Il sé mutante. L’estrusione della politica in Kafka

Cosa sappiamo davvero di Kafka a cento anni dalla sua morte? Qual è il vero significato della metamorfosi di Gregor Samsa? E in che modo si relaziona con i concetti di libertà e pace? In occasione del centenario della morte di Kafka, un estratto di Franz Kafka e la sfinge del potere di Fabrizio Sciacca, per indagare sempre più a fondo i labirinti del pensiero kafkiano.

Nur dein Nichts ist die Erfarung,

Die sie von dir haben darf.

Solo il tuo nulla è l’esperienza

che il tempo può avere di te. [1]

«Mutando riposa»

In Kafka, come tra Kafka e il K. del Processo o del Castello, non si ha una dicotomia soggetto/oggetto [2]. Non un linguaggio narrativo; non una scrittura descrittiva, ma espressiva [3]. La negazione di questa dicotomia trova conferma in una prosa priva di psicologismi. L’esempio più chiaro è nella Metamorfosi: «Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sonni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo [zu einem ungeheueren Ungeziefer verwandelt]. Riposava sulla schiena, dura come una corazza, e sollevando a poco a poco il capo vedeva il suo ventre arcuato, bruno e diviso in tanti segmenti ricurvi, in cima a cui la coperta del letto, vicina a scivolar giù tutta, si manteneva a fatica. Le gambe, numerose e sottili da far pietà, rispetto alla sua corporatura normale, tremolavano senza tregua in un confuso luccichio dinanzi ai suoi occhi» [4].

Sappiamo innanzitutto dallo stesso Kafka che l’idea del racconto e il racconto stesso scaturiscono davvero da penose notti insonni. A Felice riferisce: «dovrò […] scrivere un breve racconto che mi è venuto in mente a letto nella mia pena [in dem Jammer] e incalza dentro di me [mich innerlichst bedrängt]» [5].

L’esempio della Metamorfosi è emblematico per l’assenza della dicotomia tra soggetto narrante e oggetto narrato. Leggere di questo corpo troppo grande e inutile di Samsa-insetto, è come rileggere di Kafka-figlio quando, nella Lettera al padre, parla esplicitamente di sé stesso: così come, attraverso Samsa, Kafka ne parla implicitamente. ‘Samsa’ e ‘Kafka’ presentano due elementi paronimici, s/k e m/f.

Non è che Samsa si senta un insetto: si trova trasformato in un insetto parassita [Ungeziefer] – o perlomeno, in qualcosa di simile. Come sottolinea Giampaolo Azzoni, ciò ha probabilmente a che fare con l’idea di arbitrarietà del corpo umano [6].

Innanzitutto, suona alquanto vago dire che si tratti di uno scarafaggio. Kafka dà pure delle indicazioni per dedurne le dimensioni, senza mai essere esplicito al riguardo. Talora dice che arriva all’altezza della serratura della porta, talaltra che occupa l’estensione del materasso. Quanto alla specie zoologica, ci sono elementi divergenti per farne allo stesso tempo un coleottero (la schiena dura come una corazza, il corpo convesso) o uno scarafaggio (la schiena talmente morbida da lasciarvi incastrare una mela, l’odore nauseabondo, l’essere onnivoro, la predilezione per muri e soffitti). Scenario volutamente ambiguo, che fa dell’indeterminatezza un corollario necessario della perdita identitaria. In una lettera a Kurt Wolff che proponeva l’illustrazione del frontespizio del racconto, Kafka scrive che «l’insetto non può essere disegnato [gezeichnet]», e che «non lo si può far vedere neanche da lontano» [7].

Sovviene Eraclito: «Mutando riposa [Μεταβάλλον ἀναπαύεται]» [8]. Il frammento viene riportato nella quarta Enneade di Plotino, nella parte in cui espone la discesa dell’anima dei corpi: «Destandomi al mio vero essere dal sogno corporeo ed estraniandomi a ogni altra cosa» [9]. Plotino si chiede come sia possibile questa estraniazione che coincide con l’appartenenza a una «più alta forma di vita», e di avere «la visione di una stupenda bellezza» immedesimata nel divino e come sia possibile la discesa dell’anima nel corpo. E si avvale dell’esempio eracliteo, che invita a compiere questa ricerca senza entrare nella spiegazione ma lasciando a ognuno di rispondere alla domanda cercando la propria via.

La spiegazione non c’è, perché Kafka sta deliberatamente tentando di non descrivere l’indescrivibile. Tuttavia, la chiave della ricerca della risposta è il cambiamento, il trapasso da contrario a contrario [10]. Come Eraclito (e Plotino), nella Metamorfosi Kafka illustra una mutazione. Ferruccio Masini osserva opportunamente che il risveglio è un tipico espediente narrativo kafkiano [11]. Eppure, l’interpretazione sembra qui concedere molto di più di una mera ricognizione di un espediente. Come Eraclito, si è in una mutazione nella stasi del riposo. Come Plotino, si è al risveglio da un sogno corporeo. Il risveglio «non era un sogno», ma la realtà. Anche Samsa si pone la stessa domanda di Plotino: «come è avvenuto?» [12].

Quella che sembrerebbe la peggiore caduta agli inferi, è in realtà per Samsa l’inizio di una nuova vita, sia pure incompatibile con la vita umana e con gli umani (proprio i suoi familiari, tranne la sorella almeno sino a un certo punto) che vogliono sopprimerlo. Samsa però si desta da un sogno agitato per acquisire un breve ma nuovo stato di coscienza. Di contro all’orrore esteriore del suo corpo, proprio le nuove imprese che il suo corpo gli consente – scalare le pareti dei muri, restare sospeso sul soffitto e lasciarsi cadere senza farsi male – sembrano la prova del raggiungimento d’una bellezza interiore, della «stupenda bellezza» della sua anima. Una bellezza che non è di questo mondo, e che proprio per questo è, in questo mondo (troppo) umano, destinata a perire. Dopo essere stato colpito dal padre con una mela che si incaglia nella sua corazza ferendolo gravemente, Samsa, impedito nei movimenti, si lascia lentamente morire.

La mutazione nel sonno, avvenuta nel riposo e nella quiete di un sogno tormentato, ha certamente a che fare con l’identità. Samsa ha perso l’identità umana: e il diventare qualcosa che somiglia a un enorme insetto, non lo rende però nemmeno tassonomicamente classificabile come tale. All’occhio umano è un unicum: un mostro. La sua non è una voce umana: è «la voce di una bestia [Tierstimme]» [13].

La metamorfosi – o la trasformazione, forse per meglio dire – è quindi la mutazione di una identità. Samsa, diventato un immenso insetto, ha così sancito la sua estraneità di non appartenente a un mondo della regolarità sociale (famiglia e lavoro) che non lo riconosce più. Per uscire fuori da questa situazione, la soluzione non può essere conflittuale né forzata: non la guerra, non l’assoggettamento né l’assimilazione. La soluzione è l’autodistruzione, il lasciarsi morire. È la trasformazione di uno spazio che acquista la dimensione dell’annullamento e del non-ritorno, della perdita di ogni possibilità relazionale [14]. Lo dice bene Eugène Ionesco: «Ma perché l’uomo kafkiano soffre? Perché, in fin dei conti, esiste per qualcosa di diverso dalla comodità materiale, per l’effimero: la sua vera vocazione, da cui si è allontanato, non può che essere la ricerca del non corruttibile. È questo il mondo desacralizzato che Kafka denuncia; è proprio questo il mondo senza scopo; nell’oscuro labirinto [labyrinthe ténébreux] del mondo, l’uomo cerca solo inconsciamente una dimensione perduta che non riesce più nemmeno a intravedere» [15].

La metamorfosi è un mutamento naturale dovuto al compimento di un ciclo biologico, ma non è questo ciò che ha luogo in Samsa. Quel che gli accade è piuttosto una trasformazione del tutto imprevista e innaturale, che porta invece alla perdita di una appartenenza che non sortisce alcun ricambio possibile. Acquista una identità che non può condividere con nessun altro al mondo, perché non esistono altri co-appartenenti. La sua mostruosità lo rende unico e solo. Inoltre, la metamorfosi in senso stretto è biologica: è un cambiamento di forma. Non è ciò che accade a Samsa: è vero che cambia la forma, ma cambia anche la sostanza. Non è più una persona. Effettivamente, Kafka non tratteggia persone. Manca l’elemento della fisionomia, dipinge i suoi personaggi senza anima, come se fossero soggetti disincarnati: manca in Kafka un’ontologia della persona. Lo dice bene Theodor Adorno: «ciò che viene dall’anima non conta più» [16]. Una strategia di distruzione che trae risorse terapeutiche dalle nevrosi e forme d’arte dalle scorie fenomeniche. 

«Che cosa sono io in realtà  [was is eigentlich bin]», chiede Kafka a Felice proprio a proposito di alcune recensioni contrastanti della Metamorfosi. «Caso difficile», aggiunge rispondendosi da solo. «Sono forse un cavallerizzo da circo su due cavalli? Purtroppo non cavalco, ma sono disteso per terra» [17].

2. Insetti e politica

Brundle-Fly è l’esito di un esperimento dello scienziato Seth Brundle, costruttore di una macchina di teletrasporto di due aggregati chimici differenti. Non si tratta di una fusione di esseri viventi. È l’esperimento di cui narra David Cronenberg in The Fly – film ispirato molto liberamente all’omonimo racconto di George Langelaan[18]. È mal riuscito, perché la macchina – sintetizzando chimicamente ciò che si trova nella cella di teletrasporto – interpreta ciò che nella cella si trovava: Brundle e una mosca, entrata lì per caso. Brundle si trasforma così in un orrendo mostro che non è umano – lo è solo perché ancora pensa, sino a che è in grado di esprimersi – e che è molto simile a un grosso insetto. Si nutre delle sue prede uccidendole o mutilandole. E dice: «Gli insetti non fanno politica. Hai mai visto insetti politici?». Gli insetti, prosegue Brundle, non hanno politica. Sono molto brutali, non hanno compassione. Gli insetti non riconoscono nulla al di fuori della loro esistenza, non è una lotta regolata tra avversari, vi è solo una natura senza distinzione. Per un attimo, ha un moto di speranza: «Io potrei essere il primo insetto politico, ma temo…» [19] – teme, giustamente, di non potere essere più nulla.

E aggiunge: «Sono un insetto che aveva sognato di essere un uomo, e gli era piaciuto. Adesso il sogno è finito, e l’insetto è sveglio» [20]. Come Samsa, Brundle-Fly ricorre all’esperienza narrativa del risveglio da un sogno (solo come metafora) e si trova in una condizione di mostruosità. Con una differenza: la sua trasformazione è ancora in atto e frutto di una fusione molecolare-genetica. Quella di Samsa è una condizione già definita e senza alcuna spiegazione. Ma l’esito è lo stesso: una condizione di ibridazione che non colloca il mostro entro alcuna appartenenza, rendendolo tolto a qualunque dimensione sociale e politica. Sia Samsa che Brundle-Fly possono contare sull’aiuto iniziale di una donna (rispettivamente, la sorella Grete e la giornalista Veronica Quaife). In entrambi i casi, il buon proposito cede di fronte alla mostruosità (fastidio nel primo caso, orrore nel secondo). E tanto Samsa quanto Brundle-Fly sono consapevoli dell’unico esito possibile: disfacimento. La purezza non è possibile, ha una durata effimera.

In tutto questo, non può sfuggire che dietro l’immenso insetto di Kafka e Cronenberg-Langelaan, sia esso uno scarafaggio o una mosca, si celi l’oscena metafora di una metafora: il mostro è l’essere umano, nella sua generica universalità. Lo ha colto bene Ian McEwan in The Cockroach, che ripropone, con grottesca lucidità, una narrazione inversa del racconto kafkiano: «Quella mattina Jim Sams, un tipo perspicace ma niente affatto profondo, si svegliò da sogni inquieti [uneasy dreams] per ritrovarsi trasformato in una creatura immane [gigantic creature]» [21]. McEwan gioca a carte scoperte: la creatura immane nella quale, nel suo racconto, uno scarafaggio si risveglia è l’uomo, e ben presto scopre che la medesima sorte è toccata ad altri umani. Quello dello pseudo-scarafaggio è insomma lo spirito del mondo, il Weltgeist della sopravvivenza. In Kafka vi è in fin dei conti una consapevolezza di questo scopo ultimo della sopravvivenza, che però ha per esito una rinuncia. L’insetto di Kafka, così come Brundle-Fly sono figure di eroi tragici. Forse gli eroi kafkiani – Italo Calvino lo dice lapidariamente – non sono dotati di poteri magici, né sciamanici né stregoneschi [22], ma questo non implica, però, che di tali poteri non possano essere vittime. La mutazione ha stravolto i loro corpi non più umani, mantenendoli ancora come esseri pensanti. Nella loro immensa solitudine, vivono un calvario trasportando una croce, quella infitta nel loro stesso corpo destinato a una rapida morte. La mela conficcata a marcire nel dorso di Samsa non è molto diversa, come immagine, dal progressivo disfacimento del corpo mutante di Brundle-Fly.

Fabrizio Sciacca, Franz Kafka e la sfinge del potere, Mimesis Edizioni, 2024, 110 pp., 12€

3. Excursus. Metamorfosi della politica?

La dimensione politica implica conoscere l’altro non solo in una condizione di eusocialità, ma anche come possibile avversario o nemico, ovvero quale percezione speculare della proiezione del sé in forma opposta. Se questo non fosse più possibile, ad esempio in una situazione ipotetica (e ancora non realizzata) di pace globale, non vi sarebbe più politica.

La metamorfosi del politico potrebbe quindi portare alla negazione del reciproco porsi delle parti (amico/nemico, avversari). E quindi alla negazione, per dissoluzione, di ogni differenza e di ogni identità. È su questo gioco impossibile che Kafka non intende misurarsi. Per quanto non intenda descrivere ciò che non è descrivibile, non ne nega l’esistenza nemmeno una volta. Sigilla questa idea in un sottovuoto semantico, lasciando il suo mondo a una impossibilità non compatibile con quello spirito di sopravvivenza che caratterizza gli umani, forse in quella forma mutata che nella metamorfosi rovesciata è per McEwan lo spirito dello scarafaggio.

Il quadro di Kafka è chiaro. Gli umani sono necessariamente in una dimensione politica. Tuttavia, l’umano che si risveglia insetto è inevitabilmente tolto alla dimensione umana e perciò anche alla politica stessa. Eppure, la sua natura non è né quella di un insetto (pensa e sceglie) né quella umana (non ne possiede più la forma). Condannato all’oscena esposizione della sua mostruosità, Samsa è la rappresentazione più evidente della verticalità del misticismo: il suo risveglio lo libera dalle tenebre dei sogni inquieti, ma la realtà che lo pervade lo toglie alla vita umana e alle sue regole, lo toglie alla politica, e lo illumina di una luce divina che però non è di questo mondo effimero. Perciò non ha altra scelta se non quella di togliersi da questo mondo.

Ciò che emerge in tale scelta tragica è il fatto che Samsa rifiuti la politica perché egli non può essere nulla di riconducibile alla natura stessa. Gli insetti non sono animali politici, ma Samsa non è propriamente un insetto. Gli umani sono animali politici, ma egli non è più umano. Eppure Samsa è ancora in grado di realizzare un ultimo atto di libertà (così come, nell’ultima terribile scena di The Fly, quel che resta di un corpo martoriato da una seconda fusione – ancora per un evento fortuito – tra Brundle-Fly e la stessa macchina di teletrasporto, abbraccia dolcemente la canna del fucile impugnato da Veronica, chiedendole di porre fine alle sue sofferenze). Con un po’ di fantasia, potremmo dire che la Metamorfosi sia il primo racconto cyberpunk della storia della letteratura.

Emerge però anche qualcos’altro. Siamo sicuri di esserci affrancati in modo così netto dalla natura? Siamo mai usciti dallo stato di natura? E come potremmo uscirne? Kafka ci dice proprio questo: è impossibile uscire dallo stato di natura, perché è impossibile uscire dalla propria natura. E allora forse l’opposizione tra natura e artificio, e quindi tra natura e politica, esiste solo nella testa di alcuni filosofi. Se le cose stanno davvero così, la politica è un aspetto tutto umano della natura umana, nel senso che l’umano non può non essere (per necessità naturale) politico. Nessuna metamorfosi del politico potrebbe accadere senza snaturare l’umano.

Il concetto di ‘politico’ è semanticamente stabile, e la metamorfosi implica, come si è visto, una mutazione profonda. Un concetto è qualcosa di astratto, non esistono concetti in natura. Dunque, un concetto è tale in quanto ha un preciso significato. Il significato di un concetto potrebbe cambiare. Il problema della metamorfosi del politico, in quanto concetto, riguarderebbe il significato, non il significante. Però si potrebbe dire che davvero pochi concetti mutano radicalmente di significato. Si pensi al concetto di ‘persona’ inteso come soggetto imputabile. Oggi diremmo senza alcun dubbio che lo schiavo è persona, per quanto privato di libertà e diritti. Ma oggi diremmo che pure un incapace di intendere e di volere, per quanto non imputabile, è persona. Oggi, ‘persona’ significa più o meno ‘essere umano’. Un tempo, ‘essere umano’ non era certo sinonimo di ‘persona’. Potremmo dire che in questa sinonimia si sia persa l’originaria portata etimologica, e semantica, dell’idea di ‘persona’. Dunque, vi sono concetti astratti che, nel tempo, subiscono una metamorfosi. Così per la parola ‘politica’: la sua mutazione farebbe perderne il significato? Se essa prendesse il significato di un altro concetto, diventerebbe quel concetto (così come ‘persona’ è diventato ‘essere umano’). Politica implica potere, legge e libertà. Si tende ad allontanare la dimensione semantica della politica dal conflitto e dalla guerra, ed accostarla a cose come ‘pace’, ma si potrebbe discutere se ‘politica’ implichi necessariamente ‘pace’. Pace implica sicuramente silenzio, stasi, inanità, e intenderla come pace perpetua non rende omaggio alla storia dell’umanità.


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[1] W. Benjamin – G. Scholem, Archivio e camera oscura. Carteggio 1932-1940 [1980], a cura di G. Scholem, edizione italiana a cura di S. Campanini, Adelphi, Milano 2019, p. 180 (p. 182 per il testo in lingua originale). In allegato alla lettera 57 del 9 luglio 1934, di Scholem a Benjamin, su un foglio separato, figura il componimento in versi avente per titolo Mit einem Exemplar von Kafkas Prozeß, scritto tra il 10 e il 12 luglio dello stesso anno, dedicato a Kafka nel periodo degli studi kafkiani di Benjamin pubblicati per il decimo anniversario della sua morte, poi confluiti in Angelus Novus. Saggi e frammenti [1966], a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2019, pp. 275-305.
[2] Non so se sia possibile giustificare l’assenza di questa dicotomia sostenendo, come ha fatto J. Starobinski, Figure de Franz Kafka, introduzione a F. Kafka, La Colonie Pénintiaire, Egloff, Paris 1945, p. 16, che Kafka si cali direttamente nell’oggetto da lui costituito. Riesce difficile, in effetti, immaginare la costituzione di un oggetto: se non c’è scissione dicotomica tra io narrante e oggetto narrato, rimane solo l’espressione di una realtà percepita nel farsi indifferenziato degli eventi.
[3] Per il significato di questa differenza nello stile della comunicazione, mi riferisco soprattutto alla teoria della funzione comunicativa di K. Bühler, Teoria del linguaggio. La funzione rappresentativa del linguaggio [1934], Armando, Roma 1983, a proposito della tripartizione tra: funzione espressiva, nella cui comunicazione vengono direttamente espressi i pensieri e le sensazioni del soggetto comunicante; funzione segnalativa, in cui l’intento del soggetto comunicante è quello di stimolare una risposta nell’uditore; funzione descrittiva (o rappresentativa), in cui il soggetto comunicante realizza una descrizione oggettuale o una rappresentazione situazionale
[4] F. Kafka, La metamorfosi [Die Verwandlung, 19121; 19182], trad. di R. Paoli, in Racconti, Mondadori, Milano 1983, p. 157 (DL, p. 113).
[6] F. Kafka, Lettere a Felice, cit., p. 66 (F, p. 75). Nell’edizione tedesca, la lettera è la n. 33. Scritta a Praga, è del 17.11.1912.6 G. Azzoni, Nomofanie. Esercizi di Filosofia del diritto, Giappichelli, Torino 2017, p. 38.
[7] F. Kafka, Lettere [Briefe, 1902-1924], a cura di F. Masini, Mondadori, Milano 1988, p. 160 (Br, p. 136). La lettera, a Kurt Wolff, è del 25.10.1915. Nell’edizione italiana manca questo brano: «Insekt selbst kann nicht gezeichnet werden».
[8] Eraclito, fr. B84DK, I presocratici, cit., p. 361. Traduzione mia.
[9] Plotino, Enneadi, a cura di V. Cilento, Laterza, Bari 1948, in tre voll., vol. 2, IV, 8, 1, p. 333.
[10] Su Eraclito, G. Kafka, Die Vorsokratiker, Ernst Reinhardt, München 1921, p. 48, osserva: «se si assume la coesistenza degli opposti, allora il processo del mondo deve presentarsi come la loro continua compensazione» (traduzione mia).
[11] F. Masini, Franz Kafka. La metamorfosi del significato, a cura di E.C. Corriero, Ananke, Torino 2010, p. 41.
[12] Kafka, La metamorfosi, cit., p. 157 (DL, p. 115).
[13] Ivi, p. 169 (DL, p. 131). Mi sono qui discostato dalla versione Paoli, preferendo ‘bestia’ a ‘animale’, analogamente alla versione proposta da Anita Rho (La metamorfosi, in F. Kafka, Il messaggio dell’imperatore, Adephi, Milano 1981, pp. 21-84).
[14] Sul punto, P. Spiechowitz, Regards croisés. Kafka, le cadre et la chambre, in «K. – Revue trans-européenne de philosophie et arts», 1:2 (2018), pp. 236-246, p. 243, osserva: «La metamorfosi è quindi la storia della deterritorializzazione dell’intimità, attraverso la perdita disumanizzante dello spazio chiuso della camera da letto, ma è anche la storia della famiglia di Gregor che si riappropria dello spazio. Kafka traccia un parallelo tra l’idea di metamorfosi e la trasformazione dello spazio, utilizzando un sistema di rappresentazione, la visione degli interni, e la messa in scena di un microcosmo domestico, la camera da letto, dove ogni elemento architettonico, annullando i punti di fuga, concretizza il dramma domestico della sua condizione animale.» (traduzione mia).
[15] E. Ionesco, Dans les armes de la ville…, in «Cahiers de la Compagnie Madeleine Renaud – Jean Louis Barrault», 50:25 (1957), pp. 3-5, p. 4.
[16] T.W. Adorno, Appunti su Kafka, trad. di E. Filippini, in Id., Prismi, Saggi sulla critica della cultura [1955], Einaudi, Torino 1972, p. 257.
[17] Kafka, Lettere a Felice, cit., p. 765 (F, p. 814). Nell’edizione tedesca, la lettera è la n. 614. Scritta a Praga, è del 7.10.1916. Kafka si riferisce a una recensione di Max Brod, che verrà pubblicata in «Der Jude», 1:7 (1916/1917), pp. 457-454, e a una recensione di Robert Müller, appena pubblicata in «Die Neue Rundschau», 27:10 (1916), pp. 1421-1426. Di queste due recensioni, nella medesima lettera Kafka scrive a Felice: «nell’ultimo numero della “Neue Rundschau” la Metamorfosi è menzionata, respinta con una motivazione ragionevole e accompagnata da queste parole: “L’arte narrativa di K. ha un che di profondamente tedesco [etwas Urdeutsches]”. Nell’articolo di Max si legge invece: “I racconti di K. sono tra i documenti più ebraici del nostro tempo”».
[18] G. Langelaan, The Fly, in «Playboy», 4:6 (1957), pp. 16-18, 22, 36, 38, 46, 64. Ne esiste un’ottima traduzione francese, La mouche. Temps mort, édition mise à jour par F. Clavel et S. Miloux, Flammarion, Paris 2008, pp. 33-68. Vi è pure una traduzione italiana, discreta per quanto datata: La mosca, in Alfred Hitchcock presenta Racconti per le ore piccole, Feltrinelli, Milano 1962, pp. 303-343. In questa edizione sono indicati i traduttori dei racconti, senza specificare la titolarità delle singole traduzioni.
[19] Per la sceneggiatura del film di Cronenberg, https://www.scriptslug.com/script/the-fly-1986, p. 81. Traduzione mia.
[20] Ibid.
[21] Ian McEwan, Lo scarafaggio, trad. di S. Basso, Einaudi, Torino 2020, p. 7. Ho tenuto presente anche l’edizione originale: The Cockroach, Jonathan Cape, London 2019.
[22] I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano 2020, p. 32.


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