Visual Culture Studies e le atmosfere mediali

Dal 1 di novembre è distribuito il primo numero della rivista VCS – Visual Culture Studies dal titolo “Atmosfere mediali”, curato da Ruggero Eugeni e Giulia Raciti.
Il primo numero di
VCS – Visual Culture Studies intende riflettere su quello che è stato definito un atmospheric turn (Griffero 2016: 41) e offrire in tal modo uno sguardo complessivo sul tema delle atmosfere mediali; uno sguardo al contempo coeso – in riferimento all’approccio teorico in oggetto – ed eterogeneo – dal punto di vista della specificità disciplinare dei metodi e dei casi studio di volta in volta analizzati. Riportiamo un estratto del saggio introduttivo firmato dai curatori.

È su questo atmospheric turn (Griffero 2016: 41) che riflette il primo numero di VCS – Visual Culture Studies, offrendo uno sguardo complessivo sul tema delle atmosfere mediali; uno sguardo al contempo coeso – in riferimento all’approccio teorico in oggetto – ed eterogeneo – dal punto di vista della specificità disciplinare dei metodi e dei casi studio di volta in volta analizzati.
Emerge distintamente dai contributi del volume che l’estetica delle atmosfere, pur non essendo orientata esclusivamente all’arte, è una chiave di lettura privilegiata per comprendere le dislocazioni percettive e le sinestesie connotative di tante installazioni dell’arte contemporanea, che coinvolgono lo spettatore in pratiche performative. Così, una corposa sezione del numero esplora “atmosfericamente” gli ambienti mediali immersivi proposti da svariati artisti e collettivi. A essere messo a fuoco dagli autori è in particolare il concetto di spazio, del resto soggiacente a tutti gli interventi site-specific, i quali presuppongono l’esperienza di vedere, abitare e attraversare lo spazio, errando su un terreno aptico ed emotivo (Bruno 2006: p. 28). Tuttavia, al centro dei testi non vi è lo spazio locale, fondato su dimensioni fisiche e geometriche – astratte rispetto agli oggetti percettivi dell’esperienza quotidiana –, bensì lo spazio vissuto e predimensionale, incarnato nelle isole proprio-corporee che entrano in comunicazione con tutte le forme dell’intorno, consentendo al soggetto di percepire le atmosfere effuse nell’ambiente come “spazio del sentimento che funge da apriori di ogni nostra esperienza” (Griffero 2017: p. 178). L’analisi degli ambienti mediali qui analizzati si sofferma quindi sul rapporto tra lo spazio e il corpo, ovvero la relazione essenziale in cui si determina l’esperienza dello spettatore, che patisce l’atmosfera e performa il suo legame con lo spazio, saggiando di volta in volta le affordances ambientali.
È proprio un simile legame che mette in luce Malvina Giordana con il suo studio su Notes on Blindness: Into Darkness (2016), un ambiente di realtà virtuale creato da Peter Middleton e James Spinney e ispirato a un’esperienza reale di cecità progressiva. Gli autori costringono lo spettatore a muoversi in uno spazio non euclideo, in cui la vista cessa di essere il senso guida: viene meno la percezione di uno spazio vettorializzato, cioè determinato dai concetti di “luogo”, “qui”, “là”, “presenza”, e si acuisce quella sinestesia, attivata prevalentemente dal surriscaldamento del tatto e dell’udito.
La percezione della luce e dello spazio è anche il fulcro delle installazioni architettoniche di James Turrell analizzate da Gabriele Gambaro, che evidenzia come l’artista verta a creare le condizioni spettatoriali affinché possa avere luogo l’esperienza del “sentire i propri sensi”. Gli ambienti mediali di Turrell infatti sono sensing spaces e sollecitano la percezione dello spettatore, che patisce all’unisono atmosfere artificiali e naturali.
La relazione tra luce, suono ed energie è centrale pure nel saggio di Valentino Catricalà che, attraverso una lettura delle installazioni di Daniele Puppi e degli ambienti mediali di Micol Assaël, analizza – potremmo dire da un’ottica foucaultiana – lo spazio come dispositivo attivato dalle forze in campo, in cui il corpo dello spettatore è un conduttore di tensioni, funzionale al passaggio delle energie.

Dalle opere site-specific, pensate per abitare il luogo in cui sono insediate, passiamo alle macchine installative di Rafael Lozano-Hemmer che indagano la relazione ambientale inscritta tra corpi, sistemi di tracking e regimi di sorveglianza. Luca Malavasi e Lorenzo Ratto si approcciano all’opera di Lozano-Hemmer per analizzare sia la presenza del corpo nel mediascape in qualità di dispositivo mediale disseminatore di tracce nell’“internet dei cieli”, ovvero nella biblioteca dell’aria, sia lo spazio atmosferico come archivio infinito di dati, avallando una lettura interpretativa che ci sembra possa trovare corrispondenze con il neologismo datamediation, coniato da Grusin per indicare le modalità tramite cui i dati stessi funzionano come una forma di mediazione (2018: 65). Oltre a focalizzare il rapporto tra ambiente, corpo e dispositivi mediali, gli autori scandagliano nel lavoro di Lozano-Hemmer la vocazione atmosferica dello schermo, che appare naturalizzato nello spazio, inverato nel fumo, nel vapore o polverizzato in senso lato nella superficie, la forma abitativa primaria in cui si manifesta la proiezione (Bruno 2014).
Le implicazioni atmosferiche del regime schermico sono riprese anche da Francesco Federici e Vincenzo Estremo che esaminano una mostra installata da Omer Fast per mettere in rilievo le modalità con cui gli schermi vivono anche negli spazi più stranianti, come le sale d’attesa, le quali cessano di essere non-luoghi per divenire reenactment di ambienti di vita vissuta, proprio grazie alla familiarità provocata dal flusso di immagine-movimento che transita ininterrottamente in essi.
Seppur da angolazioni differenti, i saggi della prima sezione della rivista ci sembra si soffermino tutti sulla teorizzazione dello spazio atmosferico da una prospettiva neo-ecologica. È in quest’ottica che anche Simona Lisi, partendo da un’analisi dei piani spaziali, si imbatte in una riflessione sui media astantivi e immersivi (Eugeni 2018) e, interrogandosi sull’esperienza dell’immersività, chiama in causa il concetto di distanza fruitiva, per l’autrice necessario affinché lo spettatore possa mettere in campo la propria immaginazione.
È la fantasia che, invece, plasma gli ambienti del collettivo USCO che, nel solco dello sperimentalismo di linguaggi intermediali connotativo delle pratiche degli anni Sessanta, sollecitano esperienze percettive simultanee che generano atmosfere lisergiche e vividamente policrome. Francesco Spampinato interpreta simili avvicendamenti caleidoscopici di luci, suoni e colori ancorandosi in particolare a Benjamin, che qualifica come medium il «colore» e la «fantasia» (2012). 

La seconda sezione di questo numero di VCS – Visual Culture Studies prosegue l’analisi delle atmosfere mediali a ridosso delle intensità affettive e dei regimi emozionali, spostando però l’attenzione sul cinema. Risulta ulteriormente indagato in questo nuovo contesto il tema del colore: dal colore inteso come atmosfera del trailer – nel testo di Martina Federico –  o come tonalità emotiva – nel saggio di Anna Bisogno -, al colore cinematografico indagato come forma atmosferica ineffabile, patemica e aptica, secondo quanto mette in luce Lorenzo Marmo – che passa in rassegna un campione di testi filmici prodotti a Hollywood negli anni Cinquanta e, sulla scia di Giuliana Bruno, evidenzia come in essi il colore plasmi il “paesaggio” della proiezione, permeando affettivamente e nostalgicamente la qualità atmosferica della grana dell’immagine.
L’esperienza affettiva della mediazione tra agentività distribuite e non esclusivamente umane è invece al centro del testo di Enrico Carocci che, attraverso una lettura di Her, interpreta da una prospettiva fenomenologica ed enattiva la relazione di intimità che si instaura tra organismo/dispositivo. Nell’ottica proposta da Carocci l’atmosfera è la bolla avvolgente in cui sono vaporizzati i dispositivi, i quali possiedono i caratteri delle tecnologie radicali (Greenfield 2017) e soddisfano bisogni affettivi ed emozionali.
D’altra parte, se la nicchia diadica di Her investe il rapporto tra un umano e un personaggio acusmatico (Chion, 2001: 127) quella di Blade Runner 2049 è inerente alla relazione tra un replicante e un ologramma. Quest’ultima situazione affettiva è presa in esame da Andrea Rabbito che, attraverso un essenziale ancoraggio a Böhme (2010), indaga il grado di interazione e di presenza dell’immagini artificiali e, a ridosso dei visual studies, mette in rilievo le modalità tramite cui l’immagine arricchisca la realtà fattuale e modifichi l’esperienza dell’utente, qualificandosi come elemento “magico” generatore di atmosfera.

In conclusione se, parafrasando Böhme, percepire un’atmosfera significa fare esperienza di un sentimento o essere pervasi da un coinvolgimento affettivo (2010), possiamo rilevare che, al di là delle singolarità, i saggi del volume mettono in luce le modalità tramite cui le atmosfere mediali generano regimi emozionali e affettivi che si inverano nella relazione fra viventi e dispositivi (Agamben 2006); ed è proprio su questa relazione che si radica lo statuto delle atmosfere mediali. L’esperienza mediale-atmosferica ci permette dunque di “sentire il mondo come gli altri”: di sentire cioè il nostro ambiente come lo sentono gli altri, ma anche di sentirlo come se fosse un altro soggetto – e in entrambi i casi di far diventare il mondo un po’ meno altro, un po’ più nostro.

Bibliografia

T. Griffero, Il pensiero dei sensi. Il pensiero dei sensi. Atmosfere ed estetica patica. Guerini, Milano 2016.
G. Bruno, Atlas of emotion, Verso, New York 2002; tr. it. Atlante delle emozioni, Mondadori,Milano 2006.
R. Grusin, Datamediation, in P. Montani, D. Cecchi, M. Feyles (a cura di), Ambienti mediali,Meltemi, Milano 2018.
G. Bruno, Surface: Matters of Aesthetics, Materiality, and Media, University of Chicago Press, Chicago 2014; tr. it. Superfici. A proposito di estetica, materialità e media, Johan & Levi, Milano, 2016.
R. Eugeni, Temporalità sovrapposte. Articolazione del tempo e costruzione della presenza nei media immersivi, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del ventunesimo secolo. Cinema, teatro e new media, Milano, Meltemi 2018.
W. Benjamin, Der Regenbogen. Gesprach uber die Phantasie, in Gesammelte Schriften, a cura di R. Tiedemann, H. Schweppenhauser, 7 voll., Suhrkamp, Frankfurt a. M. 1974-1989, VII. 1, 1915; tr. it. L’arcobaleno. Dialogo sulla fantasia, in A. Pinotti, A. Somaini, Aura e Choc, Einaudi, Torino 2012.
A. Greenfield, Radical Technologies: The Design of Everyday Life, Verso, London 2017; tr. it. Tecnologie radicali. Il progetto della vita quotidiana, Einaudi, Torino 2017.
M. Chion, L’audio-vision. Son et image au cinema, Nathan, Paris 1990; tr. it. L’audiovisione. Suono e immagine nel cinema, Lindau, Torino 1997.
G. Agamben, Che cos’è un dispositivo, Nottetempo, Roma 2006.



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