Il 9 luglio 1961 nasceva Luca Rastello. A quasi dieci anni dalla sua scomparsa, Elia Faso ne analizza l’opera giornalistica e narrativa con La vivisezione, il primo libro organico e strutturato dedicato al lavoro del giornalista italiano. Su Scenari proponiamo un estratto del libro, in cui viene messa in luce una profonda convinzione di Luca Rastello: la necessità di negoziare con l’esistente per rendere possibile un confronto autentico con la realtà delle cose.
La fessura è da qualche parte nel linguaggio: è da lì che affiora il bagliore, e allora bisogna provare a dargli qualche consistenza. E se non si può creare un altro linguaggio che parli con sicurezza da quella ipotetica fonte di luce, si può almeno tentare di guarire quello che ci è dato dalle retoriche e dagli avvilimenti che la vita nell’era della comunicazione ipertrofica impone. Con una cautela: mai creare un secondo linguaggio, un “linguaggio della salvezza” o “dell’autenticità”, perché questo è esattamente quello che fanno i retori, i manipolatori e i potenti. Piuttosto si tratta di sgretolare ogni forma retorica non appena si consolida e tenta di sedurre la realtà suggerendole un’identità. Ogni forma retorica: anche quella che si è creata per smontarne un’altra. Muoversi, muoversi sempre come l’eschimese a primavera che balza da una lastra di ghiaccio all’altra mentre sulla banchisa ai suoi piedi si aprono enormi crepe: se si ferma è morto, finché saltella vive. [1]
Così scrive Rastello in uno degli appunti per il suo progetto di romanzo Dopodomani non ci sarà, che probabilmente avrebbe trattato la condizione dei pazienti oncologici e l’ospedale come istituzione totale. Rimasto incompiuto, è stato pubblicato postumo nel 2018 dalla vedova Monica Bardi in un volume che raccoglie l’unico capitolo con una forma definitiva, La luce, insieme a vari materiali preparatorii, a riflessioni su argomenti letterari, pedagogici ed etici, alla parodia di un blog Il penultimo viaggio del Malato Riottoso e di Madame Problema, alla ristampa di Penultime (l’introduzione a Undici buone ragioni per una pausa), al commento delle Antigoni di George Steiner, alla trascrizione dell’intervento Il sorriso di Tristram Shandy. Una lettura di Laurence Sterne tenuto a Milano nel 2014 per il ciclo di conferenze “Un testo a testa” e alla Lettera alle pulci piccole in forma di testamento lasciata alle figlie. L’immagine dell’eschimese si adatta bene alla figura dell’autore: oltre ai quattro libri presi in considerazione in queste pagine, in tutto il suo lavoro giornalistico e letterario Rastello non ha cercato di diventare l’esperto di un argomento e di chiudersi nel prestigio simbolico che ne poteva derivare, ma ha saltellato per continuare a vivisezionare ciascuna forma di vita che incontrava. Ovvero, a profanarla, per usare un concetto di Agamben: “se consacrare (sacrare) era il termine che designava l’uscita delle cose dalla sfera del diritto umano, profanare significava per converso restituire al libero uso degli uomini”[2]. La profanazione viene rappresentata come divisiva dai dispositivi di potere che continuamente catturano ciascun “comportamento individuale di soggettivazione” portatore di “un intento liberatorio”[3], e che anche dopo averlo catturato insinuano nei soggetti la convinzione che quel comportamento abbia ancora quell’intento: mentre la mitologia tecnicizzata “aggrega e separa” espellendo chi non la ripete, il discorso critico “divide e mette in relazione”[4]. È la parte necessariamente crudele della critica, lo abbiamo già visto; ma la sua mediazione narrativa le permette di assumere le contraddizioni della realtà e le imperfezioni delle persone che cercano di viverci dentro.
Per questo, il patto del narratore di Piove all’insù con la compagna potrebbe essere esteso anche al lettore:
Facciamo un patto: teniamo viva la rabbia, almeno fino a quando non ci vediamo, facciamo in modo d’incontrarci al colmo dell’incazzatura e aspettiamo di diventare lucidi insieme (PaI, p. 9).
Rastello non vuole nutrire un’indignazione momentanea, più utile al senso di superiorità di chi la prova che a produrre cambiamenti esterni; piuttosto vuole tenere viva la passione morale fino a farla diventare lo strumento di un’interpretazione della realtà più approfondita e più efficace. In questo modo egli crea un campo di tensione dialettica fra i poli del sentimento, che spinge all’azione, e della riflessione teorica, che permette di riconoscere cosa sbarra la strada alle possibilità in nome della necessità. Nella sua scrittura, la mediazione della narrativa non è né una menzogna dilettevole né un ricorso all’immaginario da parte di chi non sa essere pragmatico; al contrario, come scrive Adorno della mediazione dialettica, essa è “il processo di risoluzione del concreto in sé stesso”: nell’indagine della vita particolare la letteratura diventa una “conoscenza veramente allargante”, perché “indugia presso il singolo fenomeno finché, sotto l’insistenza, il suo isolamento si spezza” e coltiva in sé “la duplice e simultanea esigenza di lasciar parlare i fenomeni come tali – il ‘puro osservare’ – e di tener presente ad ogni istante il loro rapporto con la coscienza come soggetto”[5].
È lo stesso Rastello a rivelare quanto secondo lui sia produttiva la dialettica hegeliana nella Lettera alle pulci piccole in forma di testamento, dedicata alle figlie Elena e Olga e raccolta da Bardi in Dopodomani non ci sarà:
Il diverso esiste, anche nelle nostre vite, basta lasciarsi prendere, non rinchiudersi per paura di affrontare il mondo. Aveva ragione il filosofo che ci disse che il padrone è padrone perché ha messo in gioco la sua vita e il servo è servo perché non lo ha fatto (la dialettica poi rovescia e sorprende, ma da questo passo fondamentale, e solo da questo, inizia).[6]
Solo poche righe più sopra si trova un brano che ricorda la protesta dei Minima moralia contro la liquidazione dell’utopia e il “senso angoscioso dell’impotenza della teoria”, entrambi pretesti “per consegnarsi all’onnipotente processo di produzione”[7]:
Non è mai finita. Mai. Non pensate mai di essere arrivate alla forma definitiva: c’è sempre almeno ancora una svolta imprevista, sempre. Se c’è un augurio che posso farvi, allora, è di non cadere mai nella trappola della rassegnazione e dell’accettazione: quasi sempre quella che si presenta come “la vita com’è”, secondo un’espressione cara ai realisti (gente che in segreto ama la schiavitù), è una truffa. Si può uscire, scartare, fare ancora un giro, magari due, magari di più, e poi sorprendersi di come era facile e possibile quello che sembrava impedito dalla logica ferrea di un mondo che ci mettiamo addosso come una prigione ed è invece solo fantasia, malata fantasia che si spaccia per realtà.[8]

I Buoni risulta non riuscito appieno proprio perché la crudeltà della critica ha preso il sopravvento sulle opzioni della mediazione narrativa. Forse anche perché Rastello, in quel libro, sembra essersi convinto, con Adorno, che “non si dà vita vera nella falsa”, cioè che non ci sia redenzione possibile di un’esistenza individuale e sociale così mistificata dal Male; il resto della sua opera, invece, anche quella postuma, tiene ferma l’esigenza che ha portato Fortini a correggere Adorno: “non si dà vita vera se non nella falsa”[9]. È lo stesso Rastello a scrivere che la “tensione alla verità” portata dalla precisione “ha i caratteri di un’utopia, di qualcosa a cui si può soltanto tendere, a cui ci si può tutt’al più approssimare all’infinito”[10]; Adrian dei Buoni, invece, si comporta come quei personaggi che Enrico Testa ha definito “assoluti” perché sentono di aver già raggiunto la Verità e di essere disposti, in suo nome, a liquidare la realtà “a prezzo del proprio disfacimento, con un colpo solo nel miraggio […] della sua reinvenzione”. Chi conosce soltanto “la forma del vero e non quella del necessario” è capace di un’opposizione radicale, ma è destinato al fallimento davanti alla complessità morale dei suoi simili[11].
Negli altri libri Rastello ha preferito rappresentare personaggi “relativi”, capaci di cambiare dopo i fallimenti cercando fra il vero e il necessario la mediazione del possibile e rinunciando alle proprie convinzioni narcisistiche: alla debolezza biologica e al male sociale non rispondono con un collasso nel nichilismo, ma “trasformando il proprio principio di individualità in un luogo di raccolta” dei tu incontrati quasi per caso, vivi e morti, la cui singolarità ricorda il loro “inscalfibile diritto di residenza […] nella vita”[12]. Non eroi che “oppongono un no radicale alla ‘prosa del mondo’”, ma “figuranti”[13] disposti alla “negoziazione con l’esistente”:
Ecco, senza arrivare alla rivoluzione, se riuscissimo a passare dalla conciliazione alla negoziazione con l’esistente avremmo fatto un passo avanti enorme. Ma questo è possibile soltanto se critica, cultura, narrazione, intelligenza, analisi, non sono merci alla stessa maniera in cui lo sono emozioni, tv, ecc. Una scala più ridotta d’intervento consente questo scarto, ti permette la verificabilità, il confronto continuo e l’efficacia, e ti permette di saltellare. Perché a spingerti a saltellare non è una virtù soggettiva – la tua personale disposizione al saltello – ma il confronto. Sei costretto a saltellare, perché ti attaccano, ti mettono in crisi e allora devi vederti in un’altra luce, cambiare il modo di inquadrare i problemi.[14]
Siano essi i testimoni reali della Guerra in casa, i genitori romanzeschi di Piove all’insù o le diverse persone incontrate in Undici buone ragioni per una pausa, queste “approssimazioni d’uomini” vivono nella prosa del mondo e insieme le resistono con scelte responsabili, spesso non rivendicate, che permettono loro di prendersi cura delle relazioni con gli altri. È la vivisezione che il narratore compie su sé stesso e sulle rappresentazioni date a permettergli di interpellarli e riscoprirli: a quel punto, essi rivelano con le loro parole e i loro gesti la “debole forza messianica”[15] che portano dentro di sé, e che lasciano come difficile eredità all’interlocutore:
Li avevano schiacciati sotto una pressa di lavoro, responsabilità ereditate, architettura famigliare, istituzioni, buonsenso e sigarette. Whisky e Negroni con gli amici. Resistevano, scricchiolavano, prima o poi andavano in pezzi, ma in fondo tanti tenevano, avevano scarti imprevedibili, fughe e soluzioni ribelli per la sopravvivenza. Solo che noi non le vedevamo. E la colpa è anche del loro sistema di valori, che imponeva sensi di colpa e d’indecenza, ottundeva il linguaggio: un sistema di valori a espulsione di cui senza capire eravamo complici e succubi proprio quando li giudicavamo. Erano questi i genitori, approssimazioni d’uomini, come noi (PaI, p. 47, mio il corsivo).
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[1] L. Rastello, Dopodomani non ci sarà. Sull’esperienza delle cose ultime, a cura di M. Bardi, Chiarelettere, Milano 2018, pp. 33-34.
[2] G. Agamben, Profanazioni, Nottetempo, Roma 2005, p. 83.
[3] Ivi, p. 106.
[4] D. Giglioli, Critica della vittima, cit., p. 101.
[5] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 78.
[6] L. Rastello, Dopodomani non ci sarà, cit., p. 296.[7] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 41.
[7] T.W. Adorno, Minima moralia, cit., p. 41.
[8] L. Rastello, Dopodomani non ci sarà, cit., p. 296.
[9] F. Fortini, Non si dà vita vera se non nella falsa, in Centro di Documentazione e di Studi sull’Informazione (CESDI), Contro l’industria culturale. Materiali per una strategia socialista, Guaraldi, Bologna 1971; ora in “il lavoro culturale”, 12 novembre 2014, <www.lavoroculturale.org/non-si-vita-vera-se-non-falsa/redazione-lc/2014/> (ultima consultazione: 19 dicembre 2022).
[10] L. Rastello, Dell’orazione civile, cit., p. 65.
[11] E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Einaudi, Torino 2009, p. 28, 10.
[12] Ivi, p. 91, 55.
[13] Ivi, p. 97.
[14] L. Rastello, Piccola apologia della vivisezione, cit.
[15] W. Benjamin, Sul concetto di storia, cit., p. 23 (corsivo nel testo).
