Anche quest’anno il concorso dell’ultima edizione della Mostra Internazionale del cinema di Pesaro ha presentato una serie di film che si misurano con le diverse possibilità offerte dal linguaggio cinematografico contemporaneo. Film che molto spesso sono di rottura rispetto a ciò che è stato fatto in passato e che continuano una ricerca costante nello stesso spirito che da sempre anima la selezione dei film in concorso. A nomi già affermati nell’ambiente del cinema sperimentale (ad esempio Ute Aurand presente col film To Brasil e Martin Arnold con Blackout) si sono affiancati autori emergenti, più preoccupati da imperativi artistici che commerciali. Come la regista vincitrice del concorso Shambhavi Kaul (suo il bellissimo Slow Shift) o i registi Chloë Delanghe e Mattijs Driesen che con l’horror sperimentale Hexham Heads hanno avuto una menzione speciale dalla giuria composta dai critici del Sindacato Nazionale Critici Italiani. Il film, ambientato nell’Inghilterra del Nord, narra i fatti di Hexham in cui due bambini vengono terrorizzati da presunti eventi paranormali. Ne abbiamo discusso con i giovani registi belgi, presenti a Pesaro con la loro opera prima.
Da quale scintilla è nato il progetto Hexham Heads che vi ha portato dal Belgio al Nord dell’Inghilterra?
CD: Mia madre viene dal Galles, per cui sono a metà britannica, quindi c’è stato un periodo in cui ascoltavo molti podcast su varie leggende e fatti accaduti nel Regno Unito. Nel 2016, durante un viaggio nel nord dell’Inghilterra,in cui sono stata raggiunta da Mattijs, ci siamo fermati ad Hexham per fare un sopralluogo; dacché sul momento avevo troppa paura di andare a visitare la casa in cui vivevano i due bambini, solo nel 2019 abbiamo deciso che avremmo dovuto farne un film. Il progetto ha preso molto tempo perché ho affrontato la leggenda in maniera molto seria. Non è questione di crederci o meno ma l’idea di avvicinarmi a quella casa mi rendeva ansiosa: quando finalmente l’anno scorso abbiamo girato ho sentito una sensazione molto intensa.
Da vari anni ormai in Inghilterra c’è una forte attenzione alle radici folk, sia nel cinema horror che nella letteratura, basta pensare a testi seminali come Electric Eden di Rob Young e The Weird and the Eerie di Mark Fisher. Sono testi che hanno avuto un’influenza sulla vostra opera?
CD: Sì è un libro che avevo letto parecchi anni fa e che certamente risuona in Hexham Heads. Non avevamo nessuna pretesa di avvalorare le tesi di Fisher attraverso le immagini, ma il mio linguaggio visivo si è nutrito del suo pensiero.
MD: Per me gli scritti di Fisher sono stati fondamentali. Li ho scoperti da molto giovane e sono stato sorpreso da come lui riuscisse a esprimere così bene la sensazione che ha avuto chi è cresciuto negli anni dieci, che ci fosse qualcosa che non andava. Credo che Hexham Heads contenga molte delle questioni che si era posto Mark Fisher.
CD: Sì, credo che sia stato il primo autore che io abbia letto che mette al centro la questione dell’ansia nello spazio e nel tempo. Da amante dei The Fall e dei film horror, Fisher è stato qualcuno che ha dato voce a certe mie sensazioni in maniera chiara e articolata.
MD: Riguardo al film abbiamo avuto conversazioni anche molto serie sulla sua costruzione dal punto di vista formale e sulla sua struttura, ma ci siamo lasciati guidare anche dal piacere dato dalla visione dei film horror. Nonostante i film horror affrontino temi molto complessi e si nutrano della contemporaneità, volevamo mantenere anche lo spirito di intrattenimento popolare per il quale erano pensati. E credo che Fisher sia stato un maestro nel parlare di temi così complessi in maniera coinvolgente e popolare.
E questo forse potremmo dire anche dei The Fall, che nonostante i loro testi abrasivi e il loro immaginario grottesco mantenevano sempre un certo senso dell’umorismo molto terreno…
CD: Sì, tutto questo coniugato all’ipnotismo della loro musica. Tornando al film, siamo sempre stati molto attenti a non fare un film che sia solo un film intellettuale che si appropria di tutti gli stereotipi del genere horror per sovvertirli: amiamo il cinema horror anche quando è brutto.
Infatti uno dei film che mi è venuto subito in mente è The Blair Witch Project (1999) proprio per l’uso che fa del fuori campo. Ciò che fa paura è ciò che non si vede, e Mark Fisher diceva appunto che il weird è il montaggio, ciò che si crea accostando cose diverse fra loro. Quali sono state le difficoltà nell’affrontare il genere horror in forma così minimale?
CD: Abbiamo avuto molte discussioni e abbiamo fatto molti esperimenti. Alla fine avevamo un po’ paura perché il film è molto vicino a essere un film sul niente, un po’ come in Seinfeld.
MD: Nonostante Hexham Head sia un film horror sperimentale, non ci eravamo prefissati di fare un film horror sperimentale. Avevamo una storia, uno storyboard e sapevamo che avremmo fatto un film horror, ma non sapevamo come. La forma sperimentale è scaturita dall’incontro tra le nostre idee sui film horror e i mezzi che avevamo a disposizione.
CD: Inoltre ci siamo chiesti come potessimo raccontare in maniera efficace la storia delle Hexham Heads con un budget molto ridotto. La scelta di non avere attori professionisti è stata dettata da alcune difficoltà di produzione e al posto di ricostruire la storia con dei personaggi lo abbiamo fatto attraverso diversi formati: le fotografie, il video, le immagini in movimento.
Una ruolo importante nel film è quello della musica, com’è avvenuta la collaborazione col compositore Sam Comerford?
CD: Sam è il mio partner e conosceva bene la storia, quindi dopo una sessione di improvvisazione, abbiamo usato il materiale registrato come guida per il montaggio. Dopo il montaggio Sam ha riscritto tutta la colonna sonora basandosi sul lavoro fatto da me e Mattijs. È stato un processo molto collaborativo influenzato dalla musica folk, dalla musica classica contemporanea e ovviamente dalle colonne sonore dei film horror, con le quali lo abbiamo indottrinato.
MD: Sì, il processo di collaborazione è stato molto aperto ed è stato interessante comporre e montare quasi in contemporanea immagini sperimentali e musica sperimentale.
L’immaginazione è il vero motore del film e tutto parte da questi piccoli artefatti in cemento, che non si sa da quale epoca provengano. Con la scelta di mettere in scena un operaio che scolpisce le Hexham Heads sembra che da parte vostra ci sia l’intenzione di alludere al vostro lavoro di creazione. Dopotutto nel film possiamo vedere Chloe mentre lavora sulle fotografie che ritraggono l’oggetto in questione, un altro modo di creare attraverso l’utilizzo delle immagini. Suppongo che sia anche per questo che avete utilizzato dei formati diversi.
CD: Abbiamo discusso molto sulla scelta del formato. Io sono sempre propensa all’analogico mentre Mattijs ha sollevato l’obiezione che un film sulla materialità delle cose girato in 16mm sarebbe potuto scadere in una mera operazione nostalgica. La scelta di usare le fotografie, ad esempio, ha a che fare con la temporalità degli eventi che narriamo in rapporto all’epoca in cui viviamo, ma anche al fatto che la fotografia è un ottimo strumento di montaggio.
MD: Inoltre, questa storia ha avuto approcci diversi, sia dal punto di vista scientifico che archeologico. Il punto di partenza è che queste teste sono dei ritratti e sono fatte di pietra. Questo concetto di due ritratti che iniziano a disturbare gli abitanti di una casa ha risuonato con la professione di Chloe, che si occupa appunto di ritratti di famiglia ed è per questo che lei si mette in scena. Con il formato VHS forse ha pesato l’influenza di un certo cinema horror, penso ai film di Hideo Nakata e Kiyoshi Kurosawa, ad esempio, mentre l’utilizzo del 16mm è funzionale sia a rievocare gli anni ‘70 in cui sono accaduti gli avvenimenti in questione, sia a mostrare i flash di luce proiettati sui materiali mortuari, che poi tornano a tormentare i vivi. Allo stesso tempo credo che non bisogna necessariamente affidarsi all’utilizzo del formato 16mm e che anche il digitale possa avere una certa qualità spettrale.
CD: E poi sono presenti anche le immagini della ricreazione delle teste da parte di un personaggio, interpretato da mio fratello, girate nella fabbrica dove lavora, assumendo così una funzione documentaria. Credo che la maledizione continui con lui dato che non ha ancora smesso di fabbricare delle piccole statue di teste in cemento. Da Hexham nel Nord dell’Inghilterra a Ostende in Belgio.
Ostende è decisamente una città che si presta bene all’horror, basti pensare a La vestale di Satana di Harry Kümel. Ciò che trovo affascinante nella leggenda delle teste di Hexham è che nonostante qualcuno si sia dichiarato l’autore materiale di queste teste, tra la popolazione abbia prevalso la spiegazione paranormale. Vi è capitato di parlarne con gli abitanti di Hexham?
CD: Avremmo voluto farlo, ma quando abbiamo raggiunto la casa dove hanno ritrovato le pietre la sensazione che abbiamo avuto era molto strana. È facile immaginare una storia nella tua testa, ma poi queste proiezioni immaginarie si scontrano con la realtà, con le strade in cui la gente vive la sua vita quotidiana e le idee che ti sei fatto della popolazione locale possono diventare invasive. Per questo ho voluto mostrare la mia pratica di fotografa, per dare valore al processo di creare immagini di persone e di luoghi. Ma non avevo l’ambizione di fare l’acchiappafantasmi e abbiamo preferito non entrare in contatto con le persone di Hexham durante le riprese, come fanno alcuni blogger che continuano a investigare sul campo.
MD: Forse bisogna accettare il fatto che non eravamo presenti quando sono avvenuti i fatti. Abbiamo però incontrato Colin Robson, uno dei bambini che aveva ritrovato le teste nel giardino, durante la proiezione del film al festival di Berwick. Ci ha raccontato la sua versione dei fatti ed è stato un momento molto toccante
CD: Incontrare Colin mi ha confermato che la scelta di non approcciare questa storia in maniera semi-documentaristica è stata quella giusta. Dopo aver avuto il suo consenso stiamo pensando di farne un film di finzione. Incontrandolo abbiamo capito che se le apparizioni siano o vere o no non importa, ciò che importa è l’effetto che hanno avuto su di lui. Credo che l’essenza del film sia proprio questa: l’impatto che può avere un avvenimento del genere su una vita.
MD: Eravamo interessati a questo cambiamento e a come la struttura del cervello cambia a seconda di ciò che abbiamo vissuto.
Come succede a chi ha subito un trauma..
MD: Sì, però volevamo evitare un approccio psicoanalitico alla questione – e la parola trauma forse viene usata troppo spesso. Mi viene in mente un libro di Victoria Nelson sul paranormale (The Secret Life of Puppets, ndr) in cui si pone la questione di come l’approccio psicoanalitico non neghi l’esistenza degli angeli e i demoni, ma posizioni il loro vissuto all’interno della nostra mente, in un’area a cui è più difficile avere accesso e quindi più difficile da controllare. In questo senso la psicoanalisi è un mito cosí come una qualsiasi storia di fantasmi. E credo che questa internalizzazione prevalga nella maniera di discutere di angeli e demoni in questo periodo storico.
Forse le leggende e il folklore sono nati proprio per dare un senso a degli avvenimenti che non avrebbero altrimenti una spiegazione razionale. Come pensate che Hexham Heads si possa legare al contesto storico-sociale di quel periodo? L’estetica dei luoghi filmati suggerisce un ambiente working-class…
CD: La casa dove abbiamo girato mi ricorda la casa in cui sono cresciuta, con le stesse scale. Volevo ricreare un ambiente in cui i suoni e i rumori fossero quelli fissati nella mia memoria di bambina, ma non avevamo una chiara intenzione di connotare la storia in termini di classe. Eravamo interessati a una dimensione più personale del racconto e alla memoria che questo racconto porta con sé.
MD: È interessante notare che molto spesso uno dei cliché dei film horror è proprio quello della casa stregata, uno stereotipo che probabilmente viene dal fatto che molte case, soprattutto quelle delle classi agiate, sono state acquisite grazie a denaro ottenuto in seguito a terribili misfatti, che spesso tornano a disturbare i vivi. Nel caso di Hexham Heads invece i set sono una casa popolare e una fabbrica, e questo perché il nostro vissuto personale e le nostre esperienze passate erano più vicine al contesto sociale di Hexham. Con questo contrasto volevamo giocare con gli stereotipi del genere horror, per disfarli e in qualche maniera, ripensarli.