I tesori nascosti della Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro

Uno dei primi festival a svolgersi in presenza di pubblico e stampa è stato, con coraggio, la 56a Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro che, sia pur con sale a capienza ridotta, ha sfoderato un  programma di valore, originale ed eterogeneo per temi e idee.
Le cose più interessanti le ha offerte la sezione in concorso, grazie all’audacia del comitato di selezione (Pedro Armocida, Paola Cassano, Cecilia Ermini, Anthony Ettorre e Raffaele Meale) che ha abolito le tradizionali distinzioni di durata e formato per mostrare al pubblico e alla giuria corti e lungometraggi sia in digitale che in analogico.

La contaminazione tra i due formati ha del sublime in Ts’onot (Cenote) di Kaori Oda, nel quale la filmmaker giapponese alterna immagini di esplorazioni subacquee girate con un iPhone a riprese in 8mm di usi e costumi del popolo maya  nella penisola dello Yucatan componendo una sinfonia di luce, suoni e colori, in un trionfo dell’ibrido che è anche l’essenza di un altro film in concorso: Aggregate State of Matters di Rosa Barba. Nato come installazione filmica per la mostra TIME Forward! alle zattere di Venezia, il film compie un’operazione simile a quella di Cenote, sia nell’alternanza tra paesaggi naturali e popolazioni indigene – stavolta i protagonisti sono le Ande peruviane e il popolo Quechua – sia nel suo situarsi al confine tra sperimentazione e vocazione documentaristica. Schermi fatti di elementi naturali in cui la questione ecologica diventa talmente importante da dover essere trasformata in materia estetica.

Ts’onot (Cenote) di Kaori Oda (2019).

Un altro film che a suo modo ibrida linguaggio e natura e quello di Erik Negro, che con l’algido HI_8 [Transfert on File] prosegue le sue riflessioni sullo sguardo già iniziate con Non C’e Nessuna Dark Side presentato l’anno scorso in anteprima proprio qui a Pesaro. Ispirato ai movimenti lunari e montato in macchina, una vecchia telecamera formato Hi-8, il corto compie un movimento ellittico su sé stesso partendo e tornando alla luna.

La luna e le maree galiziane diventano protagoniste di un altro film in concorso a Pesaro e già presentato alla Berlinale: Lua Vermelha di Lois Patiño. Un lungometraggio carico di simbolismi e molto ambizioso dal punto di vista visivo, che gioca anch’esso di rimando tra cicli naturali e leggende locali. Forse è questa sorta di realismo magico che intreccia visioni e costumi di popoli in via d’estinzione e nuove possibilità di sguardi ad emergere come tema principale di questa edizione del festival, attenta da sempre a sondare i più vasti e desolati territori cinematografici alla ricerca di nuovi linguaggi. Lo stesso sentiero preso da Jodie Mack, filmmaker americana, che con Wasteland No. 2: Hardy, Hearty prosegue le sperimentazioni visive del capolavoro The Grand Bizarre (2018): immagini in 16 mm di fiori sotto ghiaccio e radici che montate in stop-motion diventano uno studio sulle variazioni di forma e colore. O da Bruno Delgado Ramo che gira uno splendido film in Super-8 nella sua stanza, Un baile con Fred Abstrait/Una Película en Color nel quale esplora lo spazio attorno a sè in una serie di situazioni piuttosto astratte, zeppe di citazioni e massime filosofiche.

A metamorfose dos pássaros di Catarina Vasconcelos (2020).

Il compito di esplorare linguaggio e memoria, quella personale di una famiglia e quella collettiva di un paese, è toccato invece al film vincitore, A metamorfose dos pássaros di Catarina Vasconcelos, che nonostante qualche peccato dovuto alla giovane età di una regista all’esordio – la compiacenza di alcune immagini come concessione a certa estetica art house – si configura come promessa di una cinematografia, quella portoghese, che negli anni è diventata faro di un certo cinema europeo che unisce impegno politico e qualità formale (i maestri: De Oliveira e Cesar Monteiro; gli allievi: Miguel Gomes e Rita Azevedo Gomes).

La reinvenzione della memoria e il vissuto personale che diventa collettivo sono temi che ritornano anche nell’esordio di Mariusz Wilczynski, Kill it and Leave This Town. Un piccolo gioiello d’animazione, omaggio colmo di pessimismo cosmico alla cultura polacca che si rivela complicata elaborazione del lutto. La città di Lodz degli anni ‘70 è un doloroso e macabro teatro di vite meschine e ricordi inteneriti dal tempo che si trasformano in materia lirica per la sequenza finale, dieci minuti struggenti e poetici come il blues di Tadeusz Nalepa che li accompagna.

La possibilità di nuovi sguardi offerta dalla tecnologia e la questione della neutralità della macchina da presa sono temi che non hanno mai cessato di inquietare chi fa cinema. Su queste riflessioni, seppur in maniera differente, Paulo Abreu, Theo Anthony e Eleanor Weber vi costruiscono tre film importanti. Il primo, O que não se vê, continua a girare attorno al Monte Pico, nelle Azzorre, alla ricerca di un’immagine perfetta per un film che non si farà mai. Subject to Review di Theo Anthony invece, parte dal tennis per impostare un discorso sulla soggettività e su come qualsiasi immagine catturata dalla macchina assuma significati diversi a seconda di chi guarda. Infine, nel terrificante Il n’y aura plus de nuit  la francese Eleanor Weber riflette sulla distanza dall’oggetto filmato e sull’uso delle immagini in ambito militare, descrivendo un mondo in cui «non ci sarà più la notte, e nemmeno il bisogno di una lampada o della luce solare».

Um animal amarelo di Felipe Bragança (2020).

Il film più narrativo di questa Mostra, anche se riesce a scardinare qualsiasi regola di scrittura, è una favola che si misura con la complessa e stratificata storia coloniale del Brasile. Um animal amarelo di Felipe Bragança, scritto in collaborazione con Joao Nicolau (John From, Technoboss) e girato in Brasile, Portogallo e Mozambico, caotico e pacchiano testimonia l’audacia di un certo cinema brasiliano e l’ambizione di riscrivere la storia del paese e del cinema. Surreale e inventivo, Um animal amarelo, rivela le ferite aperte di un passato sanguinoso che ritorna ciclicamente come un mostro e che ha la capacità di prendersi gioco dei generi: anche qui il realismo magico si mischia a visioni documentarie, animazione in stop-motion e metalinguaggio. Un grande affresco filmico quello di Bragança, che insieme al premiato A metamorfose dos pássaros di Catarina Vasconcelos si pone in continuità con le grandi epopee cinematografiche scaturite dall’esperienza coloniale portoghese. L’ennesima perla di quella collana ricchissima che è stata la Mostra del Nuovo Cinema di Pesaro anno corrente 2020, un tesoro da preservare.



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