è un mero fatto naturale diventa sociale perché possiamo contemplarlo o includerlo nei nostri progetti, condividendolo. In questo senso propongo una teoria gradualista rispetto alla separazione netta tra “naturale” e “sociale”, “istituzionale”, “culturale” che si trova in Searle: l’esistenza di ogni fatto istituzionale dipende certamente dall’intenzionalità degli individui, ma anche il fatto bruto o fisico è influenzato nella sua esistenza dalla nostra intenzionalità; dobbiamo estendere il concetto di “esistenza” a quello di mantenimento in essere, cambiamento d’essere e cessazione d’essere.

S.S.: Prima, parlava delle qualità di valore in quanto caratterizzanti la nostra esperienza delle cose e in quanto costitutive dell’essere stesso delle cose. Potrebbe approfondire questa proprietà dell’ontologia qualitativa e il suo guadagno fenomenologico?

F.D.V.: Questa domanda mi permette di tornare al tema dell’essere qualitativo delle cose, un punto al contempo cruciale e delicato della mia proposta. Non si tratta di un realismo assoluto: il punto non è soltanto che le qualità di valore sono nelle cose stesse, ma anche che lo sono in relazione a un soggetto che è in grado di assumere una postura personale che le coglie. In fenomenologia si parla di atteggiamento personalistico o personale. Ogni persona, in vari modi e gradi, si lascia motivare dalle cose di cui fa esperienza in quanto costituite da tratti qualitativo-valoriali che le rendono cose buone (o cattive) cioè beni (o mali) di un certo tipo. Le qualità di valore di cui facciamo esperienza nelle cose sono quindi qualità di valore positivo o negativo rispetto a cui ci lasciamo motivare in una direzione piuttosto che un’altra. La relazione tra l’essere qualitativo delle cose e la postura o atteggiamento personali che consente di farne esperienza è allora cruciale. La mia è infatti una tesi fondamentalmente correlazionista: cogliamo e facciamo esperienza delle qualità di valore in quanto costitutive delle cose perché da un lato quelle qualità di valore sono presenti nelle cose e, dall’altro, perché le cogliamo ponendoci nell’atteggiamento personale, cioè vivendo personalmente. Per dirla in altri termini, l’essere qualitativo delle cose e l’atteggiamento personale sono entrambi condizioni necessarie per la realizzazione della dimensione esistenziale-qualitativa nostra e delle cose stesse. L’essere qualitativo delle cose non è quindi di per sé già sufficiente per farne esperienza, conta anche il nostro cogliere le cose in quanto portatrici di quell’essere qualitativo nell’atteggiamento personalistico.

S.S.: Nel periodo 2016-2022 ha diretto il centro GENDER (Interfaculty Centre for Gender Studies) dell’Università Vita-Salute San Raffaele, di cui ora fa parte del Comitato di Direzione: crede che l’ontologia qualitativa abbia a che fare con le questioni di genere, e se sì, in che modo?

F.D.V.: L’ontologia qualitativa, nella sua declinazione sociale, può sviluppare una prospettiva feconda e originale sull’identità di genere. Identità personale e di genere non possono più essere scisse: ognuno è la persona che è anche in virtù del suo genere. Se le scienze sociali intendono il genere soltanto come un costrutto sociale, e le scienze biomediche lo appiattiscono sulle datità biologiche e genetiche, la fenomenologia, grazie all’idea di persona come soggetto incarnato in un corpo vissuto (Leib), connette il concetto di “genere” alla corporeità vissuta in prima persona: l’identità di genere è costitutiva della nostra identità personale e si manifesta nelle prese di posizione delle persone, nei confronti di ciò che capita loro di vivere. Anche già rispetto all’identità sessuale biologica e alla sua fenotipicità, l’identità di genere è fenomenologicamente una risposta che possiamo dare a ciò che ci capita di vivere come datità biologico-naturali. Al contempo, l’identità di genere è una risposta a quel che ci capita di vivere anche socio-culturalmente: in certi contesti sociali, culturali, istituzionali e politici avere ed essere di genere femminile incide sulla qualità della nostra vita personale in un senso molto peggiorativo, privando la persona di diritti fondamentali e assegnandole certi obblighi per il solo fatto di essere una donna. Noi viviamo la nostra identità di genere unitamente al nostro essere persone e questo, in certi contesti più che in altri, ci chiama a prendere posizione rispetto a quello che la nostra identità di genere comporta in termini di diritti negati. Questi diritti negati non sono una negazione astratta di libertà ma qualcosa che io vivo in prima persona come limitazione dell’orizzonte di possibilità che potrebbero e dovrebbero costituire il mio corpo e così la mia identità di genere. Fenomenologicamente, la questione di genere è un tema personale esperito a partire dalla propria corporeità vissuta.

S.S.: Un altro dei suoi interessi è la fenomenologia di E. Stein cui ha dedicato un articolo pubblicato per Humana.Mente nel 2019, dove rintraccia quella che lei chiama l’“eidetica dell’empatia”. Perché l’empatia è tanto importante e come rientra nel suo orientamento ontologico-qualitativo?

F.D.V.: Con quella che ho chiamato eidetica dell’empatia mi riferivo a ciò che Edith Stein nel 1917 espone ne Il problema dell’empatia. Stein mostra che negli atti di empatia facciamo esperienza dell’esperienza degli altri e, con ciò, facciamo esperienza degli altri in quanto tali. C’è quindi una connessione essenziale tra un soggetto in quanto tale e il suo essere soggetto di qualche esperienza, e di questo noi facciamo esperienza negli atti di empatia. L’altro/a è sempre una soggettività incarnata in un corpo vissuto: facciamo innanzitutto esperienza degli altri e delle altre in quanto soggetti incarnati e corpi vivi di cui ci accorgiamo immediatamente del loro essere soggetti di esperienze, proprio come noi. La questione dell’empatia è quindi da subito impostata fenomenologicamente da Stein come l’esperienza delle esperienze di altri, esperienza del corpo dell’altro e dell’altro come corpo-soggetto, cioè come corpo che esprime dei sentimenti che l’altro/a prova, come punto zero di orientazione del proprio situarsi nel mondo, come strumento di azione e dunque di realizzazione del proprio volere.

Francesca De Vecchi, La società in persona. Ontologia sociale qualitativa, Il Mulino, 272 pp., 27€

L’analisi di Stein degli atti di empatia illumina l’esperienza genuina dell’empatia e la distingue dalla vulgata del senso comune secondo cui l’empatia è innanzitutto immedesimazione. Nell’empatia comprendiamo quello che un altro o un’altra stanno provando e vivendo senza identificarci con loro: diventiamo soggetti di un’esperienza che ha per oggetto l’esperienza altrui. L’empatia è quindi un’esperienza in seconda persona. Non vi è un unico atto di empatia uguale e identico, ma piuttosto una classe di atti di empatia, molto vari, che possono avere un esito più o meno riuscito. L’empatia quindi è un tipo di atti di esperienza che può essere realizzato in molti modi, variando nei contenuti (sensazioni, sentimenti, intenzioni, etc., dell’altro/a), nell’intensità (più o meno profonda e coinvolgente, a seconda della nostra sensibilità nei confronti del vivere degli altri) e nella riuscita (comprensione più o meno adeguata dell’esperienza altrui). Gli atti di empatia più felicemente compiuti – osserva Stein – sono quelli in cui riusciamo a comprendere l’unità di senso tra quello che un altro o un’altra stanno vivendo e lo stato di cose che fonda questo vivere: ad esempio, empatizzando mi rendo conto della tua gioia, in quanto gioia che stai vivendo in relazione a un certo fatto. Parlo allora di “eidetica dell’empatia” rispetto a una struttura invariante dell’empatia che di volta in volta, in ogni atto di empatia particolare si realizza con contenuti e modalità differenti, entro però i limiti di co-variazione che sono propri del tipo di atto “empatia”.

In Stein l’empatia è innanzitutto un’esperienza di incontro, un faccia a faccia tra un io e un tu: è l’atto di base che fonda la possibilità della relazione tra individui personali e che ci consente di fare esperienza degli altri in quanto soggetti che a loro volta sono soggetti come noi di esperienze. In questo senso è un atto irriducibile ad altri atti “più classici” e noti come la percezione sensibile e l’immaginazione, ed è come dice Stein “un tipo di atti di esperienza sui generis”, del tutto nuovo e specifico.

L’empatia può consentirci di scorgere la novità di cui ogni persona può farsi portatrice, o invece fallire. E questo ci porta nuovamente anche alle questioni di genere: gli atti di empatia che compiamo non sono tutti uguali, siamo più o meno aperti alla comprensione delle esperienze degli altri, a seconda delle circostanze e all’identità personale e di genere di chi abbiamo di fronte.  In altri termini, i nostri atti di empatia possono essere non equi e neutrali rispetto all’identità di genere delle persone, ai loro ruoli di potere, alla loro autorità epistemica o discorsiva. È quindi importante assumere un atteggiamento attento alle fallacie e anche alle illusioni dell’empatia, e la lezione di Stein sull’eidetica dell’empatia può illuminarci su tutto questo.

S.S.: Per chiudere: qual è l’orizzonte dell’ontologia qualitativa nonché l’incombenza più impellente del contemporaneo cui la sua proposta può maggiormente contribuire?

F.D.V.: Credo che la mia proposta di un’ontologia sociale qualitativa possa contribuire a fornire strumenti di chiarificazione rispetto alle nostre vite, nella contemporaneità di un mondo dove le persone sono sempre più connesse ma al contempo profondamente sempre più spersonalizzate: l’immersione nel sociale è sempre più uniformazione, conformismo, omologazione.

Da un lato la tradizione della filosofia analitica è stata dominata dal mito dell’individualismo che ha portato a concepire l’identità personale in termini di impermeabilità: vi è credo nell’ontologia sociale classica, di matrice analitica, una tesi implicita sull’impermeabilità dell’essere personale alle varie forme di società, comunità, ambiente sociale in generale a cui ogni persona possa appartenere e costituire. L’idea è che gli individui già esistono come individui fatti e finiti, per così dire, e che ognuno di essi può essere soggetto di intenzionalità collettiva, joint commitment (Gilbert 2013) e varie forme di cooperazione attraverso cui crea gruppi di vario tipo. Ma questo creare vincoli, questo “fare società” sembra non impattare davvero, in profondità, sull’essere personale: che io faccia parte del free speech movement nella Berkeley degli anni Settanta o che io faccia la maionese insieme con te (entrambi esempi di intenzionalità collettiva secondo Searle), sembra non fare differenza per la mia maturazione personale, per la mia fioritura e per il dispiegamento della mia personalità. Dall’altra parte, sempre nell’ambito della tradizione della filosofia analitica, vi sono filosofe che stanno sviluppando quella che chiamano Non ideal social ontology (Sally Haslanger, Ásta, Åsa Burman), in opposizione all’ontologia sociale classica considerata una Ideal social ontology caratterizzata dalla rimozione di ogni criticità sociale. La Non ideal social ontology mette invece a fuoco la relazione tra individuo e mondo sociale di appartenenza, lavorando sui rapporti di potere, oppressione e disuguaglianze a cui le persone sono soggette, a seconda dei ruoli sociali e istituzionali che occupano, della loro etnia, orientamento sessuale, classe sociale, etc. L’identità personale è così finalmente aperta e resa permeabile al sociale attraverso la cosiddetta “intersezionalità”. Questa è senz’altro una prospettiva di ricerca non solo interessante ma anche necessaria. Tuttavia, è una prospettiva non esaustiva dal punto di vista dell’ontologia sociale qualitativa, perché lì il sociale come potere rischia di mangiarsi del tutto le individualità personali.

Ecco, io credo che l’ontologia sociale qualitativa debba certamente accogliere alcuni spunti della riflessione di critica sociale della Non ideal social ontology, ma al contempo credo che l’ontologia sociale qualitativa possa e debba colmare la lacuna del personale che è presente anche nella Non ideal social ontology – lacuna che, come dicevo, caratterizzava già la prospettiva dell’ontologia sociale di matrice analitica, seppur dal lato opposto, quello di un individualismo mitizzato. Io penso che la filosofia debba rendere conto dell’esperienza delle persone e in particolare di quelle esperienze che più contano nella loro vita, e, a partire dall’analisi di queste esperienze, mostrare che le persone sono certamente soggette a connessioni causali come i rapporti di potere e le situazioni di oppressione, ma sono anche caratterizzate da una vita motivazionale in cui ognuna a suo modo, a seconda dei contesti e delle persone con cui sono in relazione, prendono posizione rispetto a ciò che capita loro di vivere, e in questo modo si individuano e fanno esperienza di sé in senso essenziale, della propria unicità e originalità.


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