E se la storia ufficiale del popolo ebraico, costruita e tramandata dagli studiosi, non fosse altro che un mito con cui giustificare l’impresa coloniale dello Stato di Israele? E se la narrazione che ne propone una storia “unitaria”, descrivendola come un percorso lineare che dall’epoca biblica arriva ai giorni nostri con il ritorno nella terra perduta, fosse il falso ideologico di una storiografia di stampo nazionalista? Su Scenari un estratto dell’introduzione di L’invenzione del popolo ebraico di Shlomo Sand.
Quando si tratta di storia nazionale ci si trova dinanzi a un bosco fitto di alberi le cui chiome impediscono di avere una visione sufficientemente ampia per andare oltre la metanarrazione dominante: la specializzazione scientifica orienta gli studiosi verso determinati aspetti del passato, rendendo arduo qualunque tentativo di catturare la foresta nel suo complesso. L’accumulazione di narrazioni parziali può anche condurre allo sgretolamento di questa metanarrazione, ma perché ciò accada è necessario che la ricerca storica si svolga all’interno di una cultura pluralista che non risenta della tensione legata al conflitto nazionale armato né di una cronica insicurezza riguardo alle proprie origini e alla propria identità.
Una simile affermazione può suonare, e a ragione, pessimista, considerata la realtà israeliana del 2008. Nei sessant’anni di esistenza dello Stato d’Israele, la sua storia nazionale non è progredita granché ed è arduo immaginare che comincerà a farlo di punto in bianco. L’autore non nutre dunque grandi illusioni circa l’accoglienza che riceverà il suo saggio; spera tuttavia che, nonostante tutto, ci sarà chi raccoglierà la sfida di interrogare più a fondo il passato, contribuendo così a smantellare l’identità essenzialista che determina il modo di pensare e di agire della quasi totalità degli ebrei israeliani.
Sebbene l’opera che avete di fronte sia stata redatta da uno storico di professione, l’autore ha scelto di correre alcuni rischi che di solito non sono concessi agli specialisti in materia. Secondo le regole del gioco accademico, lo studioso del passato deve restare nel suo ambito di ricerca specializzato. Un rapido sguardo ai titoli dei capitoli sarà sufficiente per capire come i temi trattati nel libro coinvolgano invece più settori scientifici: studiosi della Bibbia, storici del periodo antico, archeologi, medievalisti e soprattutto specialisti di storia degli ebrei insorgeranno davanti all’intruso che ha sconfinato illegalmente nei loro campi di ricerca.
Posizioni del tutto giustificabili, e l’autore ne è pienamente consapevole. Sarebbe stato meglio se il volume fosse stato realizzato da un’équipe di ricercatori anziché da uno storico solo. Purtroppo non è stato possibile, perché l’autore non ha trovato chi collaborasse a quest’azione criminosa. Di conseguenza, è probabile che nel saggio si trovino alcune imprecisioni per le quali l’autore si scusa fin d’ora, invitando i critici a contribuire a correggerle. Non considerandosi un Prometeo che ha rubato il fuoco della verità storica per donarlo agli israeliani, non teme che l’onnipotente Zeus, ossia l’Associazione scientifica degli storici dell’ebraismo, invii un’aquila a rodere il fegato della sua teoria dal suo corpo incatenato. Chi scrive desidera soltanto mettere in evidenza un fatto ovvio: avventurarsi al di fuori del proprio ambito di competenza specifico e solcare le linee di confine con altri contesti prossimi può in certi casi aprire prospettive nuove e rivelare punti di contatto sorprendenti. Spesso una riflessione “ai margini” invece che “dall’interno” può essere di stimolo alla disciplina storica, malgrado i limiti della non specializzazione e il suo marcato carattere ipotetico. Gli specialisti di storia ebraica hanno finora evitato di porsi alcune questioni chiave che di primo acchito possono apparire ingenue ma che sono invece basilari. Farlo al posto loro può forse essere utile: è davvero esistito un popolo ebraico che si è preservato per millenni mentre tutti gli altri “popoli” si dissolvevano e scomparivano? Come e perché la Bibbia, impressionante biblioteca teologica che nessuno sa dire con certezza quando fu redatta o composta, è diventata un libro di storia affidabile per la nascita di una nazione? In che misura la monarchia asmonaica, i cui diversi membri non parlavano una medesima lingua e in maggioranza non sapevano né leggere né scrivere, può essere considerata uno Stato-nazione? L’esilio degli abitanti della Giudea si verificò con la distruzione del secondo Tempio o si tratta di un mito cristiano finito non per caso nella tradizione ebraica? Se l’esilio non si è mai verificato, che ne è stato della popolazione locale e chi sono quei milioni di ebrei saliti alla ribalta della storia nei luoghi più disparati? Se gli ebrei dispersi per il mondo fanno tutti parte del “popolo ebraico”, quali elementi etnografici accomunano la cultura di un ebreo di Kiev a quella di un ebreo di Marrakech al di là dell’appartenenza religiosa e di alcune pratiche rituali?
È possibile che, malgrado tutto quello che ci è stato raccontato, l’ebraismo sia stata soltanto un’affascinante religione la cui diffusione ha preceduto l’affermazione delle religioni concorrenti, il cristianesimo e l’Islam, e che, nonostante le umiliazioni e le persecuzioni, è riuscita a sopravvivere fino ai nostri giorni? La teoria che considera l’ebraismo come un’importante cultura-fede e non un’uniforme cultura-popolo è davvero un suo svilimento come i ferventi sostenitori del nazionalismo ebraico continuano a ripetere da centotrent’anni? Se non c’era un comune denominatore culturale e laico tra le comunità religiose ebraiche, è possibile che i “legami di sangue” abbiano mantenuto coese tali comunità quando il contesto esterno le separava? Tutti gli ebrei fanno dunque parte di questo popolo-razza straniero come dal diciannovesimo secolo gli antisemiti li immaginano e vogliono che siano percepiti? Hitler, sconfitto militarmente nel 1945, celebrerebbe dunque la propria vittoria. sul piano intellettuale e razionale nello Stato “ebraico”? Che possibilità ci sono di sconfiggere la concezione secondo cui gli ebrei avrebbero caratteristiche biologiche precipue (quello che un tempo veniva definito “sangue ebraico” e oggi “gene ebraico”) quando molti degli attuali abitanti di Israele sono sinceramente convinti della propria omogeneità razziale?
Ulteriore ironia della storia: in Europa ci sono stati periodi in cui veniva immediatamente tacciato di antisemitismo chi sosteneva che tutti gli ebrei appartenessero a un popolo di origine straniera; oggi se qualcuno si azzarda a dire che coloro che sono considerati ebrei nel mondo (distinti dagli attuali ebrei israeliani) non hanno mai costituito né attualmente costituiscono un popolo o una nazione viene subito bollato come anti-israeliano. Per via della peculiare concezione nazionalistica del sionismo, lo Stato d’Israele, a sessant’anni dalla sua fondazione, rifiuta di considerarsi come una repubblica sorta per i suoi cittadini. Come tutti sanno, un quarto di questi ultimi non è considerato ebreo e, nello spirito delle leggi statali, lo Stato non è dunque il loro, né appartiene loro. Fin dall’inizio, inoltre, questo Stato ha sempre rifiutato l’assimilazione degli abitanti autoctoni nella nuova sovracultura che stava creando, escludendoli deliberatamente.
Allo stesso modo Israele si è rifiutato di diventare una democrazia consociativa (sul modello della Svizzera o del Belgio) o multiculturale (come la Gran Bretagna o l’Olanda), cosa che avrebbe significato essere uno Stato che accetta le diversità in esso presenti e al contempo si pone al servizio dei suoi abitanti. Israele si ostina invece a definirsi come uno Stato ebraico che appartiene a tutti gli ebrei del mondo, sebbene questi non siano più esuli perseguitati ma cittadini con pieni diritti nei paesi in cui hanno volontariamente scelto di continuare a vivere. Il pretesto per questa grave violazione del principio fondamentale delle moderne democrazie, unito alla preservazione di un’etnocrazia senza confini che discrimina pesantemente una parte dei suoi cittadini, si basa sul mito sempre vivo di una nazione eterna destinata a riunirsi un giorno nel “paese natio”. Non è semplice scrivere una nuova storia degli ebrei attraverso il prisma del sionismo quando la luce che lo attraversa si scompone in colori fortemente etnocentrici. Un’avvertenza per i lettori: la presente opera, nella quale si avanza l’ipotesi che gli ebrei abbiano sempre costituito importanti comunità religiose stabilitesi in diversi luoghi e non un’etnia con un’unica origine che si è spostata in un costante esilio, non tratta direttamente di questioni storiche. Suo scopo è mettere in discussione il discorso storiografico tradizionale, il che conduce, di quando in quando, a dover proporre narazioni alternative. L’autore ha avuto come punto di riferimento per il suo percorso l’interrogativo avanzato da Marcel Detienne: “Come denazionalizzare le storie nazionali?” Come si può smettere di proseguire lungo le medesime strade pavimentate di sogni nazionalistici? Il sogno di una nazione ha costituito una tappa importante nello sviluppo storiografico e in particolare in quello della modernità.
A partire dal diciannovesimo secolo molti storici lo hanno condiviso. Verso la fine del secolo scorso i sogni nazionalistici hanno comiciato ad andare in pezzi. Gli studiosi hanno iniziato a decostruire sempre più le grandi narrazioni nazionali, in particolare i miti dell’origine comune che avevano fino ad allora segnato tutte le cronache del passato. È superfluo aggiungere che la secolarizzazione della sto ria è avvenuta dietro la spinta della globalizzazione culturale che nel mondo occidentale assume le forme più disparate. Gli incubi identitari di ieri costituiranno i sogni identitari di domani. Come ciascuna individualità si compone di identità instabili e variegate, così anche la storia possiede un’identità nomade. Questo libro intende approfondire proprio questa dimensione individuale e insieme collettiva che è immersa nelle profondità del tempo. Lo scandaglio degli abissi della storia degli ebrei che viene effettuato in questo saggio differisce dalle comuni narrazioni, il che non significa che sia privo di soggettività o che l’autore sia immune da ogni inclinazione ideologica. È stato invece suo esplicito intendimento proporre alcune linee della futura controstoria che forse contribuiranno alla creazione di una diversa memoria indotta, una memoria che è consapevole della verità relativa di cui è portatrice e che è volta a unire identità locali di là da venire con una coscienza critica e universale del passato.