È stata un estate molto calda per le corride, e non solo in senso letterale. Ormai anche in Spagna il numero dei detrattori di questo spettacolo ha superato quello dei sostenitori, e fuori dai confini iberici viene generalmente considerato uno scandalo che vengano tenute in vita tradizioni così sanguinarie e crudeli. Non c’è molto da dire a difesa delle corride, né valgono granché gli appelli alla tradizione e all’artisticità, o le motivazioni economiche: nessuno rimpiange le lotte tra gladiatori, sebbene presentassero notevoli elementi mitopoietici e di teatralità e garantissero discreti introiti. La mutata sensibilità culturale nei confronti degli animali, delle loro vite e dei loro diritti è del tutto incompatibile con l’uccisione dei tori (e a volte dei toreri) nelle arene. Non è neppure la prima volta che – nella sua storia secolare – questa tradizione viene aspramente criticata: figlia del siglo de oro (la prima scuola della moderna corrida venne fondata a Siviglia nel 1670), incontrò l’opposizione compatta degli illuministi, compreso il re Filippo V di Borbone che la vietò per 25 anni.
Quello che dunque apparve un anacronismo anche ai suoi contemporanei, non può oggi che suscitare una decisa condanna. Eppure, prima di liberarci per sempre delle corride, dovremmo riflettere un attimo su cosa stiamo gettando via e comprendere quale sia la forza innegabile che ne costituisce il fascinum. Ed è proprio il carattere di sopravvivenza e anacronismo della corrida che ci permette di fare un passo in questa direzione: dovremmo cominciare ad analizzarla (ripeto, non per giustificarla, ma per comprenderla) non con le nostre categorie illuministiche occidentali (la crudeltà verso gli animali è inaccettabile, tutti gli esseri viventi hanno uguale diritto alla sopravvivenza, ecc.), ma proprio attraverso la logica del barocco che la permea. Innanzitutto il toro non è mai stato un animale come gli altri: legato da una stretta relazione con gli dei e in competizione con gli uomini, è sempre stato l’animale sacrificale per eccellenza, parte fondamentale del complesso rapporto tra l’uomo e il divino. Ricordiamo, tanto per fare un esempio, che il motivo scatenante al fondo del mito del Minotauro è costituito proprio dalla volontà da parte di Minosse di non sacrificare il toro donatogli da Poseidone. Questo atto viene punito in modo terribile: Pasifae, moglie di Minosse, concepisce un’insana passione per il toro stesso, e dal suo accoppiamento nasce Asterione, metà uomo e metà animale, un monito mostruoso contro chi ha osato sovvertire l’ordine sacro della natura.
Nella tauromachia, dunque, che attraversa in varie forme la storia dei paesi mediterranei dalla civiltà Minoica all’attuale Spagna, si assommano numerose linee di riflessone che caratterizzano lo sviluppo del pensiero occidentale. La commistione tra la morte e la vita, l’animale nell’uomo, il conflitto tra uomo e natura, la potenza del maschile, il sacrificio rituale, la vittoria dell’intelligenza e della strategia sulla forza, l’essere di fronte alla morte, la bellezza del gesto: ciascuno di questi temi (e altri se ne possono individuare) ha trovato una sua declinazione, al contempo popolare e profondissima, nella lotta tra l’uomo e il toro. Questo elemento è stato colto, in prima istanza, dall’arte iconografica di ogni epoca, a partire dai pittori delle ceramiche cretesi per arrivare fino a Goya e, per citare uno degli esempi più recenti, a Francis Bacon, autore di una serie di dipinti intitolati Study for a Bullfight nei quale indaga il divenire-animale dell’uomo: in essi, l’elemento dello spettacolo è secondario, quasi assente (come dimostra la progressiva cancellazione del pubblico dell’arena) e l’uomo e l’animale sembrano trasmigrare l’uno nell’altro, trascinati dalla forza della danza/lotta che li unisce fino a formare una sorta di minotauro ritualizzato. Ed sono forse proprio questi elementi del movimento, della danza rituale e della morte – elementi barocchi per eccellenza – che rappresentano il motivo di fascino estetico più forte agli occhi dello spettatore contemporaneo della corrida. I costumi magnifici, la lenta preparazione, la ritualità e il significato preciso delle azioni, la presenza ossessiva e dolente della morte in ogni gesto, nel sangue, nei colori sgargianti, le elaborate costruzioni sceniche ci riprecipitano in quel theatrum mundi inebriante sul quale la Controrifoma aveva così efficacemente fatto leva per ricompattare la cristianità cattolica. E nella perfetta coincidenza barocca di teatro e mondo, viene sovvertita ogni logica della rappresentazione: tutto in questa finzione è vero, ed essa terminerà (quasi sempre) con una morte reale.
Quest’ultimo elemento è sicuramente il più inaccettabile per presente, dato che siamo tutti convinti che la vita, e non solo quella umana, sia un valore in sé che va tutelato ad ogni costo. È evidente che si tratta di una grande conquista di civiltà: nessuno vorrebbe tornare a vivere ai tempi dell’Inquisizione e in una società in cui alcuni si credono superiori ad altri per diritto divino. Eppure dovremmo stare attenti a non mancare un ammonimento che aleggia in questa vicenda delle corride. Stiamo progressivamente perdendo il contatto con il negativo dell’esistenza: la morte, la sofferenza, la malattia, la violenza vengono sempre più percepite come storture intollerabili, incompatibili con una vita degna di essere vissuta, da combattere ed eliminare ad ogni costo, anziché come elementi che costituiscono una parte ineliminabile della vita stessa. Con una felice espressione, Slavoj Žižek afferma che il sogno contemporaneo è quello di vivere in una “realtà decaffeinata”: ovvero quello di godere appieno delle bellezza e dei piaceri dell’esistenza evitando di accettare il fatto che questo comporta inevitabilmente che ci sia un prezzo da pagare (cfr. Slavoj Žižek, Iraq, Raffaello Cortina Editore, Milano 2004, pp. 151 e segg). Il tentativo in Spagna di Podemos di sostituire le corride con delle gite in bicicletta va proprio in questa direzione: possiamo divertirci tutti insieme senza che nessuno debba soffrire… Non è così semplice. Vivere in una realtà derealizzata, virtualizzata, ci pone di fronte a paradossi insostenibili: come comportarci nei confronti delle tradizioni culturali diverse dalla nostra? Accettarle solo se sono compatibili con il nostro sistema di valori, che si dà per scontato essere quello giusto? Insomma, l’Altro va tollerato e rispettato finché non è davvero Altro, finché è simile a noi e compatibile con la nostra ideologia. E non cambia nulla se questa alterità, come la corrida, è iscritta nel seno della nostra cultura e identità: anche della nostra storia ci sono degli elementi da buttare e altri da tenere.
Dovremmo dunque accettare ogni forma di barbarie in nome del rispetto delle diverse culture? Rinunciare a ogni forma di giudizio e azione politica in nome di un malinteso fatalismo multiculturale e relativistico? Assolutamente no. Come ho detto all’inizio, per la corrida è probabilmente suonata l’ultima ora, ed è un bene che sia così. Ma non dovremmo considerare questo processo come naturale e aproblemtico, in qualche misura aprioristicamente “giusto”. Si tratta di fare delle scelte, di decidere politicamente cosa accettare e cosa no, assumendocene la responsabilità ed essendo consapevoli che esse comportano dei rischi, e che le conseguenze saranno almeno in parte imprevedibili e indesiderabili e che, in ogni caso, non saremo più quelli di prima.