Un regime carcerario umano? L’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, videosorveglianza e diritti violati.

 

Ogni qualvolta si discute del regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario e dell’effettiva tutela dei diritti, costituzionali e sovranazionali, che dovrebbero essere garantiti anche ai detenuti sottoposti ai regimi di restrizione “speciali”, sorgono alcune perplessità e non poche riserve. È sufficiente tenere a mente i numerosi moniti promananti tanto dalla Corte europea, che in diverse occasioni e per diversi aspetti ha avuto modo di censurare il “carcere duro”, quanto dalle giurisdizioni interne, di merito e di legittimità che hanno promanato deliberazioni destinate ad incidere profondamente sulle sorti del regime ex art. 41-bis ord. pen. (vedi sentenza Cass., Sez. I, 12 luglio-3 ottobre 2006, Somogy).

La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo si è più volte pronunciata sulla compatibilità dell’art. 41-bis con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Pur avendo la Corte stabilito in diversi pronunciamenti che, in via generale, la disposizione in esame non viola i principi della CEDU poiché si configura quale strumento necessario per interrompere definitivamente i legami tra i soggetti detenuti e le organizzazioni criminali, e non va al di là di quanto, in una società democratica, è necessario alla difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica e alla prevenzione dei reati, è tuttavia intervenuta su singoli aspetti della disciplina e sulla sua attuazione, denunciandone l’eventuale contrasto con gli articoli della convenzione.

E proprio a questo proposito un aspetto, di importante rilevanza ai fini della seguente disamina, su cui i giudici di Strasburgo sono intervenuti è quello relativo al tema della video-sorveglianza e la conseguente tutela del diritto alla privacy. La presenza di telecamere in cella e a volte anche nei bagni e la possibilità per gli agenti di sorvegliare in qualsiasi momento il bagno da uno spioncino vengono percepite come una forte intrusione, una incisiva e, soprattutto, invasiva modalità di controllo carcerario, idonea a determinare nel tempo pesantissime conseguenze sulla stessa psicologia del detenuto, e sulla sua salute personale. Nelle doglianze dei ricorrenti, la video-sorveglianza è stata persino descritta come “un atto sadico e degradante che provoca uno stato di frustrazione psicologica in un detenuto”(Riina c. Italia, CEDU SEZ. II, 19 Marzo 2013 Ric. n. 43575/09).

Da più parti, inoltre, è stato più volte sottolineato come la sottoposizione a video-sorveglianza continua in cella e nel bagno violi le garanzie espresse nell’art. 8 cit. e nell’art. 27 comma 3 Cost., laddove specifica che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione. In questo modo, viene lesa la dignità della persona, alla base del riconoscimento di libertà e di diritti e nel contempo condizione necessaria per la realizzazione di sé.

I giudici di Strasburgo si sono pronunciati in diverse occasioni sul tema, asserendo che, pur non essendoci un esplicito riferimento nella Convenzione alla tutela della privacy, sarebbe possibile individuarne una forma di tutela nell’art. 8 CEDU, in quanto “la tutela garantita dall’articolo 8 al rispetto della vita privata e familiare, subirebbe un indebolimento inaccettabile se l’utilizzo delle moderne tecniche scientifiche fosse autorizzato senza alcuna limitazione”(S. & Marper c. Regno Unito). Limitazioni della privacy che, quindi, possono essere giustificate solamente laddove siano strettamente necessarie per il mantenimento dell’incolumità fisica del singolo, nonché della sicurezza dell’ambiente carcerario e dei rapporti tra i detenuti, ed applicate nel modo meno invasivo possibile, nel rispetto della dignità umana e della sfera personale del detenuto.

Eppure, ritenendo possibile la sussistenza di «situazioni di pericolo esterne» e  di «etero-aggressioni», queste  possono essere scongiurate con strumenti di minore invasività della telecamera 24 ore su 24 quali l’utilizzo dell’oblò certamente meno invasivo della telecamera attesa la continuità della stessa e le modalità che la caratterizzano, quale il fatto che essa può essere condivisa tra più persone e che la medesima può essere rivista nel tempo.

Il diritto alla riservatezza ed alla dignità della persona, costituisce un diritto fondamentale della persona detenuta e merita piena tutela giurisdizionale. Ne consegue che è illegittima la sottoposizione a videosorveglianza continua del detenuto estesa anche alla camera da bagno a servizio della cella dove è ristretto, laddove l’utilizzo di tale forma particolarmente intrusiva di controllo non sia congruamente motivata da ragioni di tutela della sicurezza, dell’ordine pubblico o sia necessaria alla prevenzione di reati, sempre che le modalità con cui essa viene esercitata siano proporzionate al valore del bene giuridico che si intende così salvaguardare.

Si pone pertanto un problema: da un lato le esigenze di sicurezza e la pericolosità del condannato, dall’altro la tutela della privacy, il diritto all’intimità e alla riservatezza di un recluso che non  può ricevere limitazione alcuna soprattutto laddove esigenze ulteriori, quali la prevenzione da potenziali atti auto-lesivi, possono essere garantite con strumenti meno invasivi quali feritoie ed oblò ritenuti sufficienti a prevenire possibili aggressioni alla persona del detenuto.

Bisogna, pertanto, interrogarsi circa l’effettiva tutela dei diritti umani, con specifico riferimento al diritto alla privacy, nel regime carcerario previsto dall’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, tenendo conto dell’esigenza di contemperare da un lato le esigenze di sicurezza dell’ambiente carcerario e dall’altro il diritto all’intimità e alla riservatezza del recluso.

Il regime ex art. 41-bis ord. penit. è stato oggetto, nel corso del tempo, di una ipertrofia legislativa. Un evoluzione che va dalle decretazioni d’urgenza degli anni delle stragi (d.l. 8 giugno 1992, n. 306 conv. in legge 7 agosto 1992, n. 356), passando per le ripetute proroghe degli anni novanta (l’art. 41-bis ord. penit., proprio in quanto norma a carattere emergenziale, avrebbe dovuto avere un’efficacia temporanea inizialmente limitata ad un triennio. Pur tuttavia, l’efficacia temporanea è stata prorogata, fino al 31-12-1999 dall’art. 1 l. 16-2-1995, n. 36, poi, sino al 31-12-2000 dall’art. 1 l. 26-11- 1999, n. 446 ed infine, successivamente fino al 31-12-2002 dall’art. 12 d.l. 24-11-2000, n. 341, convertito, con modificazioni, in l. 19-1-2001, n. 4), fino a giungere, con la legge 279/2002, alla introduzione definitiva del “carcere duro” nel sistema italiano. Se, da un lato, il Legislatore del 2002 ha avuto il merito di tipizzare il regime 41-bis ord. penit. per gli aspetti legati ai presupposti applicativi, dall’altro, non può dirsi lo stesso per ciò che riguarda le restrizioni intramurarie le quali, hanno da sempre intaccato, in diverso peso e misura, i diritti riconosciuti dall’ordinamento a chi versa in status detentionis.

La necessità di tornare a legiferare sul tema in modo da coniugare le pesanti vessazioni tipiche del regime carcerario 41-bis ord. penit. con quella logica, invece, garantistica dello stesso assetto penitenziario, è stata da sempre avvertita quale prioritaria da tutti gli operatori giuridici. E proprio nel 2009 il Legislatore è tornato sul tema con l’emanazione dell’ormai noto “Pacchetto sicurezza” il quale, nel tentativo di sciogliere i nodi della matassa lasciati dalla l. 279/2002, ha fatto seguire, invece, un inasprimento delle modalità applicative del “carcere duro” attraverso una serie di interventi diretti ad un aumento delle restrizioni. Nello scorrere la lunga lista di “limitazioni” codificate nel nuovo co. 2-quater dell’art. 41-bis ord. penit. salta subito all’occhio l’ennesimo contraccolpo riservato ai valori costituzionali. E per quello che interessa ai nostri fini, l’ascolto e la registrazione audiovisiva, da soltanto possibile diventano ora obbligatoria nella forma della “video-registrazione” non solo durante i colloqui con i familiari ma anche permanentemente nell’intera giornata in cella ed anche nella toilette.

L’inasprimento di queste misure impone dunque una riflessione. Che la video-registrazione vada ad intaccare il concetto di privacy, ovvero il diritto alla riservatezza, notoriamente conosciuto come «il diritto ad essere lasciati soli» è dato indiscutibile, ma quello che non si comprende è come il sistema di controllo possa essere funzionale a neutralizzare la pericolosità del soggetto, ove si rifletta sul fatto che la telecamera posta nel bagno è stata, in molti casi, manipolata in modo che le immagini, in particolare della figura del detenuto, risultino sfocate. È pertanto difficile comprendere l’utilità di simili riprese dalle quali non si ricavano «i particolari e dettagli della figura» ma solo la sagoma, così che sembrerebbe dedursi che non siano percepibili le azioni del soggetto.

In più non si comprende il motivo per il quale, attraverso il parallelismo con altre normative analoghe, l’unico settore sprovvisto di una base legislativa solida sia quello dell’art. 41-bis ord. penit.

Viene in mente a questo  proposito l’immenso patrimonio legislativo, dottrinale e giurisprudenziale esistente in tema di intercettazioni telefoniche, che per quanto invasive rimangono meno intrusive di una video-registrazione costante anche nei momenti intimi.

Trattandosi, allora, di una materia “analoga”, potendo certamente applicare i princìpi di cui sopra alla disciplina della video-registrazione, stavolta anche con l’apporto della giurisprudenza nostrana, potremmo giungere a tracciare alcune fondamentali linee guida: in primo luogo, la video-registrazione deve essere necessaria, con ciò sottintendendo in una sorta di escalation la residualità del mezzo più invasivo e il bisogno di raggiungere “gli scopi” partendo da tecniche meno lesive; la video-registrazione viola l’art. 8 C.e.d.u. e l’art. 27 Cost. a meno che vi sia una legge che la regoli dettagliatamente, non bastando di certo una normativa generale quale quella attualmente vigente ma occorrendo, piuttosto, una disciplina ad hoc capace di fissare modi, forme, presupposti applicativi, conservazione dei dati e nondimeno tempistiche per l’eventuale stralcio degli stessi. Una lacuna cui bisognerebbe quanto prima porre rimedio proprio per la rilevanza degli interessi in gioco.



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