“Rageen Vol. 1”: in fuga con gli Okiees e Pippo Delbono. Intervista ad Andrea Rabbito

Fondere la musica indie folk rock con la videoarte, il cinema con il libro d’arte, la performance con l’illustrazione, la letteratura con la poesia. È l’obiettivo della trilogia “Rageen” ideata dal collettivo catanese Okiees, composto Andrea Rabbito (professore di Cinema, fotografia e televisione presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”), Adriano Murania (violino dell’Orchestra del Teatro Massimo Bellini di Catania e collaboratore di Carmen Consoli e Franco Battiato), Simone Liotta (alle tastiere e all’elettronica), che ha al suo attivo già varie collaborazioni fra cui quella con Fiorella Mannoia e Mauro Melis (alla parte grafica e title design).
Il primo “volume” è uscito lo scorso 10 dicembre per Edizioni Kappabit e vede coinvolto uno dei più autorevoli e rivoluzionari esponenti del teatro contemporaneo, Pippo Delbono.
Il carattere transmediale è la vera cifra che distingue questa inedita e multiforme sperimentazione, capace di una totale rielaborazione delle tradizionali definizioni di tecniche, medium e linguaggi. Abbiamo intervistato Andrea Rabbito per approfondire le specificità di questo progetto.

Jenny Dogliani: Partiamo dai nomi, quello del collettivo, Okiees, e quello del progetto, “Rageen”. Entrambi, seppure in termini criptici, esprimono una precisa dichiarazione d’intenti: sono nomi di fantasia che si rifanno a realtà esistenti.

Andrea Rabbito: Abbiamo stabilito da subito la volontà di giocare con i linguaggi, prenderci la libertà, senza temere di alterare e “sporcare” a nostro piacimento ciò che usiamo per esprimerci. Questo vale sia per i linguaggi artistici coinvolti nel progetto “Rageen” sia per la lingua inglese usata per i testi delle canzoni. È un inglese inesatto, sgrammaticato e viscerale, affrancato da regole, qualcosa che nasce dal profondo e si offre nella sua espressione più libera e istintiva. Il motivo è chiaro: stiamo dando voce allo stream of consciousness di uno dei due protagonisti della storia della trilogia Rageen”, Roger Benjamin, che con il suo amico Benjamin Rye compie un viaggio-fuga.

JD: Secondo la tradizione del concept album, le diverse forme espressive diRageensi fondono nella rappresentazione e nello sviluppo di una storia che ha due protagonisti: Roger Benjamin e Benjamin Rye. Una coppia di amici che migrano lontano dalla loro terra di origine.

AR: Sì, due stranieri che scappano, rimangono ai margini, non riescono nel loro tentativo di salvezza e integrazione in un altro territorio, determinando un crollo e un turbinio psichico in Roger, già traumatizzato per ciò che ha patito nella sua terra di origine. La lingua che usiamo è la lingua di uno straniero, di un hostis considerato nella più ampia accezione del termine, contempliamo così non solo il migrante, ma più in generale colui che è reputato “diverso”; e al riguardo citiamo in esergo un passaggio da Straniero di Umberto Curi e le parole di Charles Marlow su Kurtz di quel  capolavoro senza tempo che è  Cuore di tenebra di Conrad. Il modo di esprimersi di Roger Benjamin è per certi versi simile a quello di Lennie Small di Uomini e topi di Steinbeck o a quello di Benjamin Compson di Lurlo e il furore di Faulkner: anche in lui è manifesto un disturbo cognitivo e un suo deteriorarsi, ma il suo non è un ritardo mentale, a differenza dei due esempi letterari. Noi usiamo le sue parole, diamo espressione alle sue visioni e immagini mentali, alla sua rappresentazione del mondo esterno e al suo modo di comunicare.
Da qui nasce il titolo “Rageen”, crasi tra le parole rage e spleen, la fusione tra la foga rabbiosa e il disordine del melanconico, vissuti da Roger Benjamin come un’unica unità.
Anche il nome del collettivo, che accoglie la doppia “e” di spleen, nasce dall’alterazione del termine spregiativo okie, usato per definire i migranti dall’Oklahoma dopo il Dust Bowl negli anni ’30, attentamente descritti da Steinbeck in Furore con Tom Joad e i vari personaggi di quel canto corale.

JD: Esprimete il dolore e la rabbia di chi è costretto a migrare?

AR:.Il collettivo Okiees si rivede in quella compagine che è costretta a scappare, vogliamo cantare e rappresentare il loro malessere, la loro frustrazione, esprimere “la rabbia di un momento, le mille immagini”, citando Steinbeck. Tenendo conto però di una cosa: quella rabbia e malinconia che esprimiamo non sono solo del migrante, ma anche di molti di noi, adagiati nel Paese del benessere. Un “rageen” diverso da quello provato da chi è costretto a scappare dalla propria terra, ma pur sempre vibrante e inteso, e forse più perturbante.

JD: Giocare liberamente con varie espressioni artistiche è una peculiarità del progetto: fondete e decostruite le specificità dei linguaggi e dei medium. In un rimando a “La trahison des images” di Magritte, nell’apertura del volume cartaceo, scrivete: “Quello che avete in mano non è un libro. Non è nemmeno un album musicale. E neppure un film”. Dunque che cos’è?

AR: Il gioco con la lingua inglese e con i vari linguaggi artistici usati come da uno straniero, estraneo cioè alla prassi classica del loro uso e della loro fruizione, ispirandoci a riguardo al pensiero espresso da Deleuze, ci ha portati a rivedere le specificità dei media usati, per collegarci ai concetti teorici di rimediazione, postmedialità e transmedialità.
Abbiamo voluto raccontare una storia, quella di Roger e Benjamin, e per farlo abbiamo deciso, prima di tutto, di dividerla in tre volumi, per comporre una trilogia. Per il primo volume, quello appena uscito, il linguaggio su cui ci siamo inizialmente concentrati è quello musicale. Le dodici tracce del concept album sono caratterizzato da un registro indie rock con influenze folk ed elettroniche (tra i modelli Joy Division, Velvet Underground, John Frusciante, Bill Callahan, Bon Iver, Arab Strap); le dodici tracce danno la descrizione, dalla prospettiva di Roger, di ciò che avviene ai due protagonisti nella prima parte della trilogia.
Da qui è iniziato il nostro “mischiare le carte”: l’album (con prologo, intermezzo ed epilogo al suo interno) prende da un lato la struttura del dramma teatrale, dall’altro quello di un romanzo con i suoi dodici capitoli e le aggiunte dei testi in italiano ad apertura dei brani in inglese.

JD: I testi in italiano assieme ai testi in inglese delle canzoni si offrono dunque come porzioni che compongono un romanzo?

AR: Precisamente. Le canzoni offrono solo il flusso di pensiero di Roger, i dodici testi in italiano invece sono divisi in due parti: la prima è scritta dalla figura del Narratore, la seconda da Roger. E ciò di cui scrivono sarò poi sviluppato nel corrispettivo brano musicale. Per i testi in italiano abbiamo goduto del contributo di un punto riferimento e pilastro di tutto il progetto, Pippo Delbono, che li legge e li interpreta donando la voce e il corpo a entrambi i personaggi, il Narratore e Roger.
Parlo di corpo oltre che di voce poiché attraverso l’uso dei QR Code, presenti nelle pagine del volume, si accede sia ai file audio dei reading di Pippo Delbono sia ai file video in cui lo stesso artista recita. Grazie ai QR Code si possono inoltre ascoltare i brani musicali e vederne i video.

JD: Quali sono le caratteristiche di questi video?

AR: Abbiamo realizzato riprese e montaggio facendo nostra quella che possiamo definire come la “grammatica dello straniero” e ispirandoci alle poetiche filmiche di registi sperimentatori da Guy Debord a Paolo Gioli, da Jean-Luc Godard allo stesso Pippo Delbono e al suo innovativo modo di fare film e riprendere/interrogare la realtà. L’immagine digitale “sporca”, resa attraverso l’uso di diversi dispositivi digitali piccoli e maneggevoli, fusa con quella di materiale d’archivio, si offrono non soltanto come la rappresentazione del mondo di Roger, ma raccontano in termini visivi la sua storia, offrendo un tassello ulteriore per la comprensione della sua vicenda vissuta con il compagno Benjamin.
Questi video e quelli realizzati con Pippo Delbono compongono l’intero film, iscrivibile a un modo di fare cinema in stretta connessione con la videoarte e anch’esso visibile tramite QR Code. Il film è stato proiettato in anteprima lo scorso novembre al Parma Film Festival alla presenza dell’artista ligure e di Augusto Sainati.

JD:A tutto ciò si aggiungono le illustrazioni a colori realizzate con acquarello, che fanno del volume un libro d’artista.

AR: Anche le illustrazioni sono funzionali alla articolazione e comprensione della storia e accentuano ulteriormente quell’orientamento verso ciò che, riprendendo Mitchell potremmo definire un “pictorial turn” della musica. Per questo scriviamo che ciò che abbiamo realizzato non è incasellabile in un preciso insieme.

JD: Transmedia storytelling, rimediazione, postmedialità, pictorial turn: il progetto sviluppa queste pratiche e teorie per creare qualcosa di inedito e sperimentale. In particolare le riflessioni del saggista e accademico Henry Jenkins, specializzato in media e comunicazione, sono centrali nel vostro lavoro.

AR: Sono riflessioni teoriche che descrivono perfettamente l’orientamento di una buona fetta della produzione contemporanea e che indicano e anticipano i nuovi obiettivi e le nuove forme che verranno sempre più a concretizzarsi.  È allo zeitgeist che in primo luogo abbiamo voluto rispondere e che ci trascinato nella nostra sperimentazione. Ma è anche vero che lo studio di quelle teorie che citavi è stato determinante. Abbiamo ad esempio portato all’estremo il processo di rimediazione di Bolter e Gruisin con i media che ibridano altri media. La teoria dei visual studies e il concetto di mixed media di Mitchell sono stati centrali. E Jenkins, i cui studi ci hanno fortemente influenzato: la cultura convergente e la narrazione transmediale descritte dallo studioso statunitense hanno avuto forte ricaduta sul nostro progetto. La storia che proponiamo si articola in vari linguaggi, transita in vari media ognuno dei quali offre un tassello per meglio comprendere ed entrare in profondità nella vicenda. Siamo nel bel mezzo del flusso narrativo transmediale e della cultura partecipativa. I messaggi dei vari media e linguaggi compongono insieme l’intero puzzle; propongono parti della storia dei due protagonisti, spingendo a una fruizione interattiva, a una partecipazione del lettore/spettatore/ascoltatore spinto a incastrare i pezzi del puzzle per avere una visione di insieme di ciò che sta accadendo a Roger e Benjamin.
Tutto converge in un libro che però non è più un libro, ma qualcos’altro: un transmedia book, come lo definisce il nostro editore Marco Contini, specializzato nell’uso del QR Code nel campo editoriale e musicale (vedi i lavori fatti con Økapi, My Cat Is An Alien, Francesco Massaro & Bestiario).

Okiees & Pippo Delbono, “Rageen vol.I” (Edizioni Kappabit, 2021)

JD: A proposito di partecipazione interpretativa, ad apertura del volume citate Paul Valéry: “le compositeur propose, l’auditeur dispose”.

AR: Ma visto che ciò che proponiamo non è solo musica, alla citazione di Valéry andrebbe aggiunto anche “lettore e spettatore”. A questi offriamo una produzione che abbraccia vari linguaggi per sollecitare in primo luogo il piano emotivo, ma per poi portarlo a interpretare il senso di ciò che ha letto, visto, sentito.
Prendiamo ad esempio le immagini del film che si uniscono alla musica dell’album. Quello che si fruisce potrebbe solo apparentemente risultare un semplice flusso variegato di scene audiovisive subordinate alla musica e al testo del cantato, funzionali solo a una maggiore stimolazione emotiva.

JD: Secondo un modello consueto di una vasta produzione videomusicale.

AR: Sì; differentemente le immagini audiovisive proposte in “Rageen Vol. 1” sono qualcosa di più articolato. Si propongono infatti, da un lato, come le “riprese di Roger”, offrendoci il suo punto di vista del mondo, di interrogare ciò che vede e registra, nello specifico Catania, con la sua bellezza e la sua forza violenta, che si offre come la prima meta a cui approdano i due protagonisti; dall’altro lato, si offrono delle immagini di repertorio che hanno segnato un immaginario, per divenire le visioni di Roger, e dare così il corrispettivo in immagine del suo flusso di coscienza.
L’incontro tra le nostre riprese e le immagini di repertorio ci ha permesso di essere, da un lato, puramente evocativi, giocando sul piano delle emozioni nella sua relazione con la musica; ma, dall’altro lato, ci ha consentito di fornire una narrazione attenta di ciò che accade ai due protagonisti; ogni immagine scelta è funzionale al racconto, e assume senso nel montaggio con le altre immagini e con la musica, con il testo narrativo, con le illustrazioni. Certo, il film si offre in prima battuta in modo criptico; ma è un invito al fruitore a dare una propria interpretazione a ciò che sta vedendo e sentendo.

JD: Il musicologo e musicista Vincenzo Caporaletti ha scritto sul vostro lavoro considerandolo come espressione di una “vera avanguardia di oggi che restituisce il senso veritativo della tradizione autentica della cultura rock”, citando il filone dei Velvet Underground e di Andy Warhol. E ha inoltre messo in evidenzia il contributo di Pippo Delbono in veste di attore e cantante.

AR: Sono parole che ci onorano particolarmente proprio in quanto pronunciate da uno studioso e musicista del suo spessore. Ci appagano di tutto il lavoro e lo sforzo fatto (per un lungo tempo) da me, Adriano Murania, Simone Liotta (che si è occupato anche del mixaggio e della masterizzazione) e Mauro Melis. E come siamo grati a Caporaletti, così lo siamo a Pippo Delbono, per il lavoro e il tempo trascorso insieme e per lo splendido risultato da lui ottenuto e offertoci. La sua voce come attore e come cantante in sei brani è qualcosa di unico. Ha una capacità di esprimere una grandissima forza e profondità drammatica che mi travolsero, e continua a farlo, sin dai tempi di Barboni, mostrando a tutti noi un nuovo modo di fare e vivere l’arte. Noi tutti siamo debitori di Pippo Delbono.


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