Il tema della violenza sulle donne occupa ormai da molti anni le prime pagine dei giornali. Se le violenze o gli abusi subiti da donne sono universalmente condannati, in che modo viene avvertita dall’opinione pubblica la figura di colei che è accusata di omicidio nei confronti del proprio aggressore? Stiamo parlando sempre di vittime o di carnefici? Ripercorrendo la vicenda giudiziaria di alcuni di questi soggetti, il volume “La legittima difesa delle donne” (a cura di Claudia Pecorella, Mimesis Edizioni, 266 pag., € 24, 2022), intende analizzare le cause sociali e di genere che hanno creato un’evidente distanza tra chi è chiamato a giudicare questi atti e la realtà vissuta dalla donna vittima di violenza. In occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, che si celebra oggi, venerdì 25 novembre, ne pubblichiamo un estratto.
Il processo ad Angelina Napolitano è passato alla storia perché per la prima volta ci si è resi conto di quanto sia ingiusto giudicare una donna che uccide il marito violento senza tener conto di ciò che ha preceduto quella condotta, l’ha in qualche modo “guidata” ed è quindi in grado di spiegarne il senso. Benché il difensore – nominato poche ore prima della (unica e breve) udienza – avesse invocato l’attenuante della “provocazione”, per le tante violenze che il marito in precedenza aveva inflitto ad Angelina, la richiesta era stata rigettata dai giudici, rendendo così inevitabile la condanna alla impiccagione, solo posticipata nella sua esecuzione per consentire alla donna di portare a termine la gravidanza in corso. Una condanna che ha scosso le coscienze di tanti e ha aperto gli occhi sull’incapacità del sistema penale di proteggere adeguatamente le donne:
L’unica cosa giusta, nei confronti della Sig.ra Napolitano, sarebbe che un uomo desse la vita per lei perché la sua vita ora è in pericolo [per la condanna a morte] a causa dell’accanimento di un uomo su di lei e perché sono stati degli uomini ad averla giudicata.
A metà degli anni ’80 una vicenda analoga è tornata all’attenzione della giurisprudenza canadese, ma questa volta la violenza coniugale è stata considerata in sede processuale, portando (già) in primo grado a una sentenza di assoluzione. Tale risultato, messo in discussione dalla Corte di appello, è stato poi consacrato dalla Corte Suprema nella celebre sentenza Lavallée del 1990, con la quale – non diversamente da quanto statuito alcuni anni prima dalla Supreme Court of New Jersey nel caso State v. Kelly (1984) – si è dichiarata ammissibile la testimonianza in giudizio di uno psichiatra, volta a far comprendere il contesto nel quale una donna può reagire, arrivando ad uccidere, per difendersi dal partner violento. Un contributo decisivo a questa svolta giurisprudenziale ha dato la elaborazione della cd. Sindrome della donna maltrattata (BWS) da parte della psicologa americana Leonore Walker: lo studio dei sintomi “tipici” che la violenza domestica, reiterata per un certo tempo, provoca nelle donne è servito, da un lato, a rendere credibile la ricostruzione dei fatti presentata dalle vittime, consentendo al giudice di comprendere il loro stato d’animo nel momento in cui hanno agito (quello di chi è consapevole di essere continuamente in pericolo) e, dall’altro lato, a spiegare comportamenti e reazioni, altrimenti incomprensibili, che per le donne vittime di questo tipo di violenza sono da considerare sostanzialmente “obbligati”, stante la loro costante e uniforme ripetizione, in ogni tempo e in ogni luogo (come il fatto di non riuscire a interrompere la relazione violenta e di ricorrere anche all’omicidio pur di avere una chance di salvezza). Nel caso Lavallée, attraverso l’intervento dell’esperto sono state acquisite informazioni sulla situazione che aveva portato la giovane donna ad uccidere il suo compagno, la sera in cui le aveva preannunciato che se lei non lo avesse ammazzato lo avrebbe fatto lui; informazioni tratte da colloqui diretti con la donna – e prive altrimenti di alcun riscontro probatorio, essendosi la donna rifiutata di deporre in aula – e sulla cui base, come si è anticipato, la giuria aveva ritenuto nel giudizio di primo grado di doverla assolvere per aver agito per legittima difesa, benché – si noti – nel momento in cui aveva sparato l’uomo stesse uscendo dalla stanza e quindi fosse di spalle. E tanto dirompente è stato considerato il cambio di prospettiva, che qualche anno dopo, nel 1995, sono state riconsiderate, per decisione del Ministro della Giustizia, numerose condanne per omicidio pronunciate nei confronti di donne, nell’eventualità che il fatto si fosse realizzato nel contesto di una situazione di violenza domestica che, se correttamente considerata, avrebbe potuto portare il giudizio ad un esito diverso: il pericolo di aggressione avrebbe potuto, cioè, essere ritenuto ragionevole e inquadrabile in una situazione di legittima difesa. Merita qualche riflessione anche il fatto che siano stati per primi i componenti di una giuria popolare ad arrivare a valorizzare il contesto violento nella loro decisione: risponde evidentemente al comune senso di giustizia che una donna sia legittimata a difendersi, nei tempi e nei modi con i quali riesca a farlo (considerata la condizione svantaggiata di partenza), dalla violenza che il partner per diverso tempo si sia permesso di farle subire, nella certezza della sua impunità – proprio perché uomo – e confidando nello stato di sottomissione della sua vittima, al punto di farle le peggiori minacce e poi con tranquillità voltarle le spalle o andarsene a dormire. In quelle valutazioni “avanzate” dei giurati – poi condivise dai giudici di ultima istanza – si può cogliere un’idea di giustizia che non ha riscontro nella legge, o meglio, nella interpretazione che di essa viene data nella prassi, e che impedisce di trattare come un’omicida la donna che ha ucciso il tiranno domestico per interrompere la spirale della violenza della quale era prigioniera.
(Mimesis Edizioni, 266 pag., €24, 2022)
La stessa idea che sembrano condividere i giurati spagnoli quando sono chiamati a giudicare una donna che ha ucciso il partner violento, in base a quanto emerso da un recente studio, che ha messo a confronto le valutazioni espresse in casi di questo tipo dalle giurie con quelle dei giudici togati, competenti nell’ipotesi in cui l’azione difensiva della donna, per circostanze spesso del tutto casuali, non abbia causato la morte. L’indagine ha mostrato come la giuria popolare sia più comprensiva – e quindi più benevola – nei confronti della donna rispetto ai giudici togati, che sembrano ignorare completamente la violenza di cui essa è stata vittima per mano dell’uomo che ha poi ucciso: una diversità di giudizio che non dipende – come si potrebbe ipotizzare – da un’interpretazione meno rispettosa del tenore letterale delle norme, ma che è semplicemente frutto di “una applicazione più ragionevole della legge penale”. Solo la giuria popolare risulta aver valorizzato il contesto violento nel quale si era verificato il fatto e il comportamento successivo della donna (la sua disperazione e la sua richiesta immediata di aiuto), anziché concentrarsi esclusivamente sull’arma utilizzata e sulla parte del corpo attinta, come solitamente avviene: non sorprende, dunque, che solo tra le valutazioni delle giurie si siano avute delle sentenze di assoluzione, accanto ad altre di condanna a pena diminuita per effetto di qualche attenuante. Piuttosto, sorprende che mai da parte dei giurati sia stata ritenuta sussistente la legittima difesa: la spiegazione va probabilmente colta nel fatto che – per quanto è stato possibile verificare– l’esclusione della punibilità per legittima difesa non figurava tra le possibili alternative che i giurati dovevano prendere in considerazione in base alle istruzioni ricevute dai magistrati che presiedevano il collegio. Una scelta verosimilmente dettata dalla preoccupazione che persone meno condizionate da “apriorismi tecnici”, quali i giurati, avrebbero potuto pervenire a ritenere giustificato l’omicidio realizzato dalle donne per difendersi: una conclusione che si è ritenuta non accettabile in partenza. Del resto, anche le potenzialità dell’invocazione della Sindrome della donna maltrattata in sede giudiziaria sono state nel tempo ridimensionate: la considerazione del contesto violento alla base del gesto omicida è andata sì diffondendosi – e anche al di fuori dei procedi- menti penali – ma è servita soprattutto per limitare l’entità della pena, comunque inflitta alle donne. Così, ad esempio, nel Regno Unito, la prova che l’imputata abbia agito in preda alla BWS porta di regola a sostituire una condanna per omicidio volontario (murder) con una per omicidio colposo (manslaughter), attraverso il riconoscimento della provocazione (provocation) oppure – e più spesso – della responsabilità diminuita (diminished responsibility), con il conseguente passaggio da una sicura detenzione a vita a una pena integralmente rimessa alla discrezionalità del giudice, senza un limite minimo.
Di fronte a queste soluzioni giurisprudenziali, grave è il sospetto che l’attenuazione della pena sia una sorta di “premio di consolazione” per la mancata applicazione della legittima difesa, dovuta forse a sottaciute considerazioni di prevenzione generale. L’invocazione della BWS sposta direttamente l’attenzione dei giudici sull’atteggiamento psicologico che ha accompagnato la condotta della donna, tanto più dopo la sua inclusione, alla metà degli anni ’90, nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali della American Psychiatric Association (DSM-IV): una prassi inaccettabile per le ripercussioni negative che produce sul piano culturale, facendo apparire l’uccisione del tiranno domestico la manifestazione di un’anormalità psichica della donna – tanto da dar luogo a responsabilità diminuita – anziché il risultato della violenza coniugale che ne è all’origine.
[…]
In conclusione, il superamento dell’orientamento giurisprudenziale refrattario al riconoscimento di una situazione di legittima difesa nell’aggressione mortale all’uomo maltrattante si gioca tutto sulla acquisizione di consapevolezza, da parte dei giudici, della necessità di indagare il vissuto di violenza nel cui ambito si colloca la reazione della donna e di sapere riconoscere le conseguenze che quella violenza ha prodotto sul suo comportamento: nella conoscenza di quel contesto sta infatti il “bandolo della matassa”, come emerge chiaramente da due delle sentenze richiamate in questo volume.
[…]
È pur vero che una recente indagine empirica sulle pronunce di legittimità degli ultimi vent’anni ha messo in luce come l’istituto della legittima difesa trovi nel nostro ordinamento una scarsissima applicazione, a testimonianza, verosimilmente, di una certa – comprensibile – ritrosia dei giudici a ritenere giustificate reazioni difensive da Far West, in presenza per di più di un ampliamento dei confini della scriminante di cui è più che dubbia la compatibilità con la Costituzione. Una situazione che però non ha niente a che vedere con i casi che qui interessano, nei quali a difendersi da un’aggressione (di lunga data) sono donne, di solito incensurate, che cercano di salvare la propria vita (e talvolta anche quella dei loro figli) da una spirale di violenza diventata insopportabile. Donne che finiscono con il ricevere una condanna ingiusta, che ci spiega perché evitano di rivolgersi al sistema della giustizia penale per avere protezione, sentendosi costrette a confidare nella loro capacità di resistenza che talvolta, però, si esaurisce senza che loro stesse abbiano potuto rendersene conto. Le donne, lo abbiamo sottolineato in apertura del volume, davanti alle Forze dell’ordine sopraggiunte sul luogo del fatto (e da loro spesso chiamate) si presentano sconvolte e incredule per quello che è capitato in quella manciata di secondi, nei quali l’istinto di sopravvivenza ha avuto la meglio su ogni loro buon proposito di sopportazione ad oltranza. Non diversa, del resto, è stata la descrizione che del suo gesto da subito offre (e più volte conferma) il ragazzo che ha ucciso il padre nel caso n. 1:
Il mio è stato un raptus, mi scuso, non ero in me, non ricordo neanche quello che ho fatto, non lo farei mai più. Io sono un bravo ragazzo, non ho mai fatto neanche una rissa, il mio è stato istinto di sopravvivenza.
Da quanto abbiamo detto sin qui sembra di poter dire che in base alle norme vigenti, oggi, nel nostro ordinamento i casi che abbiamo richiamato avrebbero potuto avere una conclusione diversa. Lo dimostrano i casi di assoluzione che si sono avuti per fatti di questo tipo in epoca più recente: dal caso che abbiamo definito “facile” giudicato dal Tribunale di Tivoli (caso n. 6), a quello appena definito dalla Corte d’assise di Torino (caso n. 1) – nel quale, come nel precedente, l’imputazione per omicidio non riguardava la donna, compagna dell’uomo violento, ma suo figlio – per finire con quello della Corte d’appello di Torino (caso n. 7), che si è pronunciata confermando la pronuncia assolutoria del primo grado: questa vicenda ha peraltro riguardato una donna che soffriva di disturbi psichici accertati (un disturbo borderline di personalità), che risulta aver condizionato, sia pure solo in parte, l’esito del giudizio, ai fini della esclusione di ogni rimprovero per colpa nei suoi confronti.