Nei giorni dell’attentato alla redazione parigina di Charlie Hebdo ho pensato che il silenzioso sgomento di tanti era da preferire alla precipitosa loquacità di taluni, improvvisatisi esperti e commentatori. Come commentare una strage immaginando di trovarvi un senso o di sfoggiare una qualsiasi “competenza”?
A distanza di alcune settimane la mia prospettiva non è cambiata. Trovo però che si sia sviluppata una riflessione cui vale la pena prendere parte. A Charlie Hebdo è stato da poco assegnato il premio al coraggio del Pen, tra le più influenti associazioni di scrittori al mondo. Alla cerimonia non sono intervenuti sei scrittori che avevavo contestato l’attribuzione del premio trovando “razziste” le vignette del periodico. L’incandescente polemica che ne è nata, con opinioni bloccate da entrambe le parti, ha costituito un’occasione mancata per riflettere su laicità e laicismo.
Come elaborare il lutto, e distaccarci dal rabbioso cordoglio dell’attimo successivo? Quali obbligazioni abbiamo, come intellettuali, scrittori, artisti o graffianti disegnatori satirici, nei confronti della società entro cui viviamo? La domanda investe le nostre convinzioni più radicate e l’eredità illuminista che riteniamo di dover raccogliere. Ha importanti implicazioni per il modo in cui intendiamo la cultura e i suoi rapporti con la società, le credenze o la memoria collettiva.
La recente pubblicazione italiana di Antiestetica. Saggi sulla cultura postmoderna, celebre raccolta di saggi curati da Hal Foster, apparsa in edizione originale nel 1983, spinge a considerare quanto sia difficile trasferire punti di vista “progressisti” dalla sfera politico-sociale a quella estetica per trasformare quest’ultima in ambito costituente. Che resta, a distanza di circa tre decenni, degli ambiziosi propositi fosteriani di guerrilla, dell’avvincente rappresentazione del mondo artistico come ambito (foucaultiano) di resistenza e sperimentazione libertaria? A malapena l’esigenza. L’arte contemporanea non è diventata la cellula di gaia sovversione che ci si attendeva divenisse tra la fine dei Settanta e i primi Ottanta. Sono le oligarchie a adunarsi attorno ad essa, non le minoranze culturali cui Foster guardava. Non ha efficacia redistributiva né favorisce la mobilità sociale. Al contrario. E’ il luogo istituzionalizzato dell’autorappresentazione del capitale, lo smagliante sostegno al principio di disuguaglianza. Il “noi” progettato da Foster, da consolidare attraverso l’arte, affettivo e egalitario, è stato spazzato via dall’erosione neoliberista di tessuti affettivi, ideologici e relazionali.
E’ possibile disporre di validi criteri di valutazione – politica, estetica, morale – senza appartenere a una comunità né condividere intimamente una tradizione di pensiero e persino un’esperienza (confessionale o aconfessionale) del sacro? Taluni filosofi pratici di scuola angloamericana se lo chiedono da alcuni decenni, ed è proprio a una domanda di questo tipo che Foster si era proposto di rispondere con la sua antologia.
Il criterio della prossimità (o dell’appartenenza) ha grande rilievo nella teoria culturale. Per essere interpreti o testimoni attendibili o “critici sociali” efficaci, sostiene ad esempio Michael Walzer, teorico politico e direttore della rivista Dissent, occorre situare il proprio punto di vista né troppo lontano né troppo sopra. Riusciremo a modificare lo stato delle cose solo dimostrando di conoscere e onorare le motivazioni più riposte della comunità cui ci rivolgiamo, le sue convinzioni profonde, la memoria che questa ha di sé. Una stessa legge vale anche per gli artisti. La semplice irrelatezza o un’irragionevole esterofilia risultano debilitanti oltreché illusorie.
Per Walzer la tradizione politica ebraica prefigura nel profeta e nel custode della Torah i modelli di riferimento del critico sociale contemporaneo: in entrambi i casi il diritto all’ammonimento scaturisce da una fedeltà profonda al destino collettivo, e la contestazione delle autorità politiche o culturali può compiersi in nome di un “patriottismo” di specie superiore – il termine è forse improprio, lo ammetto, ma non dispongo di facili sostituti: usiamolo dunque per convenzione. In altre parole: può esistere “critica” solo in quanto esiste cittadinanza, dunque condivisione consapevole di una memoria storico-culturale e di norme civili di coesistenza.
Nel suo libro più recente, Political Emotions (2013), Martha Nussbaum gioca a sua volta la carta dell’”appartenenza”. Pedagogista, studiosa di antichità e filosofa morale impegnata politicamente in senso progressista e liberale, Nussbaum si impegna a rimuovere il conflitto tra pensiero critico e emozioni pubbliche, cosmpolitismo e “patriottismo”. Lo fa – questo potrà forse sembrare insolito a noi italiani – richiamandosi a Giuseppe Mazzini, il più illustre tra i nostri patrioti risorgimentali. “Mazzini”, ricorda Nussbaum, “sosteneva che il sentimento nazionale era un ‘fulcro’ efficace, talvolta persino necessario, per chi desiderasse destare sentimenti generosi, tali da estendersi gradualmente all’intera umanità”. Non intendo fare interamente mio il punto di vista di Nussbaum. Ritengo anzi che l’autrice di Non per profitto imponga all’arte un giogo a tratti edificante. Tuttavia, nell’interrogarsi sull’importanza politica della compassione, Political Emotions chiama a una più stretta compenetrazione tra arte e società.
Trovo fuorviante uno slogan oggi molto in auge a Parigi e altrove. “Nessuno [in democrazia] ha il diritto di non essere offeso”. Siamo sicuri che sia o debba essere proprio così? La mancanza di rispetto non giova alla democrazia, e non deve essere rivendicata come diritto. Così come non credo che le giovino solipsismo, incuria o irresponsabilità – neppure quando sia un’attività in principio altamente democratica come la satira a praticarli. Incontriamo qui conseguenze a mio avviso deteriori di quel laicismo aggressivo e dogmatico contro cui la tradizione illuminista più avvertita, Voltaire in primis, non ha smesso di consigliare prudenza.
Sin dai primi giorni dopo la strage ho considerato meritevoli di attenzione le voci che invitavano a rifiutare un’adesione dogmatica all’opinione prevalente. Il controslogan “Je ne suis Charlie”, in cui personalmente mi riconosco, non voleva certo costituire un’offesa per le vittime. Per niente. Rivendicava invece la necessità di una posizione terza, ferma nel rifiutare la violenza omicida e nel portare la propria parte di lutto ma al tempo stesso contraria all’insulto. Rispetto reciproco, buone pratiche argomentative e senso del limite – attitudini che la satira di Charlie Hebdo non coltivava scrupolosamente – possiedono grande importanza anche (e forse soprattutto) all’interno di società laiche e pluralistiche come le attuali.
La tradizione illuminista è ampia e molteplice: non impone valori uguali per tutti né obbliga a un universalismo dogmatico. E’ indubbio tuttavia che la rigida separazione tra sfera pubblica e sfera religiosa sulla quale abbiamo edificato le attuali democrazie “tecnocratiche” non è in grado di mobilitare passioni, combattere la disguaglianza e dissolvere il reciproco pregiudizio. “Le differenze ignorate affermano se stesse”, osserva Isaiah Berlin in quella sua mirabile fenomenologia storica della modernità occidentale che è Controcorrente (1979), “e finiscono per imporsi contro gli sforzi di accantonarle in favore di una presunta o desiderata uniformità”. Possiamo qui introdurre un’analogia con il mondo dell’arte, anch’esso modellato oggi da taciti principi di intransigente, astorica separatezza. Sorta da una salutare polemica contro le tradizioni ereditate e le istituzioni autoritarie, la disgiunzione modernista tra attività estetica e rito – una disgiunzione aprioristica – ha finito per depotenziare l’immagine e ridurre la nostra capacità di emozione.
Ci è difficile dire “noi” attraverso una qualsiasi opera d’arte, ammirarne il fulgore o provare sentimenti di intimità e appartenenza davanti ad essa.Incredulità, disaffezione e cinismo prevalgono (e pour cause!) tanto da risultare pressoché normativi. Il modo in cui oggi guardiamo all’arte contrasta singolarmente con l’esperienza estetica che si aveva ancora in un recente passato; e che era del tutto o in parte estranea al mercato dei beni di lusso. L’impasse in cui ci troviamo non è semplice né ovvia. Nel nostro paese il rapporto tra ceti politico-imprenditoriali e “classi creative” è da tempo interrotto, e questa circostanza aggiunge complessità al caso italiano. In quale “comunità” territoriale, giuridica o istituzionale potremo mai riconoscerci? Abbiamo smesso da tempo di attenderci sostegno da istituzioni solerti e capaci di cura – in breve: ci è più facile immaginare noi stessi come apolidi, letteralmente “senza patria”. Il solo ormeggio di cui disponiamo ha a che fare con l’eredità culturale, non con la società circostante, ed è comprensibile che possa rivelarsi tenue o insoddisfacente.
Scismi e diaspore costruiscono essi stessi comunità, ed è prevedibile che nuovi orientamenti di carattere radicale, tali da congiungere processo creativo e trasformazione politica, possano maturare solo all’interno di cerchie che pratichino forme innovative di dissobbedienza civile e dissenso, coese e solidali, situate del tutto al di fuori dei partiti di tradizione “laburista” o delle classiche organizzazioni del lavoro. Emergeranno in un prossimo futuro, portando con sé quei mutamenti (non semplicemente tecnici o stilistici) che oggi ci sembrano più necessari? Nessuno può dirlo, anche se per più versi ce lo auguriamo. Possiamo agire perché questo accada.