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“Bisogna sognare!” Un ricordo di Valerio Evangelisti

A un anno di distanza dalla scomparsa di Valerio Evangelisti, Sandro Moiso, curatore de L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis Edizioni, 232 pag., 20 €, 2023), ricorda lo scrittore-militante.

Ogni buon scrittore ha una visione. Ha un qualche tipo di sogno, un certo modo con cui lui o lei riesce a cambiare il mondo. E il successo di uno scrittore o di una scrittrice può essere misurato a seconda della sua capacità di cambiare l’immaginazione del lettore. I più grandi scrittori e le più grandi scrittrici sono sempre stati coloro che hanno cambiato l’immaginazione dei loro lettori.

James Ballard, intervista giugno 1992[1]      

Valerio Evangelisti è stato uno scrittore unico nel panorama letterario italiano a cavallo tra XX e XXI secolo. Non soltanto per essere stato uno degli scrittori italiani più tradotti, apprezzati e venduti all’estero, ma anche perché è stato uno scrittore-militante e lo è stato sia dal punto di vista politico che da quello della collocazione dei suoi testi e della sua scrittura. Anzi, è forse la sua scelta nel secondo ambito a farne risaltare ancor più l’aspetto “militante” nel rivendicare sia l’appartenenza che la difesa alla e della letteratura di genere o, per meglio dire con un termine che spesso utilizzava, paraletteratura.

Esponente di una generazione che osò rompere, tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta, con la noia e l’oppressione dell’esistente oltre che con l’arretratezza politica, culturale e ideologica che aveva contribuito a frenare, sia da destra che da sinistra, l’evoluzione sociale, e che l’anonima mano che tracciò, sulle scale della facoltà di Scienze Politiche della Sorbona nel 1968,  quello che sarebbe diventato lo slogan più ricordato del maggio francese (L’imagination prend le pouvoir – L’immaginazione al potere), trasformò nell’intuizione di qualcosa che già si andava affermando nei fatti, ma che non era ancora avvertita in tutta la sua reale portata.

Un mondo in cui, in Italia, sulle porte delle parrocchie era ancora affisso l’Indice dei libri e di tutte le letture (spesso fumetti, gialli e fantascienza) che un buon cattolico doveva evitare per non cadere nel “peccato”, mentre la politica culturale del PCI condannava qualsiasi lettura o espressione artistica che non facesse riferimento agli ambienti e agli ideali (alquanto sconnessi in realtà) dell’intellighenzia, all’epoca piuttosto ampia e servile, che ruotava intorno al “più grande partito comunista dell’Occidente” e ai suoi riferimenti all’URSS.

Insomma, un contesto in cui la letteratura allora definita “d’evasione”, i fumetti, il nascente rock’n’roll con le sue successive evoluzioni, erano in gran parte fermamente condannati e proibiti. tanto nelle chiese quanto nelle aule scolastiche, nei programmi radiofonici e televisivi o nelle riunioni e nei dibattiti (entrambi noiosissimi) nelle sedi e sui giornali dei partiti che avrebbero dovuto rappresentare il “progresso sociale”.

Un contesto in cui, seguendo gli intenti “culturalistici” di certa sinistra, occorreva separare ancora nettamente la cultura “alta” da quella di “massa”.

Per la nascente critica “radicale”, invece, si trattava di inventare un nuovo mondo, con miti aggiornati e pochi veri giganti sulle cui spalle poter ancora salire[2]. In cui anche sul terreno dell’”immaginario” si sarebbe dovuta combattere una feroce battaglia.

Come ha scritto lo stesso Valerio Evangelisti :

Nel primo numero della rivista politico-letteraria “Carmilla” (1995), allora in forma cartacea, e con diffusione da fanzine, si sosteneva che l’immaginario sarebbe stato uno dei campi di battaglia a venire, per la sinistra di classe e per le forze antagoniste. Questa previsione è stata ampiamente confermata. Oggi basta gettare uno sguardo sullo scenario socio-economico, o anche sul nostro semplice quotidiano, per scoprire quale peso vi abbiano l’immateriale, la costruzione fantastica, il sogno a occhi aperti (o anche chiusi).

[…] Perché il capitalismo si regga bene in piedi, deve invadere anche le aree non sottoposte al suo dominio diretto, economico e politico. La tripartizione della giornata teorizzata dai socialisti di un tempo (“otto ore per lavorare, otto ore per istruirci, otto ore per riposare”) va abolita – ed è ovvio, se si pensa che l’immaginazione è diventata produttiva. Lo spazio per “istruirsi” è il primo a dover essere colonizzato, essendo quello maggiormente insidioso per il potere. […] L’immaginario è dunque tra i terreni salienti di battaglia, per chi voglia sottrarsi alla dittatura più insinuante, senza scrupoli e invasiva che la storia ricordi. Sta di fatto che gli Stati Uniti furono tra i primi (sebbene non i primissimi, preceduti dai fascismi) a intuire l’importanza di quel terreno di scontro. Nel secondo dopoguerra nacquero ovunque loro agenzie (USIS) intente a imporre, soprattutto attraverso il cinema, il modello di vita americano come il migliore e il più desiderabile. Simultaneamente la pubblicità si incaricò di trasferire l’attenzione dal valore d’uso al valore di scambio, potenziando quest’ultimo con un carico d’informazione, divulgato a livello mediatico […] L’esito di questi processi l’abbiamo sotto gli occhi. Almeno in Occidente, l’economia vede tra i suoi colossi imprese gigantesche che producono esclusivamente informazione, e nulla di concretamente utile. Assicurano vite parallele con brevi escursioni nella fantasia. Occupano l’attività onirica sostituendo sogni fasulli a quelli naturali[3].

Riprendendo, indirettamente, i temi già sviluppati dal polemista e scrittore nichilista russo[4], che già aveva ispirato la celebre frase di Lenin citata nel titolo del presente ricordo.

Se l’uomo fosse completamente sprovvisto della facoltà di sognare in tal maniera, se non sapesse ogni tanto andare oltre il presente e contemplare con l’immaginazione il quadro compiuto dell’opera che è abbozzata dalle sue mani, quale impulso, mi domando, l’indurrebbe a cominciare e a condurre a termine grandi e faticosi lavori nell‘arte, nella scienza e nella vita pratica?… Il contrasto tra il sogno e la realtà non è affatto dannoso se chi sogna crede sul serio al suo sogno, se osserva attentamente la realtà, se confronta le sue osservazioni con le sue fantasticherie, se, in una parola, lavora coscienziosamente per attuare il suo sogno. Quando vi è un contatto tra il sogno e la vita, tutto va per il meglio[5].

Rileggendo le frasi di Pisarev è inevitabile riconoscere una motivazione prossima alle affermazioni di Valerio Evangelisti rivolte alla necessità di lottare sul piano dell’immaginario, colonizzato dal nemico, per giungere a un suo rovesciamento insieme al modello sociale che lo ha prodotto e rafforzato. Ed è proprio in questi territori, in cui il sogno non si configura soltanto come evasione, perdita di sé o manifestazione inconsapevole dell’Io profondo, che finisce col fondarsi l’intera opera narrativa e critica dello scrittore emiliano-romagnolo, come egli stesso amava definirsi.

Il sogno, in Evangelisti, è spesso quello della lotta o della rivoluzione. Per quanto sconfitta o delusa, come accade in molte delle sue opere, questa non deve cessare di essere sognata e immaginata. Perché senza queste due azioni “creatrici” non è possibile andare oltre la semplice rivolta, per arrivare, invece, un giorno all’affermazione di un “altro” immaginario, retto da un ben più solido e giusto modello economico-sociale.

È all’interno di questa ipotesi e di questa battaglia che va interpretata la vera militanza come scrittore di Evangelisti. Militanza svolta principalmente nell’ambito e a favore della letteratura di genere e popolare da cui Valerio non volle mai prendere le distanze.

Sandro Moiso e Alberto Sebastiani, L’insurrezione immaginaria. Valerio Evangelisti autore, militante e teorico della paraletteratura (Mimesis Edizioni, 232 pag, 20€, 2023)

Certo all’interno della stessa, si trattasse di science-fiction, fantasy, noir o avventura, seppe sempre distinguere tra ciò che era “alto”, anche se non riconosciuto dal canone della cultura ufficiale, imbolsita e irrigidita dai suoi rituali accademici e mondani, e ciò che era, semplicemente, spazzatura. Senza mai nascondere, però, che la peggior spazzatura letteraria ed ideologica si nascondeva proprio in quella che la cultura dominante considerava letteratura colta, se non proprio alta[6].

Non gradendo il fatto di essere etichettato o inserito in un genere specifico, e in questo distinguendosi dalle correnti post-moderne desiderose di farsi etichettare per essere riconosciute dalla critica ufficiale, finì talvolta col contraddirsi, come nel caso della sua collocazione nell’ambito della fantascienza e/o del fantasy.

Come rammenta, infatti, Franco Forte, nel ricordo di Valerio Evangelisti pubblicato come introduzione ad una recente ristampa del romanzo Il fantasma di Eymerich, lo scrittore ebbe modo di affermare: “Non amo che si parli, a mio riguardo, di fantasy. È un genere nobilissimo, ma non è il mio. La fantascienza ha rapporti tenui con la favola. È piuttosto la proiezione del futuro, attraverso ipotesi tecnologiche, economiche, sociali, di eventi accertati o di credenze collettive, anche se riferiti a un passato che pare remoto, come il medioevo che provo a tratteggiare”[7].

Mentre in un altro contesto, parlando della sua formazione come storico e dell’influenza che questa aveva esercitato sulla sua scrittura avrebbe affermato: “l’influenza è stata molto forte perché io pur scrivendo dei romanzi fantasy, chiamiamola fantasy, ho cercato di far sì che ogni dettaglio fosse vero”[8]. Contraddizione solo apparente se si considerano i territori narrativi in cui si svolgono tutti i romanzi del ciclo di Eymerich.

Più chiaro ancora, però, fu la sua ritrosia nell’essere inquadrato in altri fenomeni letterari specifici, forse più prossimi al mainstream, come, ad esempio, nel caso della cosiddetta New Italian Epic[9].

Ribadendo, comunque e sempre, che:

 Nella letteratura popolare, anche quando scritta da fior di reazionari, c’è qualcosa di sovversivo, di refrattario, di irriducibile al potere. L’interlocutore, innanzitutto. Ci si rivolge al lettore occasionale promettendogli di farlo sognare, di coinvolgerlo in avventure che non potranno lasciarlo indifferente. Mica male, in un’epoca in cui la materia onirica e fantastica viene scoperta dal sistema quale terreno da dissodare con attenzione, perché lo stesso sogno, divenuto comune a tutti, abbia riflessi direttamente economici e produttivi. Affermazione individuale, stile di vita edonistico, disprezzo per chi non riesce a tenere il passo: questo è il sogno che viene proposto, e che cela dentro di sé l’insidia di una norma esistenziale. Norma che, come tutte le norme, comprende delle esclusioni.

Per esempio l’ozio, i piccoli piaceri, la cultura stessa quale bene autosufficiente, sono visti oramai come altrettanti ostacoli alla finalizzazione completa e definitiva della vita di ciascuno agli obiettivi del momento: concorrenzialità, mercato, predominio del più forte. Per di più spacciati non come scopo contingente, ma come “valori” eterni e imperituri. Il lettore, casuale o non casuale, di gialli, fantascienza, horror eccetera ha, secondo me, minori probabilità di essere sedotto e addomesticato del consumatore abituale di letteratura “alta”. È abituato a immergersi in piccoli o grandi inferni metropolitani, a penetrare in galassie rette da regole pazzesche, a esplorare mondi alternativi, a scorgere l’incubo nascosto dietro la normalità apparente. La sua narrativa preferita è narrativa del coinvolgimento: è fatta apposta per non lasciare indifferenti. Ed è narrativa dello straniamento dal proprio reale, per immergersi in un altro che può essere bizzarro o esotico, ma che può anche essere, e spesso è, una diversa visione prospettica di quello che egli stesso vive. Inoltre è una narrativa forte, viscerale, in cui la violenza non è un dato incidentale, ma una componente ineliminabile del contesto. E talora, quando si sposta sul versante fantastico, può essere narrativa metaforica, che senza inutili pedagogismi offre chiavi interpretative di portata vertiginosa. Tutto il contrario, insomma, di un futile passatempo. Tematiche come il razzismo, la guerra, la fame, il disagio urbano, l’invadenza dei mass media, l’autoritarismo, l’arroganza del potere eccetera sono per la narrativa “di genere” pane quotidiano. Si può dire lo stesso per la letteratura che da noi è considerata “alta”? […] Lo scrittore “di genere” è a sua volta un tipo anomalo. Ha in mente scopi che certo mettono i brividi al letterato accademico. Ovviamente i quattrini, ma altrettanto ovviamente non solo quelli. Ovviamente divertirsi e divertire, ma altrettanto ovviamente nemmeno questo basterebbe. Più che altro segue i flussi del tempo, con occhio attento. Sa che la sua posizione è lì, non nell’eternità o in un sublime imperituro. Sa che il suo primo interlocutore è il pubblico, e non la critica letteraria, che di solito lo trascura (salvo magari rivalutarlo post mortem). Un pubblico che costituisce il suo mercato, ma che può facilmente scomparire, se non riesce a sedurlo e conquistarlo calandosi nel suo terreno e nella massa viva delle sue paure e delle sue pulsioni. Ne deriva che la collocazione temporale dello scrittore “di genere” è sempre e comunque il presente. Anche quando parla del passato. Anche quando parla del futuro. Anche quando tratta temi che sembrano avere poca attinenza con la quotidianità. Magari è un menefreghista, e si limita al banale. Se però vede nella realtà che descrive delle contraddizioni, le amplifica, perché spera che il lettore sia catturato dall’assonanza problematica. Se poi ha in mente dei discorsi che gli premono, li spiattella senza remore, tanto non c’è nessuno – a parte i lettori stessi – che faccia le pulci al suo predicozzo. Ecco perché lo scrittore “di genere” finisce con l’essere progressista, sovversivo, rivoluzionario, magari controvoglia.

[…] Il fatto è che la narrativa popolare, data la stretta simbiosi con i suoi consumatori, è per forza di cose narrativa di opposizione. Se poi ne diventa consapevole, si trasforma in una bomba. […]  Il “genere” ha una sua logica distruttiva incoercibile. Distruttiva verso il sistema[10].

Oltre a ciò vi è il giudizio sullo stile letterario che Evangelisti ha  chiaramente rivendicato per sé:

I critici italiani sono, quando mi prendono in considerazione, abbastanza divisi: alcuni sono totalmente ostili […] Altri sono più amichevoli […] Qualcosa si è spostato perché ora, in effetti, il genere che pratico è seguito; a volte, però, vengo in qualche modo censurato. Voglio dire, ho scritto un romanzo storico chiamato One Big Union, praticamente quasi una Bibbia dei centri sociali, ma non è stato recensito da nessuno, dal “Manifesto” e basta. In quel caso, è un altro tipo di censura. Però, il resto è una battaglia un po’ difficile che non voglio combattere perché sono troppo vecchio, ci penseranno altri che vengono dopo. Quanto al valore delle mie cose paragonato ad altri autori, non è un mio problema. Io scrivo quello che mi sento, so benissimo di non avere uno stile particolare, ma cerco lo stile più efficace in quel momento. A volte, la frase può risultare estremamente poetica ma non è che io cerchi la frase poetica, butto giù. Adesso ho delle difficoltà a scrivere per problemi tutti miei di salute. Però quando mi metto a scrivere sono come invasato. mi getto e vivo quelle storie lì, le vivo fino in fondo. Se poi non vengono capite, ritenute grezze o cose del genere va beh, a me basta già che ci siano tanti lettori che mi seguono e che mi vogliono bene. Mi scrivono ogni giorno, io ricevo due o trecento mail di gente che mi è veramente affezionata, affezionata ai miei personaggi e al mio mondo. Cosa voglio di più?  Io sono quella cosa lì[11].

Valerio Evangelisti è stato e rimarrà sempre quella cosa lì e scusate se vi sembra poco.


[1] J. Ballard, All That Mattered Was Sensation, intervista e introduzione a cura di Sandro Moiso, Krisis Publishing, Brescia 2019, p. 49.

[2]Motivo per  cui i fumetti, ad esempio, anche i più popolari, sarebbero diventati un efficace strumento del détournement praticato dall’Internazionale Situazionista e dalla critica radicale espressa in riviste come «Puzz» e altre.

[3] V. Evangelisti, La lotta per le “altre” otto ore, in a L. Cangianti, A. Daniele, S. Moiso, F. Pezzini e G. Toni, Immaginari alterati. Politico, fantastico e filosofia critica come territori dell’immaginario, Mimesis, Milano-Udine 2018, pp. 7-8.

[4] Dmitrij Ivanovič Pisarev (1840-1868), polemista tra i più radicali del nichilismo russo, svolse una febbrile attività per diffondere, soprattutto dalle pagine della rivista “Russkoe slovo” (La parola russa), la sua ideologia positivista e materialistica. Scrisse gran parte dei suoi articoli nella fortezza dei Ss. Pietro e Paolo a Pietroburgo, dove fu imprigionato dal 1862 al 1866 per aver chiesto la fine della dinastia dei Romanov e del governo zarista. Dopo la liberazione, cercò invano di ottenere il passaporto per emigrare nell’Europa occidentale, e il 16 luglio 1868 il suo corpo fu trovato nel Baltico, forse suicida.

[5] Citato ancora da Lenin nel Che fare? e ripreso  dall’articolo Le topiche di un pensiero immaturo di D. I. Pisarev.

[6]Riprendendo in tal modo la più nota “legge” dello scrittore di SF americano Theodore Sturgeon, che nel 1951 affermò: “Il novanta per cento della fantascienza è spazzatura, ma in effetti il novanta per cento di tutto è spazzatura”. Sturgeon stesso affermò in seguito che la prima versione della “sua” legge era “Niente è sempre assolutamente così” (Nothing is always absolutely so), tuttavia oggi generalmente ci si riferisce alla frase “Il novanta per cento di tutto è spazzatura” (Ninety percent of everything is crud (o crap).

[7] Cfr. F. Forte, In ricordo di Valerio Evangelisti, in V. Evangelisti, Il fantasma di Eymerich, I classici di Urania n. 1706, settembre 2022, p. 5.

[8] Intervista rilasciata a Elisabetta Carraro il 20 gennaio 2014, in E. Carraro, Valerio Evangelisti, il ciclo di Eymerich e il romanzo dell’inconscio, cit., p. 118.

[9] Ivi, pp. 108-109: “Il discorso Italian Epic non nasce da me, nasce da Wu Ming 1 e dagli altri Wu Ming, ma soprattutto dall’uno, Roberto Bui, e io mi ci sono adeguato come lettura, cioè ognuno è libero di in qualche modo interpretare l’opera narrativa di qualcuno secondo certi criteri. Il limite dell’operazione in quel caso è stato che appariva tanto come un manifesto di una generazione, io non mi ritrovo tanto in questa cosa qua, non sono un teorico cioè se un teorico mi interpreta gli sono grato. Però io non ho seguito linee programmatiche per scrivere qualcosa, ho seguito i miei istinti personali. Dopo Roberto Bui, cioè Wu Ming 1, è stato attaccato da tutte le parti per questa cosa in maniera esagerata, anche perché si era posto così in maniera quasi se dicesse: d’ora in poi la narrativa deve essere di questo tipo. I Wu Ming hanno un po’ questa tendenza e francamente mi chiamo fuori. Sarò New Epic o no, di sicuro mi ritrovo con alcuni degli scrittori che sono citati come New Epic, sicuramente ho delle parentele con alcuni diciamo, ma con altri no”. A ulteriore conferma di quanto affermato da Valerio Evangelisti nell’intervista, occorre annotare come su poco più di quaranta articoli, interventi e recensioni apparsi sull’argomento “NIE” in “Carmilla online” tra il 2008 e il 2011, soltanto uno sia a firma dello stesso, apparso in forma di recensione di un romanzo di Massimo Carlotto su “L’Unità” del 6 maggio 2008 e riunito con uno di Carlo Lucarelli pubblicato su “la Repubblica” del 3 maggio dello stesso anno: www.carmillaonline.com/2008/05/06/literary-opera-evangelisti-e-lucarelli-sul-new-italian-epic/.

[10] Ivi, pp. 68- 70.

[11] L. Santovincenzo, C. Modesti Pauer,“Io sono quella cosa lì”: un’intervista a Valerio Evangelisti su Wonderland, Rai 4, 2012 ora su “Carmilla online”, 21 maggio 2022, www.carmillaonline.com/2022/05/21/io-sono-quella-cosa-li-unintervista-a-valerio-evangelisti-su-wonderland/.



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