11 settembre 1973, Cile: la solitudine del cittadino

L’11 settembre il governo presieduto da Salvador Allende viene rovesciato dall’esercito sotto la guida di Augusto Pinochet. Ma cosa è successo alla società cilena? Come andare avanti, se non dimenticando? Oggi su Scenari un estratto di “Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo” di Tomás Moulian.

La riverniciatura del Cile

1. Oblio

Un elemento decisivo del Cile Attuale è la compulsione all’oblio. Il blocco della memoria è una situazione che si ripete in società che hanno vissuto esperienze limite. Lì questa negazione del passato genera la perdita del discorso, la difficoltà della favella. Mancano le parole comuni per nominare il vissuto. Trauma per gli uni, vittoria per gli altri. Un’impossibilità di parlare di qualcosa che viene denominato in maniera antagonistica: golpe, pronunciamento, governo militare, dittatura, bene del Cile, catastrofe del Cile.

Per alcuni, a volte le stesse vittime, il dimenticare viene vissuto come il riposo, la pace dopo lunghi anni di tensione, la sicurezza dopo tanta incertezza. Il calore sicuro di un focolare dopo una lunga camminata sotto le intemperie. Che senso avrebbe rivivere il dolore? riproporre ad ogni istante l’incubo? Perché riprendere un tema che divide e produce astio, a volte paura, in persone impregnate di lutto e di lacrime?

Per altri, per molti dei convertiti che oggi si fanno strada su alcune delle piste del sistema, l’oblio rappresenta il sintomo oscuro del rimorso di una vita negata, che appanna il senso della vita nuova. Questo oblio è un mezzo di protezione contro ricordi laceranti, percepiti per qualche istante come incubi, reminiscenze fantomatiche del vissuto. È un oblio che si incrocia con la colpa del dimenticare. Una vergogna, non nominata e indicibile, per l’infedeltà verso gli altri e verso la propria vita, la vergogna della connivenza e della convivenza. E quel piccolo istante nella notte, dopo la cena con i generali, quando un lampo che rischiara i contorni della coscienza lascia il senatore nella melanconia, nell’insonnia.

La sensazione di un presente che obbliga, come un destino inesorabile, a restare legati al passato, a esperienze di vita situate ai limiti, non assedia solamente il senatore insonne. Questa è solo l’immagine retorica di una insoddisfazione molto più generalizzata. Questa necessità socialmente modellata spesso non trova le parole. Si esprime, senza dubbio, con silenziosa eloquenza nelle forme della depressione, dello scoramento, del fatalismo, della sensazione di astoricità della storia che, nel Cile Attuale, sono le mute compagne dell’euforia, dall’arrivismo, della competitività e della creatività mercantile.

Unita alla negazione dolorosa, al rimorso, alla contraddizione, che in molti impediscono l’integrazione di passato e presente, c’è la negazione strategica della “ragion di Stato”. Questo è il campo dei silenzi pianificati, pattuiti, offerti come sacrifici per contenere le supposte ire del Patriarca.

La cosiddetta transizione ha operato come un sistema di baratti: la stabilità, si è detto, deve essere comprata con il silenzio. Ma credo che si sia trattato di una trappola dell’astuzia. I negoziati parvero riusciti, specialmente durante il governo di Aylwin, sotto l’imperio del timore, come se fossero stati ispirati da una tattica di rappacificazione. Penso che il sentimento di paura sia effettivamente esistito nella massa, nei cittadini comuni. Ma l’élite che decideva agì ispirata da un’altra strategia, quella della “riverniciatura” del Cile. Fu mossa da un realismo freddo e superbo, privo di rimorsi perché diceva (o credeva) di interpretare il “bene comune”, la necessità del Cile.

Quella strategia si basava, più che sul timore, sulla complicità con il progetto. Ma prendeva la paura – fantasma latente, atavismo degli uomini comuni – come giustificazione. Quello che si cercava in realtà di fare era riposizionare il Cile, costruirlo come paese affidabile e valido, il Modello, la Transizione Perfetta. Perciò era necessaria la chirurgia plastica, l’operazione transessuale che convertì il Dittatore nel Patriarca.

Affinché il Cile potesse essere il modello, la dimostrazione che un neocapitalismo “maturo” poteva transitare alla democrazia, suo ambiente naturale (e da lì crescere esponenzialmente), era necessario riverniciare il Cile. Ciò richiedeva che Pinochet, il simbolo per eccellenza del regime militare, il duce, non fosse il responsabile delle porcherie e del sangue. Non solo, bisognava che anche gli altri riconoscessero il suo ruolo nel Cile Attuale. Il despota doveva convertirsi in uomo della provvidenza. In questo modo Egli realizzava l’unità di tutte le contraddizioni: era colui che preservava i militari dal disonore e colui che rendeva possibile la pace della transizione. Pinochet impediva la ripetizione, la nascita di Pinochet-il-nuovo.

2. Le ragioni di Stato

La principale fonte dell’oblio è l’imbiancatura promossa dall’alto, una palata di cemento caduta dall’alto che seppellisce la memoria vacillante. In questa operazione confluirono distinte ragioni di Stato, reti intessute da attori differenti, tutti uniti nel grande obiettivo di assicurare e orchestrare le nozze esemplari fra la neodemocrazia e il neocapitalismo.

La riverniciatura fu ed è la grande impresa di quelle ragioni di Stato. Si tratta di un insieme diversificato di operazioni il cui obiettivo è stato quello di imporre la convinzione che per il Cile la convivenza di passato e futuro non è compatibile. Che è necessario rinunciare al passato per il futuro, a meno che non si voglia cadere nella logica angosciosa della ripetizione. Perché tutto gira intorno al Modello, al Cile Modello. Un paese sorto dalla matrice insanguinata della rivoluzione, ma che si purifica celebrando le sue nozze con la democrazia. Il matrimonio fa le veci del battesimo che cancella il peccato originale e concede al Cile la maestà della sua gloria. Con le nozze, il Cile resta senza macchia e transita dalla violenza al consenso. Le ragioni di Stato giocano con l’innocenza degli uomini comuni. Agitano gli spaventapasseri della paura affinché la memoria trituri i ricordi. Affinché gli uomini comuni provino fastidio davanti al ricordo, che minaccia di rompere la pace quotidiana. Ma quei ricordi bloccati continueranno sotto la superficie a fare il loro male sordo. Le ferite sono localizzate nell’inconscio del Cile Attuale.

Il consenso

Il consenso è la tappa ulteriore dell’oblio. Cosa si commemora con le sue costanti celebrazioni? Niente meno che la presunta sparizione delle divergenze rispetto ai fini. Ossia la confusione delle lingue, la dimenticanza del nostro proprio linguaggio, l’adozione del lessico altrui, la rinuncia al discorso con cui l’opposizione aveva parlato: il linguaggio dell’approfondimento della democrazia e del rifiuto del neoliberismo.

Consenso è l’enunciazione dell’armonia supposta e immaginaria. Il disaccordo rispetto alle modalità dello sviluppo socioeconomico imposto dalla dittatura militare sembrarono svanire fin dal momento in cui la fascia da Presidente è passata dalle mani di Pinochet a quelle di Aylwin. È l’enunciazione che il problema del capitalismo pinochettista era Pinochet al governo.

Il consenso è un atto fondatore del Cile Attuale. La Costituzione, la produzione di questo Cile veniva da lontano. Ma la dichiarazione del consenso manifesta discorsivamente la decisione dell’oblio assoluto. Di dimenticare tutto, anche quello che si era pensato e scritto sul Cile pinochettista.

L’annuncio e la continua glorificazione del consenso, la gran novità discorsiva del Cile Attuale, è in stretta relazione con le strategie di imbiancatura, con la costruzione dell’immagine del Cile Modello. Questo miracolo consiste nella dimostrazione che si poteva passare dalla sfiducia e dall’odiosità del periodo della lotta all’accordo perfetto della transizione. Tutte le élites, con la notoria eccezione di poche “teste calde”, avrebbero agito in stato di grazia, ispirate dalla ragione. Si sono collocate – si dice – nella “realtà”, nell’accettazione delle restrizioni storiche. In verità si sono collocate in quello che loro, i fondatori del Cile Attuale, hanno sempre denominato, dal 1975 o anche prima, il razionale. Lo stesso che noialtri abbiamo combattuto come opera di Pinochet.

T. Moulian, Una rivoluzione capitalista. Il Cile, primo laboratorio mondiale del neoliberismo (Mimesis Edizioni, 290 pag., 20€, 2023)

Il consenso è la risultante di una mimesi, della sparizione del Noi nel Loro. Non è quindi una strategia di accomodamento del desiderio al principio di realtà. Costituisce un riconoscimento di colpa, la dichiarazione della irrazionalità e dell’utopismo dei nostri desideri essenziali del passato, per riconoscere che nella società di Pinochet sono esistiti nuclei razionali di fondo. Quei nuclei erano l’economia e la struttura sociale, con una sola macchia: le istituzioni politiche. I fini dell’economia avevano solo bisogno – si disse – di aggiustamenti, di cambiamenti piccoli, minimi. L’unica zona di cambiamenti doveva essere il sistema politico.

Per elaborare questa nozione di consenso bisogna rompere con qualsiasi nozione di totalità. Bisogna lasciare da parte la tesi che nella società pinochettista le parti erano fuse in una unità. Bisogna abbandonare l’idea di fondo che non fosse possibile riprodurre l’economia e la struttura sociale senza riapplicare la politica democratica.

Dunque, il consenso consiste nella omogeneizzazione. Come si è detto, implica la sparizione dell’Altro, attraverso la fagocitazione del Noi da parte del Loro. La politica non esiste più come lotta di alternative, come storicità, esiste solo come storia delle piccole variazioni, aggiustamenti, cambiamenti in aspetti che non compromettano la dinamica globale.

A un primo sguardo, il consenso appare come la risultante di una società intimorita, dove la simulazione dell’accordo è una condizione di sopravvivenza in un mondo di divisioni reali, vive, attive. Ma la paura, sebbene sopravvivesse, era usata dagli “uomini di Stato” come un fantasma, una marionetta da “effetti speciali”.

Il consenso si convertì in una condanna al silenzio. Romperlo significava situarsi su un terreno drammatico, violarlo sarebbe stato attentare al processo, danneggiarlo. Si è interpretata dagli imprenditori, il nuovo soggetto della storia.

In realtà per mezzo della nozione di consenso, ricavata dalle teorie contrattualiste, si vuole oscurare la realtà dell’assenza di storicità, affinché la cornice istituzionale non venga incrinata e fatta a pezzi. In verità si sta occultando il futuro pietrificato, la storia come ripetizione con piccoli margini di miglioramento del sistema socioeconomico del capitalismo globalizzato. La storia come ripetizione di Pinochet, una società la cui forma idiosincratica (non passeggera) mescola inserimento nel mercato-mondo, accesso a tecnologie di punta, povertà e precarizzazione dell’impiego compensata dalla massificazione creditizia.

Una società dove il movimento operaio non è più un fattore decisivo di potere, come negli schemi populisti; dove la tendenza alla flessibilizzazione delle relazioni di lavoro è e sarà crescente. Cioè, una società dove è e sarà ogni volta maggiore l’indebolimento delle restrizioni giuridiche che ancora impastoiano il libero funzionamento del mercato del lavoro. Le relazioni capitale/lavoro tendono e tenderanno sempre di più a organizzarsi come relazioni tra padroni e individui salariati. Le formazioni collettive di salariati sono e saranno sempre più delegittimate, come cause del funzionamento imperfetto del mercato del lavoro, come “monopoli”.

Per ultima cosa, un tema tanto inevitabile quanto penoso: quella che alcuni chiamano la “conversione” in liberal-social-cristiani o in liberal-socialisti di una parte importante degli intellettuali democratici degli anni Ottanta. Dico che si tratta di un tema penoso perché può trasformarsi in una “caccia alle streghe”, inversa ma altrettanto manichea di quella di McCarthy negli Stati Uniti. D’altra parte gli intellettuali cambiano sempre, posto che si modifichino i contesti culturali o la situazione storica. Cambiare è un diritto. Ma è chiaro che la modifica del punto di vista di intellettuali-politici come Foxley, Ominami o Tironi è stata decisiva nella costruzione del discorso del consenso10. La ristrutturazione dei loro discorsi rivela che la politica del consenso non serve solo a tranquillizzare militari o imprenditori timorosi, ma anche alla svolta di quei politici verso un nuovo contesto culturale, per entrare nel quale bisognava abbandonare il proprio bagaglio in cambio della promessa di un riposizionamento sociale. La nozione di approfondimento democratico si era già volatilizzata prima della caduta del Muro di Berlino.

Il fondo della questione non è la conversione degli intellettuali in quanto individui. È il dispiegamento di un dispositivo in cui si intrecciano intenzioni individuali o di gruppo e restrizioni storiche o strutturali. Quello che è efficace è la connessione non fortuita tra le condizioni del campo politico-culturale e i cambiamenti individuali. Perciò, questo tema non può essere interpretato nella prospettiva atomista degli individui, come se il fulcro della spiegazione siano i cambiamenti d’analisi di Tironi o di Foxley. Il nocciolo della questione è un altro. Consiste nella costituzione, lenta e continua, di una strategia comune delle forze d’opposizione. Da quella è derivata la decisione collettiva di proporsi come alternativa di governo a certe condizioni. Le condizioni erano quelle di una forte restrizione della storicità, che conduce ai cambiamenti minimalisti, alla riproduzione con aggiustamenti. Ma non c’era altra strada, perché si è optato per un obiettivo, una finalità. Si è deciso di governare sapendo in anticipo che le possibilità di cambiamento dipendevano dagli avversari, vale a dire che erano quasi uguali a zero, o che per molto tempo sarebbero state determinate dai calcoli strategici di altri.

Bisogna dire che al principio c’era la passione di governare, la passione per un potere che è l’imitazione del potere. Questa fu la logica strutturante. Ma esisteva un’altra possibilità? La storia non si presenta mai come un vicolo cieco. Le alternative dipendono dai fini e dalla previsione dei costi che si è disposti ad assumere.


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