Sexus mundi
Soggetto, velo e oggetto si istituiscono insieme, legge ed eros sorgono in un sol colpo. Quando si tenta di spiegare questa origine simultanea attraverso una narrazione calata nel tempo – quando la si traduce nella macchina del sapere – si finisce necessariamente in un anello dove l’inizio è la fine. Ci sono molti modi di raccontare questa storia, in forma di tragedia o in forma di commedia, ma sono tutti affetti da circolarità. E lo sono proprio in quanto racconti: la circolarità sta tutta e soltanto sul lato del sapere.
Vediamo prima la versione da tragedia. Col taglio significante si istituiscono la legge e la sua proibizione fondamentale. La legge impedisce al soggetto un accesso immediato all’oggetto, la Cosa materna, che mantiene divisi tramite il velo («proibizione dell’incesto» in antropologia, «castrazione simbolica» in psicoanalisi). Quando cala il velo, che ostacola il godimento, ecco comparire insieme anche il desiderio. «Stàccati da tua madre! – dice la legge – Esci di casa e troverai il tuo vero compimento!». Hanno così inizio le avventure del soggetto che, in mancanza di un godimento immediato, inizia il lungo cammino del desiderio: non avendo cioè accesso alla Cosa, rimbalza da un pezzo all’altro, di fetta in fetta, con la promessa che il paradiso perduto sarà riconquistato alla fine della catena di rinvii. Ma alla fine, tolto ogni velo, giunti finalmente sulla soglia del godimento, l’unità fusionale che la legge e il sapere vagheggiano non si dà mai a vedere come tale. Perché, vista con gli occhi del sapere, quella che dovrebbe essere la felice unione del soggetto col proprio oggetto del desiderio non è che un ammasso di parti isolate, un montaggio artificioso di pezzi inerti, un godimento a fettine. Questo è ciò che il sapere e la legge vedono messi di fronte alla scena di un rapporto sessuale. Di qui l’imbarazzo della legge per non aver mantenuto la promessa, la vergogna pubblica di chi ha chiesto sacrifici in nome di un bene superiore che – ai suoi stessi occhi – si rivela alla fine ben poca cosa: ciò che la legge vede (due corpi tra loro avvinghiati) più che il paradiso (l’unione mistica suggellata dal famigerato «sentimento oceanico» deriso da Freud) pare carne da macello (è l’effetto pornografico di una visione senza veli). Scandalo! Il promesso godimento totale (ut unum sint) è in realtà sempre parziale, non è cioè altro che godimento di singoli pezzi in modo un po’ autistico e masturbatorio (il cosiddetto «godimento dell’idiota»: Lacan 1975a, p. 76). La legge copre dunque l’onta della propria disfatta con un velo pietoso: sulla scena cala il sipario.
Si noti la circolarità: il velo posto all’inizio è lo stesso posto alla fine. Era già da sempre lì. Il sipario che cala pietosamente sul finale è lo stesso che sin dall’origine separa il soggetto dall’oggetto e lo costringe all’iter del desiderio. Anche quando ogni velo empirico cade, resta infatti sempre un velo trascendentale, quello che impedisce al sapere – a causa del suo funzionamento grammaticale – di vedere lì, nel rapporto sessuale, l’unione promessa. Il velo è cioè pharmakon, contemporaneamente veleno e rimedio al medesimo veleno: è ciò che impedisce l’accesso alla Cosa e, insieme, ciò che nasconde pietosamente tale fallimento. Sicché l’intera narrazione è un anello, come quei film che raccontano un loop temporale in cui lo stesso protagonista è insieme l’effetto e la causa dei medesimi eventi (Tenet di Christopher Nolan, per citare il più recente, o, portando questa stessa logica all’estremo, Predestination di Michael e Peter Spierig, in cui il protagonista è contemporaneamente padre e madre di se stesso).
La versione da commedia è assai meno malevola, tutto finisce bene e la legge ne esce in maniera virtuosa. Questa, infatti, non stende un velo pietoso sulla scena pubblica del rapporto sessuale nel tentativo di salvarsi la faccia, ma per indicare che il compimento del soggetto non è in ciò che pubblicamente si vede. La legge, cioè, copre saggiamente la vista del rapporto sessuale così come Heidegger barrava la parola «essere». Il compimento a suo modo c’è ma non è traducibile nell’oggetto di un vedere/sapere, non lo si può ridurre alla scena pubblica di due corpi avvinghiati. Velando la scena, la legge suggerisce che lì c’è molto di più rispetto al semplice rapporto sessuale visto (ossia: saputo) come una somma di pezzi separati. E questo di più coincide con l’itinerario che lo stesso soggetto ha dovuto compiere staccandosi dalla madre e uscendo di casa per giungere sin lì. Come in ogni favola che si rispetti, la vera meta era il viaggio. Ovvero: non il sesso in sé, ma l’amore che ha guidato il soggetto verso l’oggetto del suo desiderio e che ha sorretto le loro vicissitudini. L’amore è il compimento, ciò che supplisce alla mancanza del godimento totale e fusionale tra i due (Lacan 1975a) che così vivranno per sempre felici e contenti (o quasi…).
Anche in questa versione da commedia, con finale più o meno lieto, è palese la circolarità tra il velo posto all’inizio (la proibizione dell’incesto che costringe il soggetto a uscire di casa perché realizzi il viaggio) e quello posto alla fine (l’ingiunzione a non confondere il trascendentale con l’empirico, il viaggio con la meta): il primo è la causa del secondo (solo uscendo di casa si può compiere il viaggio) ma il secondo è la causa del primo (è solo per compiere il viaggio che si esce di casa, salvo scoprirlo a posteriori). Di nuovo un anello dove l’inizio è la fine.
Un tratto della versione da tragedia può rintracciarsi in Che cosa È il sesso? di Alenka Zupančič quando l’autrice insiste sul fallimento (in termini lacaniani: l’inesistenza del rapporto sessuale) che caratterizza tanto il piano del godimento (supposto fusionale) quanto il piano del sapere (supposto totale), suggerendo che il velo sia lì a coprire quel che non c’è (il significante mancante che dovrebbe completare la catena). Una declinazione più raffinata della versione da commedia è invece offerta da Alain Badiou, laddove valorizza la descrizione lacaniana dell’amore come ciò che, tessendo un legame, supplisce all’inesistenza del rapporto sessuale (Badiou 2019).
Tragedia o commedia, entrambe le versioni hanno una base dialettica, che poi si torce sino a disegnare un circolo, vizioso in un caso, virtuoso nell’altro. Entrambe ruotano su pieni e vuoti, presenza e assenza, più e meno, ciò che manca e ciò che supplisce: sono due diversi modi di vedere dialetticamente il medesimo squilibrio, bicchiere mezzo pieno o bicchiere mezzo vuoto. In tutte le versioni, lo squilibrio è contemporaneamente la causa e l’effetto e s’incarna in un elemento che funge da pharmakon, insieme veleno e rimedio. Come il taglio originario (il taglio significante) che nella narrazione apre la prima scena e che si ritrova ancora alla fine nelle vesti di casella vuota. O come la funzione fallica, che in Lacan è insieme «barriera» e «tappo» (Lacan 2011) rispetto all’assenza del rapporto sessuale: elemento di impasse ed elemento di compensazione (Chiesa 2016). Ma perché ogni tentativo di delucidare l’avvento di tale squilibrio facendone una narrazione (questo giustifica quello, questo è causa di quello) e svolgendolo nel tempo (questo viene prima, quello viene dopo) cade nella circolarità? Perché ciò che realmente avviene è simultaneo. Non dialettico. Dunque, come altrimenti raffigurare l’origine di soggetto, velo e oggetto, come altrimenti intendere il sesso (e lo squilibrio che esso incarna nel sistema generando scandalo) senza ricorrere alla dialettica di pieni e vuoti, presenza e assenza, prima e dopo?
L’unico modo di comprendere i film che si svolgono interamente in un loop temporale è concepire tutte le fasi che si sono viste scorrere nel tempo come un unico evento che s’irradia simultaneamente in tutte le scene. Come se un’unica luce, un lampo, avesse impressionato istantaneamente tutti i fotogrammi. L’anello in cui l’inizio è la fine o la lemniscata che simboleggia l’infinito, spesso usate come chiavi di lettura per sbrogliare trame cinematografiche di questo tipo, non sono dunque figure adeguate sotto cui pensare tali film. Così come non lo sono per comprendere il sesso e lo squilibrio che esso incarna. Queste figure suggeriscono l’idea di uno svolgimento lineare, per quanto curvo, in cui due punti terminali finiscono per collegarsi, quando invece si tratta di pensare tutti i punti in un colpo solo, in una sorta di «causalità radiante, a raggera» (Campo 2018, p. 344).
Più consona pare allora la figura di un campo di forze, in cui non vi è né inizio né fine, ma un simultaneo disporsi di elementi che s’istituiscono come tali con questo stesso disporsi senza mai finire di istituirsi. Un campo inseparabile dagli elementi che lo popolano senza per questo identificarsi con le loro provvisorie configurazioni. Qualcosa come una struttura, ma pensata in chiave post-strutturalista, dunque nei termini dinamici di una potenza. Nel corso del tempo, e soprattutto nella sua fase calante, lo strutturalismo sembra aver abbandonato – sia in ambito filosofico che antropologico che psicoanalitico – alcune rigidità dialettiche che ne avevano caratterizzato gli esordi, giungendo a concepire la struttura in termini più fluidi, più ondulatori: non tanto una forma trascendente (in senso kantiano) quanto una forza trans-immanente o «intra-agente» (nel senso di Barad 2017). Più simile dunque a un campo gravitazionale che a un’architettura articolata per differenze (presenza/assenza, pieni/vuoti, mancanze/supplenze). Più assimilabile a un’onda che a un insieme di particelle (per prendere a prestito la terminologia della fisica contemporanea). In realtà si è così tornati al punto di partenza, se si pensa che lo strutturalismo francese, come stagione culturale che ha segnato un’epoca, nasce con il capolavoro di Lévi-Strauss, pubblicato nell’ormai lontano 1949, Le strutture elementari della parentela, nelle cui pagine conclusive troviamo proprio l’immagine del campo gravitazionale:
«Nessuna relazione potrebbe essere isolata arbitrariamente da tutte le altre; e non è neppure possibile tenersi al di qua o al di là del mondo delle relazioni: l’ambiente sociale non deve essere concepito come una cornice vuota entro la quale gli esseri e le cose possono essere legati o semplicemente giustapposti. L’ambiente è inseparabile dalle cose che lo popolano; riunite esse costituiscono un campo gravitazionale in cui le forze e le distanze formano un insieme coordinato, e in cui ogni elemento, modificandosi, provoca un cambiamento nell’equilibrio totale del sistema» (Lévi-Strauss 1949, p. 619).
Dunque, lo strutturalismo è tornato infine al suo punto di inizio, come in un anello, o i due modi di concepire la struttura, quella di un’architettura organizzata dialetticamente e quella più fluida di un campo gravitazionale, hanno sempre convissuto sin dall’inizio in una singolare sincronia? Raddoppiando il contenuto sulla forma, ci si potrebbe chiedere: la stagione strutturalista, e l’intuizione che l’ha articolata, è essa stessa un anello in cui l’inizio è la fine o un campo di forze? A leggere attentamente Lévi-Strauss sembra più probabile la seconda ipotesi (Redaelli 2019a). Sebbene egli accarezzi sin dall’inizio l’idea di una struttura come forma trascendente, la figura del campo gravitazionale risulta centrale nel modo in cui l’antropologo parigino concepisce Le strutture elementari della parentela. È quanto chiarisce nelle righe immediatamente successive a quelle appena lette:
«Abbiamo fornito una illustrazione almeno parziale di questo principio analizzando il matrimonio dei cugini incrociati. Ma è evidente che il suo campo di applicazione deve essere allargato a tutte le regole di parentela, e prima di tutte a quella regola universale e fondamentale che è la proibizione dell’incesto» (Lévi-Strauss 1949, p. 619).
Che cosa significa, però, pensare la proibizione dell’incesto – ossia il divieto fondamentale che istituisce la legge e la sessualità – come un campo gravitazionale, come una forza trans-immanente o intra-agente?
La proibizione dell’incesto, che in ogni civiltà regola e istituisce la sessualità nelle sue articolazioni sociali, è analizzata da Lévi-Strauss come un puro principio formale in grado di generare l’intera scacchiera delle parentele: una sorta di operatore che produce un campo gravitazionale, un lampo che si fa immediatamente rete di rapporti differenziali (padre, madre, figlio, zio, ecc.) entro cui si articolano ruoli e funzioni sociali (Redaelli 2019b). Pensarlo come principio trans-immanente o intra-agente significa dunque due cose. In primo luogo, significa pensare che il padre e la madre non sono altro dal figlio, ma emergono con lui simultaneamente, proprio come nel film Predestination, ricordando i celebri versi di Artaud «Io, Antonin Artaud, sono mio figlio, mio padre, sono mia madre, e sono io». Ovvero significa pensare che il corpo è senza organi, per riprendere un’altra espressione artaudiana, e che il sesso non produce nulla, non è finalizzato a nulla, non ha il suo fine fuori di sé: come scrive Jean-Luc Nancy, è un atto senza scopo sottratto alla logica del risultato (Nancy 2016). In secondo luogo, significa pensare che tutto questo desta scandalo. Ovvero che il lampo, una volta generato il campo e iscrittosi in esso, produce tanto la legge che differenzia i ruoli (padre, madre e figlio, per stare al classico triangolo edipico, più l’intera articolazione delle parentele) quanto l’intoppo, la pietra d’inciampo (skandalon) che distorce il campo e disturba quegli stessi ruoli. La proibizione dell’incesto come lampo è cioè il medesimo accadere del sesso come taglio (sexus): è l’operatore che istituisce l’ordine simbolico; è l’evento che innesca un campo con tutta una serie di rapporti e di tensioni dialettiche tra i suoi elementi (padre, madre, figlio, ecc., qui intesi come elementi tagliati, già accaduti e separati); è ciò che declina la differenza sessuale e articola la sessualità come perenne campo di battaglia e terreno di conflitto politico in quanto struttura costitutivamente attraversata da uno squilibrio. Dunque, sesso (sexus) in primo luogo, scandalo (skandalon) in secondo luogo.
«Il sesso fa scandalo» va a questo punto letto sulla scia del motto heideggeriano das Ereignis ereignet («l’evento accade»): il sesso si fa scandalo, si dà come pietra d’inciampo, si declina come rete dialettica di rapporti conflittuali. Così come, durante il cosiddetto «collasso della funzione d’onda» nella fisica quantistica, l’onda si fa particella. Sembrerebbe allora necessario pensare due momenti, due dimensioni, in una sorta di dualismo onda-particella (o, in termini spinoziani, sostanza-modi): da una parte l’onda, ossia la dimensione evenemenziale, virtuale e simultanea di un sesso-sostanza senza scopo (in cui padre, madre e figlio sono il medesimo); dall’altra le particelle, ossia la dimensione temporale, attuale e dialettica dell’inciampo, in cui vige un sessuale differenziato, piegato ai capricci dei modi già istituiti e sottomesso ai loro giochi di potere (triangoli edipici e loro contestazioni). Ma come la sostanza, spinozianamente, non sta altrove dai suoi modi, così il sesso evenemenziale (sexus) non sta altrove dal suo scandalo, senza per questo mai ridursi a esso. Il sesso è una vibrazione, un evento che si dà immediatamente come scandalo, come intoppo e articolazione di questo stesso intoppo in un mondo, in un sistema di elementi in continua tensione, senza esaurirsi in quel mondo. Si tratta perciò di pensare queste due dimensioni in una sola espressione e come una sola espressione, ovvero come un solo accadere: sexus mundi, evento del mondo.
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Leggi la terza parte Perché il sesso fa scandalo? Cosa imbarazza
Leggi la seconda parte Perché il sesso fa scandalo? Cosa si traccia
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